Purtroppo li stanno togliendo da YouTube, ma su Facebook qualcosa si trova ancora: i provini del Grande Fratello commentati dalla Gialappa’s Band. Ci sono Cicciobenzina e il tallone da killer, ma anche quelli che, alla domanda “cosa porteresti su un’isola deserta?”, rispondono i profilattici, i soldi, la fidanzata. Nessuno si vede naufrago. Nessuno tranne Deleuze, che apre, continua e conclude la carriera immaginando di essere su un’isola deserta. In un’appendice a Logica del senso chiede: “cosa accade a un uomo solo, senza Altri, sull’isola deserta?” La stessa domanda emerge nel suo primo saggio di filosofia, negli anni cinquanta. E nell’ultimo libro, Che cos’è la filosofia? celebra lo spirito d’avventura dell’Inghilterra, Atene moderna, capace di “piantare le proprie tende di isola in isola, sul mare”.
A Deleuze le isole deserte piacevano almeno quanto i gatti, in proporzione diretta al fastidio che gli davano le strade affollate, le urla dei matti, il calore da stalla scambiato per affetto, gli altri, l’Altro e le altre levinassate da oratorio. Ma chi sono gli altri e cosa gli hanno fatto per meritare il suo dispetto? Per Deleuze, paradigma degli altri è un tizio che sbuca dal nulla con la faccia impaurita. Quel volto è una bandiera gialla che segnala il pericolo, è un cane che abbaia perché fuori c’è qualcuno. Costringe a prendere atto che il mondo che c’è non è l’unico: ce ne sono altri, possibili, migliori o peggiori, che ci aspettano al varco. Ad esempio, il mondo pauroso del tuo sguardo, diverso da quello dove regna la pace e destinato a rimpiazzarlo. Gli altri sono la cacciata dal paradiso terrestre, sempre un mondo unico e chiuso su se stesso, hortus conclusus.
Non c’è difesa contro gli altri. Non importa dove siamo, cosa facciamo. Puntuale come la peste, prima o poi fa capolino una faccetta preoccupata, o magari allegra, è lo stesso, per ricordarci che nessun uomo è un’isola, offrirci insistentemente il suo aiuto oppure chiedere il nostro con altrettanta insistenza. In realtà, gli altri, tutti, con le loro facce e le parole allarmate/rassicuranti, dicono solo una cosa: ricordati che devi morire, tu e il tuo mondo.
Senza gli altri, niente mondi possibili. C’è vita su Marte? Lo chiede sempre qualcun altro. Senza gli altri non c’è nemmeno la Terra come qualcosa che tengo davanti a me e dalla quale mi distinguo. Per non distinguermene dovrei essere solo. “Nell’assenza d’altri, la coscienza e il suo oggetto sono una cosa sola”. Infatti, sono gli altri a tenermi distante dal mondo e da ciò che contiene. I limiti miei e delle cose che vedo, sento, ascolto, dico, tocco sono una creazione degli altri. Gli altri non sono nessuno in particolare, ma l’idea che le cose e le esperienze siano finite, separate. In un mondo senza gli altri, io sono le cose del mondo, e il mondo è me.
Questo vale per lo spazio. Anche il tempo senza gli altri è diverso. Con gli altri, il presente è ossessionato dal passato o dal futuro. Sono i morti che escono dalle tombe per guastarci la digestione (“ti ricordi? ti ricordi, ti ricordi?”), le voci degli eredi che battono cassa prima ancora di nascere. Da qui nascono alternative sconfortanti: dimenticare o ricordare? Continuare o tradire? Museificare o criticare? Senza gli altri, queste domande evaporano. Non ci sono passaggi da un presente all’altro, perché ogni presente è l’unico. Senza gli altri, un mondo s’impadronisce di sé, diventa autarchico nello spazio e nel tempo. A rigore, senza gli altri non c’è un mondo, ma il mondo (Essere e tempo mostra che nella solitudine dell’angoscia, dentro un mondo qualsiasi, viene a galla la mondità). Deleuze chiama questo mondo senza altri “il cielo solipsista”, il solus mundus.
L’isola è il luogo dove la terra degli altri e il cielo solipsista si contendono il mondo. Ognuno di noi è un’isola, incerta se dire sì all’uno o all’altra. Di solito scegliamo la terra degli altri. È più facile. Lì le cose sono belle e pronte, “fatte a modino”, direbbero i toscani, e la vita assomiglia alla sceneggiatura di un film italiano: ci sono i minuetti della fedeltà/infedeltà, vicinanza/distanza, amore/tradimento. Esistono solo con gli altri e rinunciarvi sembra un’impresa al di sopra delle nostre forze. Nel cielo solipsista i rapporti con le cose e le persone cambiano radicalmente. Il cielo non è un ordine esterno al mondo, lo illumina. Non c’è differenza tra l’uno e l’altro. La più antica inimicizia è tra la terra degli altri e il cielo solipsista, che si danno battaglia.
“L’isola è la frontiera o il luogo di tale lotta. Per questo motivo è tanto importante sapere da quale parte cadrà”. Inutile dire dove Deleuze ha cercato di far cadere la propria isola. Quando la descrive, sembra un sacerdote di Mitra. L’isola deve essere “capace di riversare nel cielo il suo fuoco, la sua terra e le sue acque e di diventare essa stessa solare”. Il fuoco solare è il mondo della energeia: “alla superficie, come un vapore, si sprigiona un’immagine sconosciuta delle cose e dalla terra una nuova figura energica, una energia superficiale senza altri possibile”. Dobbiamo capire questa energeia senza farci trascinare dalla prosa. Proviamoci.
Senza gli altri non significa vivere da sequestrati come un hikikomori. Magari è più difficile, ma la solitudine può sopravvivere anche in quel popoloso deserto che appellano Parigi. “Perché un’isola smetta di essere deserta, infatti, non basta che sia abitata”. La solitudine non è personale né collettiva: sull’isola deserta non c’è nessuno nemmeno se c’è qualcuno, “al punto che attraverso l’uomo l’isola prenderebbe infine coscienza di sé in quanto isola deserta e senza uomini”. Facciamo un esempio. Quando ascolto un assolo di violino o un Do di petto, non ci siamo io e il violinista o il tenore: c’è solo il suono. L’unità di ascoltante e ascoltato nell’ascolto. Heidegger diceva: l’unità vivente di chi domanda e di chi sa. Non ci sono studenti e professori, solo la lezione. Se abbiamo capito questo, abbiamo capito cos’è un’isola deserta.
Gli altri sono il mondo della relazione: io di qua, il violinista, il tenore, il professore di là. Ma nell’unità vivente dell’esperienza, queste differenze si dissolvono. Non ci sono. L’ascolto, la lezione, sono energeia. Niente mondi possibili che si affacciano dal passato o dal futuro, perché il presente dell’isola è assoluto: “lascia che la coscienza aderisca o coincida con l’oggetto in un eterno presente”. Sembra di leggere le Upanisad o un mistico tedesco. Invece, è Deleuze.
Cosa porterebbe Deleuze su un’isola deserta? Se il regolamento lo permette, un gatto. L’unica forma di vita che non prospetta altri mondi, non distoglie l’uomo dalla contemplazione e, non conoscendo la fedeltà, non può nemmeno tradire.