di FELICE CIMATTI
Introduzione al cinismo di Roberto Brigati.

Diogene e Alessandro di Giovan Battista Langetti
Per terra, tranquillo, assorto a leggere, comodamente appoggiato sugli scalini di quello che oggi (o forse ieri, prima del nuovo tempo disincarnato di Zoom e Skype), sarebbe stato il più straordinario convegno di filosofia di tutti i tempi. Nessuno sembra accorgersi della sua presenza, se non forse l’uomo alla sua destra di cui vediamo solo le spalle e la folta capigliatura e che sembra indicarlo con le mani aperte, come a dire “Ma l’avete visto questo?” (il cinico è un provocatore). L’uomo per terra è Diogene, detto il “cane”. Come infatti racconta Diogene Laerzio, «Alessandro, una volta, si mise in piedi di fronte a lui e gli disse: “Io sono Alessandro, il gran re”, “E io”, replicò, “Sono Diogene il cane”» (Diogene Laerzio 2005, p. 667). Dal cane viene il nome della scuola filosofica dei «kynikoi», “canini”, in quanto discendenti del primo Cane, come spiega bene il ricchissimo libro e pieno di spunti di Roberto Brigati (Introduzione al cinismo, CLUEB 2022, p. 13). Brigati, tuttavia, ci presenta quella cinica non propriamente come una scuola filosofica, con i suoi assiomi e i suoi teoremi, i suoi testi e le sue teorie, quanto piuttosto come un certo modo di vivere, uno stile particolare: «Non si pensa da cinici: si è cinici o non lo si è» (Brigati 2022, p. 56). In effetti quello cinico, come mostra chiaramente Raffaello ponendo Diogene al centro della scena, quasi ai piedi di Platone e Aristotele, è il gesto che destituisce il potere, sia quello della filosofia che quello del sovrano. In questo senso Diogene più che dire qualcosa, mostra il proprio stesso corpo come il più eloquente dei discorsi. Prendiamo, ad esempio, come Plutarco racconta un altro favoloso incontro fra Diogene e Alessandro Magno:
Molti politici e molti filosofi vennero a felicitarsi con lui, ed egli sperava che anche Diogene di Sinope, che stava in Corinto, avrebbe fatto lo stesso. Ma siccome il filosofo, che aveva scarsissima considerazione per Alessandro, se ne stava tranquillo nel Craneo, il re in persona andò da lui e lo trovò che stava disteso al sole. Al giungere di tanti uomini egli si levò un poco a sedere e guardò fisso Alessandro. Questi lo salutò e gli rivolse la parola chiedendogli se aveva bisogno di qualcosa; e quello: “Scostati un poco dal sole”. A tale frase si dice che Alessandro fu così colpito e talmente ammirò la grandezza d’animo di quell’uomo, che pure lo disprezzava, che mentre i compagni che erano con lui, al ritorno, deridevano il filosofo e lo schernivano, disse: “Se non fossi Alessandro io vorrei essere Diogene” (Plutarco 1997, pp. 63-65).
Non è che Diogene non creda nella sovranità e nella grandezza del potere, tantomeno ha da opporgli una frase memorabile che abbia come scopo il rovesciamento di quello stesso potere per instaurarne uno migliore. Diogene, al contrario, disconosce l’esistenza stessa del potere. Così il grande e magnifico Alessandro non è altro che un corpo qualunque che si frappone fra lui e la luce del sole, un corpo che fa ombra, che impedisce al corpo infreddolito di Diogene (Raffaello ce lo mostra seminudo) di farsi scaldare dai caldi raggi solari. Se tuttavia Alessandro è solo un corpo, rimane che è comunque il corpo del «gran re»: il gesto cinico ha sempre bisogno, per potersi realizzare, di una istituzione da destituire. Senza Alessandro, cioè, non avrebbe senso nemmeno la figura di Diogene: «È per questo che i cinici restano personaggi urbani e mondani, non eremiti» (Brigati 2022, p. 173). Per questa stessa ragione il cinico, più forse di altre “filosofie” antiche, è rimasto attuale. Laddove c’è un’istituzione, di qualunque tipo, là c’è uno spazio possibile per un gesto cinico.
Da questo punto di vista quando i cinici teorizzano una vita essenziale, naturale, libera dal superfluo (come quando, avendo visto un bambino che beveva da una fonte con le mani intrecciate a coppa, Diogene «gettò via la ciotola dalla bisaccia, esclamando: “Un bambino mi ha vinto in fatto di semplicità”» Diogene Laerzio 2005, p. 645), in realtà non stanno pensando ad una vita semplicemente animale. Come abbiamo visto il gesto destituente è sempre successivo a quello istituente. Per questo i cinici sono «personaggi urbani e mondani»: un cinico solitario, un eremita, non ha alcun senso, l’eremita si isola per non farsi distrarre dal suo desiderio di Dio, mentre un cinico solitario, che se non crede nella regalità di Alessandro tantomeno può credere in quella divina, è solo una figura miserabile. La natura, per il cinico, non è un passato perduto da recuperare (come invece vogliono fare i reazionari di tutti i tempi), è piuttosto una natura sempre di nuovo da immaginare e reinventare:
Non si tratta di “tornare” alla natura: difatti non si assiste al “ritiro dal mondo” (anachrēsis) che sarà del monachesimo. I cinici non abbandonano la città per il deserto né per luoghi più o meno incontaminati. Il primitivismo, se c’è, non è strutturato in senso storico né ecologico; e la “natura”, se c’è, è da raggiungere attraverso l’ascesi. […] Il “ritorno” alla natura è quindi in primo luogo un rifiuto morale della città e della sua forza normativa. Senza bisogno di allontanarsene, il cinico ne sospende la vigenza e istituisce una prima forma quantomeno negativa di cosmopolitismo: alla domanda identitaria, “di che città sei”, Diogene risponde kosmopolites, e Cratete alla stessa domanda risponderà “concittadino di Diogene”, a indicare uno stesso atteggiamento d’indifferenza ai vincoli nazionali e al nomos localistico (Brigati 2022, p. 137).
Per questo il cinico è sempre attuale, perché da un lato la natura è stata sostituita dall’istituzione, dall’altro però quella stessa istituzione è sempre sul punto di fossilizzarsi e credere di essere qualcosa di oggettivo e, appunto, naturale. Così il gesto cinico de-naturalizza l’istituzione, e ne mostra il carattere assolutamente terreno e mondano, come quando Diogene mostra ad Alessandro che non c’è proprio nulla per cui possa prendersi troppo sul serio, il suo è un corpo come qualunque altro. In questo senso è un gesto cinico anche quello di Duchamp che espone ad una mostra d’arte un orinatoio, destituendo per sempre (anche se questa destituzione è sempre di nuovo rimossa; per questo il gesto cinico periodicamente si ripete, perché c’è sempre qualche istituzione che dimentica d’essere soltanto una istituzione) tutta la presunzione che circonda l’arte e la sua sacralità.
Allo stesso tempo è ovvio che il primo bersaglio del gesto cinico è lo stesso “filosofo” che lo mette in scena, ché altrimenti assumerebbe lui stesso quella posizione che intende invece destituire negli altri: «La forma suprema dell’autodominio [cinico] è quella che arriva a mettere in scena visibilmente la propria rinuncia allo status di soggetto forte, attivo, che ha un peso nella società e nella catena causale delle cose» (ivi, pp. 169-170). È in questo contesto che va compreso, come suggerisce Brigati, la leggenda di un Diogene falsario e per questo esiliato dalla sua città d’origine, Sinope. Che cos’è infatti il denaro se non la più importante e misconosciuta delle istituzioni? Ci vuole un cinico per vedere in una moneta non il suo invisibile “valore” ma semplicemente quel che è effettivamente una moneta, soltanto un disco di metallo inciso; o forse vale il contrario, è cinico chi non crede nel denaro: «Fatto sta che sfigurare e ridefinire i valori e le norme diviene il motto del cinismo» (ivi, p. 84).
È in questo contesto, e a quest’unico scopo destituente, che va inteso l’altro carattere distintivo del gesto cinico, quella parrhēsia – l’assoluta e brutale schiettezza del dire, ma anche la libertà di parola, cioè il dire le cose come stanno – su cui tanto ha lavorato Foucault nel suo ultimo seminario al Collège de France (Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri. II 1983-1984). Il cinico non dice la verità, tantomeno la verità come se fosse un valore supremo, cioè una istituzione sacra e inviolabile. Piuttosto il cinico non separa il suo dire dalla sua vita, il cinico – come il cane che prende a modello – abbaia la verità, perché non ha paura delle conseguenze che quello stesso dire potrebbe avere, né sì vergogna per quello che dice: «Evidentemente la ricerca cinica della verità […] non è da intendersi come verità logica quanto come autenticità, coerenza tra dire e fare. Da qui prende la via la demolizione della vergogna, l’anaideia. Il cinico si esibisce: fa quel che dice, e dice quel che fa» (ivi, p. 150).
È questo, forse, il carattere destituente più forte del gesto cinico, non teme la vergogna. Questo non vuol dire che il cinico sia svergognato, piuttosto il cinico non ha bisogno del riconoscimento sociale: il cinico, come il cane, non ha nessuna reputazione da difendere e da promuovere (Da questo punto di vista anche il gesto apparentemente insensato di quella ragazza che, qualche giorno fa, ha postato sul suo profilo Facebook la foto di sua nonna morta dentro la bara, non dimostra affatto mancanza di vergogna; questa ragazza non si vergogna di ciò di cui ci si vergognava un tempo, tuttavia questo stesso gesto dimostra che ha continuamente bisogno di essere riconosciuta dallo sguardo dei suoi contatti); come dice il maestro di Diogene, Antistene «chi teme gli altri è uno schiavo, anche se non lo sa» (ivi, p. 55). Il cinico non teme gli altri, nel senso che non ha bisogno dello sguardo riconoscente dell’altro. Per questo il suo modello è il cane, cioè l’animale, che è animale proprio perché la sua esistenza non ha bisogno delle istituzioni:
In questo quadro retorico e scenico va compresa la sfrontatezza cinica. Sono le sue due dimensioni, una “autarchica” e l’altra “parresiastica”. In primo luogo la vergogna (aidōs) è una forma di dipendenza dallo sguardo altrui, eventualmente oggettivato sotto forma di principi interiorizzati. […] E cedere al ricatto della vergogna è un venir meno all’imperativo morale della cura di sé: “Quando dai ascolto (phrontizēs) a un altro, non ti curi di te” […]. Perciò la presa di coscienza cinica implica l’anaideia, l’abbandono di ogni pudore. Di qui l’esibizione dei comportamenti intimi: Diogene è avvezzo a “fare tutto in pubblico, sia gli affari di Demetra sia quelli di Afrodite”, cioè i pasti e il sesso […]. Ciò introduce l’altra motivazione essenziale dell’anaideia, cioè “il principio della non dissimulazione” come lo chiama Foucault […], che si collega al tema della parrhēsia e ne costituisce in qualche modo l’aspetto corporeo (ivi, p. 162).
Assoluta povertà, brutale schiettezza del dire, assenza di vergogna, coraggio destituente, vita itinerante («il cane cinico è un randagio», ivi, p. 145, non certo un cane da compagnia), libertà dai legami familiari. Questa è la vita del cinico, ma è anche la vita di Gesù (ai punti di contatto fra cinismo e cristianesimo delle origini Brigati dedica un lungo e approfondito paragrafo intitolato L’ipotesi del “Gesù cinico”) e pure quella di Francesco d’Assisi: «La vicenda di Francesco richiama in particolare quella di Cratete: identico è il decadimento sociale dall’aristocrazia urbana all’indigenza volontaria, identico il disfarsi dei bene materiali, identica l’opposizione alla famiglia e la reazione sociale. Persino la scelta di una compagna di strada […] ha un parallelo nel caso altrettanto raro di Cratete [e della sua compagna] Ipparchia» (ivi, p. 206). Sarà un caso, ma basta che una filosofia si ispiri ad un animale e subito scoppia la libertà.
Riferimenti bibliografici
Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, Bompiani, Milano 2005.
Plutarco, Alessandro e Cesare. Vite parallele, Rizzoli, Milano 1997.
Roberto Brigati, Introduzione al cinismo, Clueb, Bologna 2022.
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