Introduction è il titolo del film più recente del regista sud-coreano Hong Sang-soo, passato quest’anno alla Berlinale. O anche Introduction 4, ossia introduzione verso il 4, il seguito della vita del giovane Younghoo, aspirante attore, che vive, nel film, le prime tre tappe: tappe del tutto incompiute, che lasciano aperta la quarta, quella che dovrebbe coincidere con una presunta maturità. Ma riuscirà mai a maturare Younghoo? Su questo, il film di Hong semina dubbi a piene mani, dubbi che hanno a che fare prima di tutto con la professione d’attore, scelta dal giovane: scelta e poi abbandonata, in seguito alla difficoltà di sciogliere certi inestricabili nodi interiori. O forse, più esattamente, la fase 4 non arriva mai per nessuno, voglia o meno fare l’attore, e tutti siamo destinati a restare sospesi nell’incompiutezza, tra padri assenti, travolti da sensi di colpa, madri troppo presenti, occasioni perdute, amori che ci sfuggono, per quanto possiamo inseguirli in an other country, come Anne (Isabelle Huppert) nell’omonimo film di Hong del 2012, in vacanza su una spiaggia coreana con la madre. Anche quello, guarda caso, a struttura triadica, ma più sbilanciato sul versante della commedia (a colori). Da un lato, insomma, siamo tutti attori, condannati a recitare una parte che ci viene imposta dalle circostanze – dall’altro, esiste il problema specifico della professione d’attore.

È un bravo attore, Youngho? Qualcuno potrebbe sostenere che non lo è. È incapace di abbracciare un’attrice nella finzione, incapace di baciarla, senza avere la sensazione di compiere un atto moralmente riprovevole nei confronti di Juwon, la sua fidanzata. “Sono un uomo” – riflette – “e abbracciare una donna è un atto assoluto, qualcosa che non può ridursi a semplice finzione”. Alla finzione, proprio perché sia credibile, devono mescolarsi le emozioni, il trasporto interno, un turbamento reale. E ogni abbraccio a un’altra, di conseguenza, è un tradire. Vero, forse, per un certo tipo d’attore. Falso, per altri. Il padre di Youngho, che è medico, ha in cura un vecchio attore di teatro e di cinema, piuttosto famoso (il bravissimo Joo-Bong Ki). Lo conosce anche la madre di Youngho, che gli chiede di dare al figlio qualche buon consiglio. Allora, prima di tutto, il famoso attore invita a bere il giovane e un suo amico, ma senza ubriacarsi, conservando cioè la lucidità. Salvo poi, la lucidità, perderla lui stesso, arrabbiandosi alle sue proprie parole: “Che significa finzione, che significa realtà? È tutto un gioco, sia la finzione come la realtà”.

Il vecchio attore, insomma, invita al distanziamento, in nome del gioco. Cercare la coerenza morale nell’arte interpretativa non è solo cosa vana e superflua: significa non aver capito niente dell’interpretazione stessa, significa confonderla (arbitrariamente) con la vita. Ci si riferisce, lo ripetiamo, a due tipi diversi d’attore, quasi come se Stalisnavskij discutesse con Mejerchol’d o con Brecht – ma nel caso di Youngho c’è in effetti qualcosa di più, una sorta d’ossessione, un dolore segreto, una paura d’abbandonarsi. Come se l’abbandono (nella finzione) implicasse il pericolo d’un abbandono reciproco e simmetrico nella realtà. Grossi fiocchi di neve gelata cadono a Seul, attorno al gabinetto medico del padre di Youngho, e nessun abbraccio, nessuna prova d’abbraccio, sembra in grado di restaurare una magia perduta, un calore di cui resta la sola nostalgia.

In Germania, a Berlino, fa altrettanto freddo. Juwon vi si reca per studiare, approfondire le sue conoscenze nel campo della moda, accompagnata dalla madre. Entrambe ospiti di un’artista coreana ormai affermata. Con la madre, Yuwon parla della bellezza degli alberi, nota la tranquillità del quartiere dove andranno a vivere. Youngho la raggiunge in aereo, con un preavviso minimo. Yuwon è contenta che sia venuto, si abbracciano, ma negli abbracci del fidanzato sente già insinuarsi il germe dell’incertezza. A Berlino fa freddo, come a Seul. Hong pare abbia girato la parte tedesca del film con gli stessi attori e le stesse attrici che erano già lì per presentare il suo film precedente, The Woman Who Ran (Hong Sang-soo, 2020) – economia di mezzi, estrema semplicità.

Le scene clou in Corea sono girate attorno a un tavolo, tra una bevuta e l’altra. Giochi di sguardi e di primi piani, tra interpreti eccellenti. Lo zoom, come mezzo di approfondimento cognitivo, sostituisce quasi sempre i movimenti di macchina, come strumento rivelatore delle pulsazioni del cuore.

Il film, alla fine, non può che chiudersi con un sogno: un sogno in riva al mare che, come tutti i sogni, sembra reale. Youngho sogna di incontrare Yuwon qualche anno dopo. Lei gli confessa di soffrire d’uveite, una malattia della vista in seguito alla quale un occhio vede chiaro mentre l’altro non vede che nebbia. Sembra una metafora del cinema, almeno del cinema di Hong. Poi si lascia accompagnare all’hotel, in vista d’una riconciliazione che in realtà non c’è mai stata, e ormai non ci sarà più. L’unica riconciliazione è dunque quella nel segno del sogno, dove tutto, nell’irreale, si rende ancora possibile; ma il sogno è ingannatore, comunque non è a colori, è in bianco e nero, passando per tutta la scala dei grigi. In questo senso, non si distingue dalla vita, ne prospetta l’incerta introduzione, che forse è poi non è che l’apertura d’un altro sogno.

Introduction. Regia: Hong Sang-soo; sceneggiatura: Hong Sang-soo; interpreti: Sin Seok-ho, Park Mi-so, Kim Young-ho, Ye Ji-won, Gi Ju-bong,  Seo Young-hwa, Kim Min-hee, Cho Yun-hee; produzione: Jeonwonsa Film Co; distribuzione: The Cinema Guild, origine: Sud Corea; anno: 2021; durata: 66’.

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