Il taglio di capelli à la garçonne di Jo March, scelto per donare alla madre il denaro utile per andare dal padre malato, è stato uno dei primi esempi letterari di impegno, coraggio e indipendenza che molte ragazzine hanno letto. Compresa me. Da piccola, più di una volta, sono stata colta da impeto di emulazione, e ho detto a mia madre, sbigottita e alquanto preoccupata, che avrei seguito l’esempio di Jo in caso la nostra famiglia ne avesse avuto bisogno. Le sorelle March hanno incarnato e – se si considera la recente versione cinematografica di Greta Gerwig e le continue nuove edizioni e traduzioni in lingue diverse – continuano a incarnare una tappa per i giovani lettori.
Stella Sacchini, traduttrice, ci ha regalato nel 2018 una nuova, splendida traduzione del classico scritto da Louisa May Alcott, ragazza e donna formatasi in un contesto familiare e sociale del tutto particolare. Stella Sacchini ha deciso di dare una voce nuova alle sorelle March, in parte diversa da quella a cui tutti i lettori italiani erano abituati e che, da lettrice bambina, non l’aveva appassionata. A quella lingua troppo perbene, troppo misurata, troppo “rosa”, ha cercato di contrapporre la potenza vivace della versione inglese. Qui racconta come è nata l’idea di una nuova traduzione di questo classico e come ha tentato di lavorare sul rispetto della lingua dell’infanzia, in parte offuscata nelle traduzioni precedenti, con l’obiettivo di restituire l’eterogeneità linguistica e la comicità del testo originale.
La tua traduzione di Piccole Donne, pubblicata da Feltrinelli Editore nel 2018, è stata una tua proposta. Come nasce il tuo rapporto con questo libro e con la sua autrice?
Sì, è un libro che ho proposto io a Fabio Di Pietro, che a quei tempi dirigeva la collana dei classici. L’UE aveva deciso di riproporre al grande pubblico i più importanti classici per l’infanzia e per ragazzi presentandoli come classici tout court, come libri per tutti. Avevo appena tradotto Il meraviglioso mago di Oz e Le avventure di Tom Sawyer e pensai che nel catalogo non potesse mancare il romanzo di Alcott. È stata una proposta istintiva, e piuttosto bizzarra, dato il rapporto poco idilliaco che avevo con quel libro, da lettrice. Come è successo a tutte le bambine di ogni tempo e area geografica, il romanzo mi è stato regalato quando avevo più o meno otto anni. La copertina violetta con l’immagine delle quattro sorelle riunite davanti al fuoco, intorno alla poltrona di Mrs March, non mi aveva entusiasmato per niente: troppo da femmina, troppo romanticismo, troppo brave ragazze.
E io allora non amavo le storie romantiche con protagoniste povere fanciulle indifese che devono sopportare le mortificazioni più indicibili senza battere ciglio, senza mai una rispostaccia, un moto di ribellione, un’incrinatura nella loro imperturbabile dolcezza ed educazione. Amavo le storie avvincenti, raccontate con parole forti – parole che significano qualcosa –, storie da non dormirci la notte per la paura. Insomma, ero Jo e non lo sapevo. Per cui ho iniziato a leggere il libro piena di pregiudizi e l’ho mollato lì, dopo i primi due capitoli, promettendo a me stessa che non l’avrei mai più ripreso in mano. Il mago di Oz e Tom Sawyer erano libri del cuore, questo no. Eppure l’ho proposto, e traducendolo l’ho amato tantissimo.
Perché hai desiderato dare una voce nuova alle sorelle March e voler offrire ai lettori una nuova traduzione di questo classico in particolare?
È stato il mio quinto sesto e mezzo, come direbbe il mio amato indagatore dell’incubo. Traducendo ho scoperto che non sempre quello che mi piace leggere poi mi piacerà tradurre, e viceversa. Quel libro mollato lì da piccola era una sfida aperta, e qualcosa, dentro di me, mi riportava lì. È un classico amatissimo, uno di quei libri che attraversano le generazioni grazie a una specie di segreto di fabbricazione: a ottobre di quest’anno compirà 152 anni e continuerà ad avere l’età immutata in cui risplendono, inviolate, tutte le illusioni scintillanti della fanciullezza e la vita è ancora potenza e scrigno di ogni possibilità.
In cosa consisteva quel segreto di fabbricazione? E perché io non l’avevo colto? Volevo capire perché allora non mi era piaciuto, perché mi aveva respinta a quel modo. E scoprire se, come era stato per Jane Eyre, la traduzione avrebbe modificato il mio parere di lettrice su quel libro. E così è stato. Leggendolo in lingua originale e traducendolo sono stata da subito catturata dalla scrittura densa e vibrante della Alcott, dai dialoghi pieni di ritmo, dall’audacia nella variazione dei registri. Traducendo ho anche capito il perché della noia e del fastidio che mi avevano assalito da bambina: i dialoghi affettati e innaturali dei miei ricordi si sono trasformati in dialoghi vivi, realistici, dotati di un’incredibile spontaneità e naturalezza, divertentissimi, spassosi, pieni di uno humour e di una creatività linguistica inattesi. E poi i personaggi non parlavano tutti allo stesso modo – niente affatto! – Avevo un debito enorme nei confronti di questo libro e traducendolo, forse, sono riuscita a rendergli il maltolto.
Ti sei confrontata con alcune delle traduzioni già realizzate? Se sì, lo hai fatto prima di iniziare a tradurre, nel corso del lavoro o a traduzione conclusa? E nelle tue scelte linguistiche e stilistiche, quali sono gli scarti più evidenti rispetto alle traduzioni precedenti?
No, non mi sono confrontata con le traduzioni precedenti. Non volevo essere condizionata più di quanto non mi avesse condizionato quella vecchia traduzione con la copertina cartonata violetta che ancora conservo nella mia libreria. Volevo incontrare la voce dell’autrice senza mediazioni, e senza ulteriori condizionamenti. Una sola volta ho consultato altre traduzioni: quando sono andata a parlare del libro a Fahrenheit e sapevo della curiosità di Loredana Lipperini per i famosi pickled limes che Amy è costretta a gettare dalla finestra nel capitolo “Amy nella Valle dell’Umiliazione”: limette, cedri, limoni canditi, caramelle, lecca-lecca. Io ho tradotto con “limette in salamoia”.
Ma quello che secondo me bisognava assolutamente rendere di questo libro, quello che non potevo permettere che andasse perso – il mio modo personale di chiedere scusa alla scrittrice per non averla capita e amata abbastanza la prima volta che l’ho incontrata – era la sorprendente varietà della lingua parlata. I personaggi, l’ho già detto sopra, non parlano tutti allo stesso modo, come ebbe a specificare all’inizio di Le avventure di Huckleberry Finn, a proposito di Tom, Huck, Jim e il resto della combriccola, un altro autore che ho tradotto e amato tantissimo, e con la Alcott (che invece non lo amava affatto) condivideva il grande rispetto per la lingua dell’infanzia, che non doveva essere normalizzata, derisa, nobilitata o corretta.
Meg, Jo, Beth e Amy parlano in modo diverso l’una dall’altra, e così gli altri personaggi: Hannah, Mrs March, Laurie, Mr Laurence. Jo “use such slang words”‚ è Amy a pronunciare queste parole, a mo’ di accusa, aggiungendo che odia le ragazze rude, unladylike. Jo, per tutta risposta, dichiara di detestare “le mocciose tutte lezi e smancerie” (niminy-piminy chits) e, in un altro punto del testo, la riprende perché ha usato una parola per un’altra, al che la piccola di casa difende con orgoglio il proprio modo di parlare e afferma con una certa solennità: “So bene quello che voglio dire, e vedi di non fare tanto la ‘spiritata’ (per spiritosa – in originale c’è statirical per satirical). È giusto usare parole più cercate e migliorare il proprio vocabilario (vocabilary, in originale)”. È la stessa autrice a presentarci le protagoniste di questa storia a partire dalla loro lingua, dalle parole che usano e dagli errori che fanno: ad esempio, quando soprannomina Amy “Miss Malaprop” (tradotto con un joyciano “Miss Baglio”) e le mette in bocca errori esilaranti (come quelli di ponteggiatura – Amy usa il punto interocattivo – o di ottografia).
Nel corso del tempo, sono state realizzate diverse trasposizioni cinematografiche di questo romanzo, erroneamente classificato come un romanzo per ragazzi. Da traduttrice, che conosce ogni piega di questo testo, hai una tua idea del perché “Piccole Donne” emani questo fascino costante, questa potenza narrativa, non solo sui lettori ma anche sul cinema?
Credo che la forza di questo libro stia tutta nelle sue protagoniste. “Mami, Anna e May appoggiano tutte il mio progetto. Per cui mi sono messa a lavorare di buona lena, anche se questo lavoro non mi piace per niente. Le ragazze non mi sono mai piaciute, e non ne conosco molte, a parte le mie sorelle; ma forse i nostri giochi bizzarri e le nostre esperienze di vita potrebbero rivelarsi di qualche interesse…” scriveva Alcott al suo editore nel maggio del 1868. In Meg, Jo, Beth e Amy ci sono le sorelle Alcott e il particolarissimo contesto familiare in cui sono cresciute, assolutamente unico per l’epoca. Il padre, Amos Bronson, era un pedagogista che fondò una delle prime scuole con classi miste, dove i bambini neri sedevano accanto a quelli bianchi, e la comunità utopista di Fruitlands; la madre, Abigail May, era una suffragista e un’abolizionista; Louisa e le sorelle crebbero a contatto con scrittori, poeti e filosofi importantissimi, tra cui Henry David Thoreau, Ralph Waldo Emerson e Nathaniel Hawthorne.
Le sorelle Alcott, al pari delle sorelle March, lottano per realizzare i propri sogni e talenti, si confrontano alla pari con i maschi della loro età, esprimono i loro desideri, i propri disappunti, si arrabbiano, sbagliano, si rifiutano di essere quello che per età, posizione sociale e ruolo dovrebbero essere. E lo fanno senza sbracciare, senza reclamare rispetto e attenzione, senza rivendicare uno spazio che si prendono con naturalezza, perché è loro. Penso che sia questo il motivo del fascino imperituro di questa storia che continua a essere letta e tradotta e ha conosciuto così tante versioni filmiche, ultima quella di Greta Gerwig, che però non ho ancora visto.
Ho sempre creduto che noi ragazze, noi donne, volessimo essere tutte Jo. Poi, però, ci siamo accorte che, in fondo, chi ha capito tutto della vita è Amy. Io adesso penso che mi piacerebbe molto essere Meg, ma che la migliore di tutte sia certamente Beth. Insomma, esiste una sorella March per ogni fase, ogni età della vita?
Ho più volte detto che questa mia nuova traduzione è la rivincita di Amy, la capricciosa, la sbruffoncella, l’ambiziosa, la sfacciata, con il suo diritto a riempirsi la bocca di parole difficili, ricercate, desuete e di sbagliare, di inanellare un errore dopo l’altro senza il minimo imbarazzo. E mentre traducevo il libro mi sono sentita molto Amy, e ho desiderato di essere come lei. Da piccola, quando non ho amato quella traduzione “confezionata” per ragazzine perché prediligevo le parole che significavano qualcosa, le parole e le storie forti, ero Jo e non lo sapevo. Sono stata Beth e anche Meg, in altre fasi della mia vita. E penso che ci siano giorni in cui ci svegliamo Amy, a pranzo siamo Beth, nel pomeriggio Meg e ci addormentiamo Jo, sognando vite avventurose e storie nuove. Siamo Meg, Jo, Beth e Amy perché ognuna di noi ha più di un cuore e di un cervello. E abbiamo tutto il diritto di esserlo, se accettiamo la complessità della vita.
Louisa May Alcott, Piccole donne, traduzione italiana di Stella Sacchini, postfazione di Nadia terranova, Feltrinelli Editore, Milano 2018.