Ingmar Bergman
Fanny e Alexander (1982).

Nel 2017 ricorre il decennale della morte di uno dei registi che hanno segnato in forma indelebile la storia del cinema, Ingmar Bergman. Ma più che rendere omaggio a un grande creatore di storie e di figure visive, frequentemente contaminate dal teatro, mi pare più opportuno interrogarci su come mai in tempi così differenti come quelli attuali, in cui noi tutti siamo sempre più a contatto con schermi volti a esaltare il portato percettivo e sensoriale, permanga nell’opera di Bergman una potente e perturbante forza che tocca, incide profondamente, al pari della lama di un coltello, la carne di ogni singolo spettatore. Italo Calvino ha sostenuto che classici sono i libri che non smettono di essere letti, che mantengono un rumore di fondo che continua ad agire e certamente i temi percorsi nel cinema di Bergman rimandano una domanda sull’essere che appartiene al cuore di ogni singola costruzione soggettiva, staccata da qualsivoglia contemporaneità tradotta in mappa di eventi. Ma credo la questione non sia riducibile a considerare gli interrogativi esistenziali evocati nelle sue creazioni quale unico indice di attrazione.

Provo a tracciare in breve alcuni ragionamenti per cercare di articolare la capacità di penetrazione del suo cinema che agisce nel presente.

Oggi viviamo nella compulsiva tensione a dare al mondo una rappresentazione della nostra vita attraverso la moltiplicazione di narrazioni autobiografiche. A questo proliferare di racconti si sommano tutte le forme di autorappresentazione nei media, in rete e nei social network. Tali fenomeni non sono riconducibili, a mio parere, solo ad una amplificazione della dimensione narcisistica degli individui.

Parimenti, nella produzione audiovisiva contemporanea si può rilevare come sia sempre più presente un processo di scrittura visiva che, attraverso forme molteplici, attinge ad elementi autobiografici. Cineasti, con stili e modalità espressive differenti, hanno contaminato i loro film con la resa di porzioni della propria esistenza e al contempo tale operazione, non riducibile al racconto o alla confessione delle singole vite quanto alla “riconfigurazione” di una pluralità di immagini di sé, sembra oggi accrescersi, estendendosi a un’area molto ampia.

Bergman ha irrorato molta parte della sua produzione artistica di riferimenti autobiografici, tradotti in differenti forme, dando a tale consuetudine un senso profondo di interrogazione sulle interferenze tra vita e pratica artistica. L’affastellarsi di ricordi puntella romanzi, testi drammaturgici, sceneggiature, autobiografie costruite a volte alla stregua di composizioni narrative (Lanterna magica, Garzanti, 1987), a volte ricognizione aspra e dura sul dolore dell’esistere (Tre Diari, Iperborea, 2008), in altri casi riflessione diretta sulla genesi della propria produzione artistica (Immagini, Garzanti, 1992). A partire da un così variegato ventaglio di testi, con forme di scrittura diverse, l’impulso autobiografico alimenta film in cui personaggi e situazioni trasfondono molteplici tratti di figure ed eventi custoditi nella memoria dell’artista.

Senza alcuna ingenua volontà di rivelare una qualsivoglia verità esperienziale, la scrittura in Bergman, sia essa letteraria o filmica, risponde sempre ad una sorta di contagio tra percezioni modellate nel tempo e immaginazione, in un raffinato giuoco che espone figure, luoghi e sentimenti alla manipolazione della costruzione creativa. L’autobiografia non testimonia allora una fedeltà ad un genere ma, più profondamente, interroga processi osservati nelle loro potenzialità trasformative. Luci e colori alimentano parola e immagine. Si pensi all’attenzione riservata alla luce, richiamata nelle pagine di Lanterna magica, e come nell’Infedele (2000), film sceneggiato dal cineasta e girato da Liv Ullmann su precise sue indicazioni, tale materia sia capace di generare nel protagonista (dal significativo nome di Bergman), attraverso lo sguardo su una grande finestra sul mare di Fårö, la composizione di un testo letterario al cui interno prendono corpo porzioni della vita del cineasta, narrate in Lanterna magica. Mediatore di tale processo creativo è la presenza fantasmatica di un’attrice accostata a questo quadro-schermo che ripercorre brani memoriali. Gli eventi cronologici partecipano così di infiltrazioni tra verità e finzione: la superficie riflettente della costruzione per immagini, in un sottile gioco di rifrazioni, vela e allo stesso tempo disvela percezioni, variazioni della materia, spostamenti del punto di vista, schegge di memoria nutrite dalla forza dello sguardo. Risponde al medesimo principio in Fanny e Alexander (1982) la scultura, che una volta toccata da un raggio di luce, nell’immaginazione del giovane protagonista intento a fissarla prende vita mediante movimenti inattesi, nel film testamento più dichiaratamente autobiografico del cineasta.

L’attenzione per forme di scrittura soggettiva compare all’interno di molte pellicole influenzando l’andamento narrativo. Vediamo a volte personaggi nell’atto di scrivere, leggere o recitare passi di diari (cito solo alcuni titoli: Sussurri e grida, L’ora del lupo, Un’estate d’amore). In altri momenti tale forma espressiva assume il modello della comunicazione epistolare (Luci d’inverno, Passione, Persona, Sarabanda). Nell’opera di Bergman la stesura epistolare ha sempre un forte rapporto con il tempo e con la verità. Una verità non oggettivabile, una verità ambigua che, nel suo apparire improvviso e violento, colpisce, ferisce, produce uno squarcio. L’insistenza con cui il regista si sofferma sulla materialità della scrittura e sulla tattilità evoca la possibilità di sentire, ovvero di superare la barriera difensiva che nel suo cinema inaridisce l’esistenza dei singoli personaggi (in Sarabanda la macchina da presa si arresta, dopo la lettura di una perturbante lettera, sulle mani delle due protagoniste che toccano la superficie di carta su cui sono impresse le parole).

Anche in tale scelta espressiva possiamo cogliere uno dei motivi per cui il suo cinema continua oggi a interrogarci, richiamandoci a riflettere su come gli accelerati mutamenti delle attuali forme di comunicazione scritta, mediante le varie configurazioni della rete o dei dispositivi elettronici, a volte diano l’illusione di una verità concreta, uniforme, priva di interrogativi, staccata dalla fisicità del corpo, assoggettata a un presente congelato nell’assenza di proiezione.

Alla rappresentazione di tale forma di scrittura privata nel suo cinema si lega anche la capacità di intessere una fitta rete di relazioni intertestuali, non ascrivibile certo a una volontà citazionista. Sembra piuttosto percorrere la linea delineata in apertura: una riflessione costante volta ai linguaggi narrativi e visivi e non ultimo ai dispositivi. Ricordo la duttilità di Bergman nel realizzare opere adoperando dispositivi e media differenti: radiogrammi, documentari su Fårö o sulle fasi di realizzazione di Fanny e Alexander, film pensati per il cinema, altri per la televisione, questi ultimi come Scene da un matrimonio (1972) organizzati in puntate, certo diversi dalla intricata e fitta costruzione narrativa seriale di oggi, al contempo, come notato da Antonio Costa, fonte di ispirazione per l’ideatore della fiction americana Dallas.

Un esempio paradigmatico della contaminazione di riferimenti intertestuali è Persona (1965). Propongo un primo passaggio, ovvero la forte presenza di temi iconografici sin dal prologo. Si tratta di rimandi a opere del cineasta e a motivi figurativi ricorrenti come quello del ragno in Come in uno specchio (1960) e in Monica e il desiderio (1952), dell’agnello sacrificale in Luci d’inverno (1963), dei cadaveri in L’ora del lupo (1968). Non ultima l’immagine del bambino che tocca lo schermo – chiara testimonianza della perdurante attrazione di Bergman per l’autoriflessività – richiama il bambino protagonista del Silenzio (ruolo interpretato dal medesimo attore). Tale composizione sarà ridisegnata in Fanny e Alexander, attraverso l’inquadratura del giovane protagonista che poggia la mano sul vetro incorniciato di una finestra nella sontuosa casa della nonna.

E l’interstestualità che coinvolge nella trama dei riferimenti lo stesso prologo di Persona riappare nel cinema di anni recenti ad opera di altri registi, pur lontani dai moduli stilistici del cineasta svedese. Il primissimo piano del volto di donna sullo schermo bianco, al pari di un’impronta indelebile, viene ridisegnato da Marco Bellocchio in L’ora di religione (2002). E in un film di Almodovar, Gli abbracci spezzati (2009), uno sceneggiatore cieco cerca di ricostruire mentalmente i contorni del volto della donna amata e propri nell’atto di baciarsi tastando la superficie su cui scorre lentamente, fotogramma per fotogramma, l’immagine di loro poco prima di un tragico incidente. Semplice omaggio al grande regista, contaminazione, riscrittura, o riconoscimento di una appartenenza estetica che continua ad agire in differenti modulazioni?

Se, come sostenuto da Gilles Deleuze, nell’opera del cineasta “il primo piano fa del volto un fantasma e lo abbandona ai fantasmi” (L’immagine-movimento. Cinema 1, Einaudi, 2016) al contempo, al pari di un revenant, intrecciando passato e presente, ha il potere di rivelarci di essere esposti a uno sguardo che ci riguarda.

Con un’ultima osservazione ritorno all’attenzione tutta moderna posta da Bergman verso dispositivi mediali, in questo caso interni alla narrazione filmica. Mi piace pensare che in Persona l’immagine documentata da una rete televisiva del bonzo che si dà fuoco provocando profonda angoscia in Elisabeth, possa anche essere letta quale figurazione del consapevole riconoscimento di un mondo i cui confini appaiono sempre più labili, in cui singole realtà circoscritte partecipano di un universo fisico e mentale che non può essere più pensato come localizzato, piuttosto agisce sulle vite di tutti, al di là delle distanze geografiche. Anche lo sguardo inerme del ragazzino ebreo, catturato sulla lastra fotografica, continua a fissare, non solo Elisabeth, ma noi tutti, forse implicito richiamo a destarci dall’assuefazione passiva all’orrore.

La fotografia, il teatro, la letteratura, la musica, hanno da sempre alimentato la pratica realizzativa di un artista quale Bergman che di tali travasi ha fatto la propria marca stilistica, e in un’epoca quale quella contemporanea in cui sempre di più si parla di ibridazioni delle arti, sembra che Bergman ci suggerisca di considerare come il cinema sia l’espressione artistica che fin dalle sue origini custodisce, nel proprio codice genetico, tale statuto.

Riferimenti bibliografici
I. Bergman, Lanterna Magica, Garzanti, Milano 2013.
Id., Immagini, Garzanti, Milano 2009.
Id., Tre diari,  Iperborea, Milano 2008.
G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, Einaudi, Torino 2016.

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