Parecchi fra noi, interessati a un certo personaggio della storia contemporanea, del mondo letterario o, più semplicemente, dell’attuale universo mediatico, avranno sicuramente ceduto al desiderio di accostarsi a una loro biografia. È facile comprendere, almeno ai giorni nostri, in cosa consista l’oggetto di questo desiderio: niente meno che la vita privata di quegli individui che in qualche misura stimiamo, ovvero ciò che dietro la patina fluorescente della loro presentazione pubblica permane invisibile e segreto. Al di là degli eventi canonici che hanno segnato la loro esistenza istituzionale, siamo incuriositi dai loro amori e dalle loro amicizie; pretendiamo di conoscere la scuola che hanno frequentato e il cibo che preferiscono mangiare per cena.

Tutti questi casi, in realtà, si riducono a un unico aspetto: ciò di cui vogliamo essere informati non è che l’insieme degli eventi – da quelli di maggior rilievo psicoanalitico a quelli che rientrano nel puro pettegolezzo – che hanno contribuito a rendere quel certo personaggio esattamente l’individuo che è. Un desiderio simile, in fin dei conti, non fa che identificarsi con una più generica fascinazione che tendiamo a rivolgere all’insieme delle particolarità in virtù delle quali quel dato personaggio può distinguersi da ogni altro.

È attitudine comune, di fatto, pensare che una bio-grafia consista – e sia da sempre consistita – nella scrittura non tanto di una vita qualunque, quanto della vita privata e individuale di quell’unico personaggio che ne è protagonista. È probabile, in questo senso, che molti di noi eviterebbero di impiegare del tempo a leggere una biografia se sapessero che i fatti che vi vengono narrati non riguardano esclusivamente la vita unica e inimitabile di quel certo individuo. E, in realtà, sbaglierebbero costoro, almeno fino al momento in cui non decidessero di frequentare l’opera prima di David Watkins, Infamia e biografia (Neri Pozza, 2023). Sbaglierebbero non tanto nella pretesa di trovare narrata in una biografia la vita del protagonista che la incarna – perché, di fatto, è questo il modo in cui attualmente viene concepito questo genere letterario –, quanto nel considerare che quella con cui ci confrontiamo attualmente sia sempre stata la natura della biografia

È precisamente da questa constatazione che Watkins muove per intraprendere una raffinatissima genealogia della nozione di biografia. L’autore inizia e conclude la propria indagine palesando un efficace paradosso: se la biografia contemporanea, erede diretta di quella moderna, è concepita come la scrittura della vita privata di un individuo, allora, a dire il vero, un genere letterario di questo tipo non potrebbe affatto esistere, perché, come leggiamo in una felice espressione con cui Watkins conclude la propria ricerca, «l’individuo è l’impossibilità della biografia» (Watkins 2023, p. 129). 

Perché mai l’individuo, l’unicum, colui che per definizione è diverso da tutti gli altri e che, proprio in virtù di questo tratto, non esitiamo a identificare come l’oggetto proprio di ogni biografia, costituisce in realtà l’elemento che di quest’ultima mette in discussione la natura? Per comprendere la dinamica che ci ha condotto a intendere la biografia come la narrazione di una faccenda privata che ha per oggetto un individuo, Watkins affronta un percorso dall’antichità alla modernità, isolando quattro tappe cruciali nello sviluppo di questo bizzarro genere letterario: la biografia imperiale, l’agiografia, la scrittura di Montaigne e l’autobiografia di Rousseau.

Il nodo racchiuso nel paradosso citato poco fa si scioglie sin dalle prime pagine: sono le stesse biografie di Plutarco, Svetonio o Diogene Laerzio che ci costringono a pensare in modo diverso il genere biografia, rendendoci

stranieri alla nostra nozione di individuo; stranieri al concetto moderno di un io chiuso in sé stesso, nella propria finitudine, umano dalla testa ai piedi, monologante, libero di scegliere, responsabile; stranieri, soprattutto, all’idea di una vita considerabile come una questione privata, inimitabile, invisibile, muta (ivi, p. 16). 

Il biografo antico, infatti, non ritrae individui ma caratteri; non si confronta con la cronologia che scandisce la serie degli eventi storici accaduti a qualcuno, ma dalla contingenza di quegli eventi astrae una forma di vita tipica, caratteristica e impersonale. È in questo senso che Watkins, interpretando la nota tesi di Plutarco – noi non scriviamo storie, ma vite – può accostare la biografia alla poesia, la quale, aristotelicamente, differisce dalla storia precisamente perché è in grado di esprimere non ciò che è accaduto ma ciò che potrebbe accadere. La biografia, cioè, «è un modo poetico di intendere la storia, e la sua serietà consiste nel piegare il dato storico – particolare e contingente – alle esigenze – impersonali e necessarie – della poesia» (ivi, p. 25). 

Questa concezione non personalistica del bios rappresenta anche la condizione di possibilità dell’intento etico della biografia antica: la mimesis. I personaggi ritratti sono uomini illustri, degni di essere ammirati, contemplati e imitati per la loro grandezza, ma non sarebbe possibile alcuna imitazione se il lettore si confrontasse con degli individui chiusi nella loro unicità. Piuttosto, può darsi mimesis e, dunque, un lavoro etico su di sé, perché il biografo antico ci consegna delle pure essenze impersonali, delle forme che, essendo pre-individuali, sono anche perfettamente imitabili

Non c’è nulla di privato, di segreto o di unico nelle vite ritratte dalla biografia antica: è anche per questo che Watkins può accostare quest’ultima non solo alla poesia ma anche alla pittura. Il carattere, l’ethos di cui l’individuo è esempio, è assolutamente esteriore, visibile, superficiale: a differenza dell’affaruccio privato con cui oggi siamo abituati a definire la nostra vita e, di conseguenza, la vita narrata in una biografia, sono la visibilità e la superficialità a costituire le condizioni di possibilità della biografia antica.

Per quali ragioni, allora, si è prodotto uno slittamento concettuale così netto? In che modo la biografia ha iniziato a ritrarre non più eida ma individui, non più superfici visibili ma profondità segrete? Per rispondere a queste domande, Watkins intreccia due livelli di analisi, che rendono più chiaro anche il titolo della sua opera: il passaggio da una declinazione impersonale della vita a una concezione individuale avviene contemporaneamente alla trasformazione dell’oggetto della biografia, che dal ritrarre uomini illustri, usati come esempio e modello, inizia pian piano a introdurre nelle proprie narrazioni l’uomo comune, l’infame, il tizio qualunque senza lode né virtù. Il secondo momento dell’indagine si incentra, di fatto, sul superamento del paradigma esemplarista, che Watkins sembra inizialmente identificare con lo sviluppo della biografia cristiana. Si tratta, in verità, di un primo passo, perché i biografi cristiani, sebbene si allontanino dalle rappresentazioni antiche dell’uomo illustre, non arrivano con ciò a rivolgere la propria attenzione alla vita quotidiana degli uomini comuni. La biografia diviene semplicemente agiografia:

Il biografo cristiano introduce un nuovo personaggio –  il santo –, che si distingue dalla condizione comune degli uomini in modo ancora più radicale rispetto alle tipologie di esistenza ritratte nella biografia di età imperiale (ivi, p. 59).

È solo con l’avvento della modernità, e in particolare con Rousseau, che l’individuo e l’infame possono entrare a pieno titolo, rigorosamente assieme, nel genere biografia. Confrontandosi con la celebre affermazione di Rousseau – Eccomi dunque solo sulla terra Watkins ci mostra, in effetti, come l’infame possa divenire oggetto di una biografia precisamente e solo in quanto individuo, «identità sola, chiusa nell’irripetibile vicenda delle sue “affezioni segrete”» (ivi, p. 114). Il paradigma esemplarista può essere superato con l’affermarsi di un modello senza esempi, la cui vita unica e autentica, pur essendo paradigmatica, non consente più alcuna forma di mimesis e, per questo, non può che essere l’espressione concreta di una «ontologia della solitudine» (ivi, p. 119), la stessa che affligge le nostre vite contemporanee.

È interessante notare il metodo con cui Watkins affronta l’evoluzione della biografia, focalizzando la propria attenzione sul modo in cui si intrecciano, nel corso dei secoli, le due coppie concettuali illustre/infame e impersonale/individuale. Una declinazione formale e preindividuale della vita è stata possibile a patto di escludere dalla narrazione del bios l’uomo comune, che, invece, può diventare oggetto di una biografia solo se al suo carattere viene attribuita una differenza irriducibile, ovvero un’unicità individuale. Sembra, dunque, che le due coppie non possano che distribuirsi in questo modo: illustre-impersonale, infame-individuale. 

Eppure, nel penultimo momento della sua ricerca, Watkins ci consegna una possibile eccezione che sfugge a questa sistemazione. Con Montaigne l’homo cotidianus viene introdotto nella biografia senza essere ritratto come un individuo inimitabile. Il merito di Watkins consiste, infatti, nel portare alla luce un volto di Montaigne diverso da quello che comunemente siamo soliti attribuirgli («l’idea di un Montaigne individualista, chiuso in uno spazio-tempo che riguarda lui soltanto, l’idea dei Saggi come espressione di una solitudine moderna», ivi, p. 92). Anche in questo caso un’affermazione di Montaigne ci fa da guida: dire Je m’appelle Michel de Montaigne comme tout le monde non significa

ritrarre l’unicità e l’irripetibilità della propria vicenda personale, bensì far affiorare, dalle contingenze di una vita, le qualità comuni a una singolarità qualunque, liberarsi dei segni particolari che perimetrano il recinto di un’identità (ivi, p. 94).

L’infamia può accoppiarsi, forse qui solo, a una declinazione impersonale della vita.

Capiamo ora meglio quale sia il simpatico tarlo che muove la riflessione di Watkins. Come già leggiamo nelle prime righe che introducono l’opera, questo lavoro archeologico ha lo scopo di rispondere a una domanda filosofica che la biografia pone solo in modo indiretto: «Che cosa resta di una vita?» (ivi, p. 9). La domanda sulla biografia – che cosa significa scrivere una vita – scivola impercettibilmente in una domanda sulla vita stessa. Chi abbia già avuto modo di frequentare qualche prosa di Watkins non avrà avuto difficoltà nel percepire una singolare sensibilità, delicata e dimessa, che si rivolge alle atmosfere rarefatte, alle figure minori e alle pacate diserzioni. È questo stesso interesse per le posture liminari e i modi mediali di essere che percorre in sottofondo Infamia e biografia

Con la sua opera Watkins, inserendosi in una linea filosofica decisamente minoritaria, non fa che consegnarci, in definitiva, una concezione modale e impersonale della vita: «Che cosa resta, allora, di una vita? Un modo. Un certo modo di accavallare le gambe, una battuta detta per scherzo, un’aria» (ivi, p. 10).

David Watkins, Infamia e biografia, Neri Pozza, Vicenza 2023.

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