Nel panorama della sperimentazione audiovisiva contemporanea, un posto di rilievo spetta a Bill Morrison, un regista statunitense che ha saputo elaborare una concezione del film di montaggio basata su una originale ricerca d’avanguardia. Già con Decasia: The State of Decay (2002), Morrison è riuscito a trasformare il deterioramento chimico-fisico di una vasta raccolta di materiali in pellicola infiammabile (nitrato di cellulosa) in direzione di un linguaggio espressivo unico e una intensa volontà artistica. Infatti, Decasia è un caso celebre ed esemplare di found footage film, riutilizzo di frammenti provenienti da opere diverse, che ridefinisce la risemantizzazione delle formule di “citazione” cinematografica.

L’assemblaggio del film, che parte dalla selezione di materiali eterogenei gravemente compromessi da danni chimico-fisici, presenta figure la cui integrità visiva è alterata dal degrado. Il film segue un’estetica della rovina, veicolo di significati simbolici sulla trascendenza e sulla lotta dell’umanità contro il tempo. In Decasia, la pellicola diventa una metafora della caducità del corpo umano e della natura dell’esistenza, in una ontologia delle tracce memoriali fra la vita e la morte. 

Con Dawson City: Frozen Time (2016), Morrison descrive il ritrovamento di oltre cinquecento film sotto il permafrost di Dawson City, nello Yukon, in Canada. Questa scoperta “archeologica” determina un approccio al cinema come strumento non teleologico di rimediazione della memoria, in una stratificazione e sedimentazione spontanea delle forme mediali del passato; il ritrovamento dei film, avvenuto nel 1978, diviene l’occasione per raccontare la corsa all’oro del Klondike e la Hollywood del muto, miti fondativi americani, riflettendo sul medium fotochimico come custode e vettore della memoria che interseca la Storia.

Con la recente candidatura agli Academy Awards 2025 come miglior cortometraggio documentario, Incident (2023) opera in direzione della denuncia sociale attraverso un’ originale riflessione sulla meccanica della rappresentazione audiovisiva nei suoi impliciti rapporti di potere con il pubblico. Incident è un documentario di trenta minuti che riprende e rielabora il found footage scegliendo un medium differente; non più la pellicola cinematografica e le sue caratteristiche di specificità estetica, ma una combinazione di vari dispositivi di videosorveglianza, CCTV, dashboard e body-cam, orchestrati secondo un montaggio in split-screen. È il racconto di uno scontro a fuoco (un “incidente”) che nel 2018, due anni prima del celebre caso di George Floyd, ha visto protagonista la polizia di Chicago, mentre la vittima è un barbiere afroamericano, Harith Augustus conosciuto come “Snoop”.

Bill Morrison sviluppa un’indagine in cui le immagini registrate in tempo reale si trasformano in un dispositivo narrativo capace di ricostruire un evento drammatico attraverso un approccio frammentario e polifonico. La prova forense che dichiara inequivocabilmente le responsabilità dell’omicidio è suddivisa nelle porzioni di schermo che compongono il mosaico di una visione in cui più immagini si sovrappongono e si alternano. Questa polifonia non solo immerge lo spettatore nella confusione del momento, ma lo costringe a confrontarsi con la molteplicità di prospettive che emergono attorno a un episodio di violenza dalle conseguenze tragiche. Una violenza testimone di bias e pregiudizi razzisti per cui il gesto del corpo di un nero implica quasi automaticamente, per i poliziotti, il possesso di un’arma. La percezione dell’accaduto si sfalda, ma il film oltre a descrivere la prassi di un insabbiamento istituzionale, evidenzia come ogni tentativo di ricostruzione sia esso stesso un atto di selezione, omissione e manipolazione. 

Incident di Bill Morrison si inserisce in modo significativo nel contesto del movimento Black Lives Matter, evidenziando le dinamiche di potere e le narrazioni istituzionali che circondano la violenza della polizia contro le persone nere. La scelta di utilizzare esclusivamente filmati di sorveglianza e body-cam senza alcun commento esterno invita lo spettatore a confrontarsi direttamente con la brutalità dell’evento, sollevando domande cruciali su giustizia e trasparenza.  Il film evidenzia come le immagini, anche quelle apparentemente “oggettive” delle telecamere di sicurezza, possano essere manipolate per sostenere una determinata narrazione ufficiale. Questo aspetto è particolarmente rilevante nel contesto del movimento Black Lives Matter, che ha utilizzato ampiamente video amatoriali e filmati di body-cam per smascherare versioni ufficiali distorte o incomplete degli eventi, dando visibilità alle ingiustizie sistemiche: dal caso di Eric Garner e Laquan McDonald nel 2014 ai più recenti che hanno coinvolto Daunte Wright e Tyre Nichols (2023).

In questo senso, il lavoro di Morrison non solo documenta un episodio di violenza della polizia, ma critica anche il modo in cui le narrazioni pubbliche vengono costruite per giustificare l’uso della forza contro i corpi neri. Inoltre, il film di Morrison mette in discussione l’efficacia delle body-cam come strumento di responsabilità e trasparenza. Nonostante siano state introdotte come misura preventiva, le immagini di Incident mostrano come gli agenti coinvolti nell’uccisione di Harith Augustus inizino immediatamente a costruire una versione dei fatti che contraddice ciò che è stato registrato; nonché la capacità di manovra, da parte degli agenti, di manipolazione del dispositivo.

Questo riflette una delle critiche centrali del movimento Black Lives Matter: la presenza delle telecamere non garantisce giustizia se non viene accompagnata da un cambiamento sistemico nelle strutture di potere e responsabilità istituzionale. Questo ci porta indirettamente a riflettere sull’uso della sorveglianza come strumento di controllo sociale, un tema centrale in particolare nel dibattito sulla criminalizzazione delle comunità nere. Le immagini fredde e distaccate delle telecamere rafforzano un’estetica della sorveglianza che disumanizza le minoranze, riducendole a essere inevitabili oggetti di controllo repressivo. In questo senso, l’operazione di recupero che impone Morrison si inserisce nella campagna del Black Lives Matter non solo come denuncia della violenza statale, ma anche come critica alle strutture di sorveglianza che perpetuano il razzismo sistemico.

Attraverso un uso magistrale delle immagini, Bill Morrison crea un’opera che non solo documenta un evento tragico, ma stimola una riflessione profonda sulle implicazioni politiche ed etiche della sorveglianza, rendendo Incident un contributo significativo al discorso contemporaneo sulla giustizia sociale e razziale. Come scrive Torin Monahan, «la sorveglianza di Stato non è nata dalle ceneri delle torri del World Trade Center crollate, dal Pentagono fumante o dai rottami bruciati dell’aereo dirottato che si è schiantato in Pennsylvania«» (2012, p. 285). Se da un lato Monahan sottolinea la continuità delle strutture di sicurezza contemporanee con i programmi di sorveglianza precedenti, come ECHELON e COINTELPRO, dall’altro questi sistemi contemporanei e le loro rappresentazioni devono essere ancorati a storie più ampie e violente di colonialismo, supremazia bianca che hanno stabilito il tono della sorveglianza contemporanea, anche se le giustificazioni sono cambiate. In altre parole, le forme contemporanee di sorveglianza e contenimento dei corpi e delle popolazioni nella Guerra al Terrore funzionano all’interno di una più lunga genealogia di classificazione e confinamento dell’umanità e di estrazione sotto il colonialismo e l’imperialismo

Dunque, un corto circuito che non ha certo inizio con il 2001, come ripetutamente ricordano i poliziotti coinvolti in termini di sicurezza e preservazione. E Morrison questo ce lo sottolinea introducendoci agli eventi narrati, ancor prima dei titoli di testa, con la stessa sequenza che conclude poi il cortometraggio: la morte di Harith. Questa diventa emblematica nella sua “banalità” a dir poco inquietante: un corpo esanime su un marciapiede, la presenza dei soccorritori che si muovono con una logica meccanica, la folla che aumenta progressivamente, caricando lo spazio di tensione.

Questi elementi contribuiscono a sottolineare l’ambiguità dell’accaduto, la surreale sequenza degli eventi, che trasformano la concatenazione delle immagini provenienti dagli archivi mnestici attivi in un campo di forze in cui verità e manipolazione di questa si contaminano a vicenda. La frammentazione visiva e l’alterazione della percezione temporale sono strumenti che Morrison utilizza per rivelare la natura instabile della memoria visuale e per sottolineare il modo in cui la registrazione di un evento non garantisca automaticamente la sua comprensione.

L’apparente ordinarietà della scena contrasta con l’intensità emotiva della situazione, rendendo ancora più tangibile la dissonanza tra la realtà della violenza e il tentativo di contenerla (o meglio rimuoverla!) dal campo visivo. Il film configura pertanto una riflessione sullo sguardo e sulla responsabilità della visione, mettendo lo spettatore di fronte all’impossibilità di una verità assoluta e alla necessità di confrontarsi con un approccio forense, ad abituarsi alla comprensione della pluralità dei racconti che emergono da un singolo evento.

In tal senso, Incident esamina criticamente il ruolo delle immagini di sorveglianza e delle body-cam nella costruzione delle narrazioni ufficiali sugli interventi della polizia. Attraverso un approccio asciutto e privo di commento esterno, Morrison ricostruisce l’uccisione di Harith “Snoop” Augustus da parte dell’agente Dillan Halley, utilizzando esclusivamente filmati di telecamere di sicurezza e body-cam. Questa scelta stilistica amplifica il senso di realismo e immediatezza, immergendo lo spettatore nell’evento con una prospettiva cruda e inesorabile. L’assenza di una voce narrante o di interviste costringe lo spettatore a confrontarsi direttamente con le immagini, mettendo in discussione l’idea di oggettività associata alle riprese di sorveglianza.

Morrison, infatti, solleva interrogativi su come le narrazioni vengono costruite, manipolate o omesse per giustificare determinate versioni ufficiali; dichiara il regista durante la presentazione del corto tenutasi presso FABRICA nel giugno 2024 a Treviso: “With the public’s access to this footage established, a shift in police behavior happens. The cops are all performing now. They know that they’re on camera and that it’s going to be reviewed, and they are creating a narrative to vindicate their actions”. La sequenza in cui gli agenti discutono subito dopo l’incidente, confrontandosi su come raccontare l’accaduto, evidenzia le discrepanze tra le immagini registrate e le dichiarazioni ufficiali, rivelando il processo di costruzione narrativa che segue un evento tragico. Morrison ci spinge a esplorare anche l’implicita disumanizzazione derivante dall’uso di tecnologie di sorveglianza: le telecamere offrono una visione distaccata, fredda e impersonale, che riduce i soggetti a semplici figure in movimento all’interno di un’inquadratura. Morrison utilizza questa estetica per provocare una riflessione sul modo in cui la sorveglianza non solo documenta ma anche modella la percezione pubblica della violenza di polizia.  

Un lavoro che anima un dibattito acceso, che solleva domande scomode sulla trasparenza e sull’accountability delle forze dell’ordine, soprattutto in un’epoca in cui l’uso delle body-cam viene promosso come garanzia di verità. La possibilità, per gli agenti, di disattivare le telecamere nelle discussioni post-incidente sottolinea i limiti di queste tecnologie come strumenti di giustizia e verità. Attraverso un linguaggio visivo rigoroso e una narrazione priva di orpelli, Bill Morrison trasforma le immagini di sorveglianza in un potente strumento di critica sociale, rivelando le implicazioni etiche e politiche dell’osservazione tecnologica nella costruzione della memoria collettiva e della verità storica.

Il progetto di Morrison lavora per mettere in discussione il modo in cui i corpi vengono coinvolti in modo diseguale nelle politiche di sicurezza e controllo. Se da un lato Incident è ben collocato all’interno nella narrativa di una fallacia nel sistema di sorveglianza contemporaneo, dall’altro si preoccupa di storicizzare il momento attuale non come un momento distinto o eccezionale, ma come una continuazione della violenza su certi corpi che ha permesso la sedimentazione di traiettorie coloniali e imperiali. Leggere un’opera come quella di Morrison considerando l’economia corporea della sorveglianza – storica e attuale – significa porre domande e mettere in discussione storie che diventano legge, diventano violenza, diventano morte.

Riferimenti bibliografici
R. Catanese, Bill Morrison, Decasia: The state of Decay, Mimesis, Milano-Udine 2023. 
L. Cesaro, Geografie del controllo nella scena audiovisiva contemporanea, Bulzoni, Roma 2022. 
T. Monohan, “Surveillance and Terrorism”, in Routledge Handbook of Surveillance Studies, eds Kirstie Ball, Kevin D. Haggerty and David Lyon – Routledge, New York 2012. 

Incident. Regia: Bill Morrison; interpreti: Harith Augustus, Leon Coleman, Megan Fleming, Dillan Halley, Quincy Jones, Danny Tan; produzione: Hypnotic Pictures, Invisible Institute, The New Yorker; origine: Stati Uniti d’America; durata: 30′; anno: 2023.

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