«Soltanto al cinema l’automobile è diventata poetica: come nella romantica tensione di un inseguimento al volante tra automobili che sfrecciano via» (Lukács 2020, p. 363). Sono parole di György Lukács che individuano nel carattere impersonale del cinema lo specifico di quest’arte. A differenza del teatro e della sua componente necessariamente umana, il cinema è in grado di rendere espressivo, poetico, quanto prescinde dall’umano, come appunto un inseguimento tra due automobili.

Ora, se c’è un regista che sembra rispecchiare perfettamente questo assunto è William Friedkin, la cui opera incarna alla perfezione questa proprietà, ponendosi quindi come una potente riflessione sulla natura impersonale della macchina-cinema. Ancora Lukács: «Nel cinema si realizza tutto ciò che il romanticismo ha chiesto invano al teatro: la più estrema e sfrenata dinamicità delle forme, il totale che prende vita sullo sfondo, la natura e gli interni, le piante e gli animali; una vitalità che non è vincolata al contenuto e ai limiti della vita ordinaria» (ivi, p. 361).

Automobili, strade, aerei, ponti, metropolitane, compongono tutto un repertorio di immagini che fanno di Friedkin il regista della vita inanimata. La corsa di Popeye Doyle in Il braccio violento della legge (1971) sotto la metro di New York, quella su una highway in contromano all’ora di punta in Vivere e morire a Los Angeles (1985), l’inseguimento nella Chinatown di San Francisco in Jade (1995, film quanto mai da rivalutare) per arrivare a un’opera come The Hunted – La preda (2003), che sposta l’ambientazione dalla città alle foreste dell’Oregon ma estende l’inseguimento, dal sapore biblico, per tutta la durata del film, sono tutti esempi perfetti di come la carica espressiva del cinema di Friedkin nasca da questa natura di occhio tecnico, capace di dare vita attraverso il montaggio a quanto non ha vita. Ecco perché se c’è un genere che più lo rappresenta questo è proprio il noir, genere urbano per eccellenza, che meglio gli permette di esplorare questa dimensione, con tutto il suo immaginario fatto di asfalto e lamiere. Da qui anche quell’ambiguità che spesso la critica ha rilevato nelle sue opere, e che è sì una componente delle sue storie e dei suoi personaggi, ci torneremo, ma che sembra nello stesso tempo legata proprio a questa capacità di animare l’inanimato.

Ora però, e nello stesso tempo, la macchina-cinema di Friedkin non abbandona l’umano ma lo lavora, lo include nella rappresentazione. Ecco un’altra delle ragioni della sua grandezza di cineasta. Friedkin è in grado cioè di combinare l’occhio tecnico con la dimensione corporea, propria del teatro. D’altra parte, è ciò che mostra anche la sua formazione. Dopo l’esperienza televisiva all’inizio della sua carriera (cura la regia di alcuni programmai tv e di documentari; in un percorso simile, con tutte le differenze del caso, a quello di un altro rappresentante della New Hollywood, come Spielberg) e dopo l’esordio alla regia con il musical Good Times (1967), la messinscena delle vicissitudini artistiche del duo canoro Sonny e Cher, che interpretano loro stessi, i tre film successivi guardano proprio al teatro: dallo spazio circoscritto dell’azione di Quella notte inventarono lo spogliarello (1968) a Festa di compleanno (1968) tratto da un’opera di Harold Pinter (collaboratore anche alla sceneggiatura) a Festa per il compleanno del caro amico Harold (1970), anch’esso basato su una pièce teatrale, questa volta di Mart Crowley.

Ma soprattutto questa dimensione teatrale trova riscontro nella centralità che il lavoro sul corpo degli attori acquisisce nella costruzione dei film. Come più volte dichiarato dallo stesso regista è la proprio la fase di casting quella centrale per la riuscita dell’opera. Corpi di personaggi di cui il film racconta le derive esistenziali. E che si muovono sempre in un’indagine che utilizza il pretesto del genere (che sia il noir o l’horror) per indagare i luoghi oscuri dell’animo umano. Da qui la modernità anche del cinema di Friedkin, il suo stare dentro e fuori Hollywood, ribaltando dall’interno i canoni generici del cinema mainstream, per renderli più complicati e sfaccettati.

In maniera ancora più evidente è quello che accade nell’opera che lo ha consacrato presso il grande pubblico, e che ha inaugurato il blockbuster moderno: L’esorcista (1973), presenta sempre dei personaggi attanagliati dal dubbio e dall’angoscia. Un film che fa fare un salto di categoria al genere horror facendolo accedere a una dimensione altra. Un “horror esistenziale” secondo la felice definizione di Paul Schrader. Un’idea che poi diversi anni dopo lo stesso regista riprenderà nel suo travagliato e “maledetto” Dominion: Prequel to the Exorcist (Schrader, 2005). E l’opera di Friedkin non è certo esente da film dannati. È la bellezza quasi herzoghiana di un film “malato” come Il salario della paura (1977), “bigger than life” ancora di più dei suoi coevi Apocalypse Now (Coppola, 1979) e I cancelli del cielo (Cimino, 1980).

Visione ancora una volta moderna del cinema che trova espressione nella potenza deflagratice del reale che irrompe nelle strutture di genere. Il film non nasce in sceneggiatura ma nel contatto con il reale, con la location che influenza la messa in scena (da qui il rifiuto dello storyboard anche nella creazione delle celebri sequenze di inseguimento). L’immagine si apre al reale. In questo senso, Il braccio violento della legge si rivela esemplare nel suo registro documentaristico che privilegia la  routine lavorativa, le tensioni tra i colleghi, i lunghi appostamenti che sembrano non condurre a nulla, che sembrano negare l’idea stessa di azione (la “french connection” del titolo originale che cos’è se non quella con la Nouvelle Vague?).

Nel suo Cinema Speculation Quentin Tarantino contesta allo Schrader di Hardcore (1979) uno “sguardo moralistico” nella rappresentazione del mondo del porno, che

non regge il confronto con il tour nei bar sadomaso per soli uomini che quello stesso anno fece William Friedkin in Cruising. Il film di Friedkin non solo trasmette un’impressione di autenticità, è anche una fantasmagoria sensoriale al tempo stesso sexy e terrificante che non è paragonabile a nient’altro (Tarantino 2023, p. 365).

Ecco Cruising è forse il film che meglio sintetizza tutto il cinema di Friedkin in tutti questi aspetti che qui brevemente abbiamo tentato di ripercorrere. E soprattutto l’apparente contraddizione da cui siamo partiti: il suo essere nello stesso tempo occhio tecnico che si rende indipendente dall’umano e racconto di questo stesso umano. Un umano colto sempre sul labile confine che separa il bene dal male. Una visione unica quella del cinema di Friedkin che bene e male rende indiscernibili. Come nella vita. Una macchina che racconta la vita.

Riferimenti bibliografici
G. Lukács, L’anima e l’azione. Scritti su cinema e teatro, a cura di F. Ceraolo, Pellegrini, Cosenza 2020.
Q. Tarantino, Cinema Speculation, La Nave di Teseo, Milano 2023.

William Friedkin, Chicago 1935 – Los Angeles 2023.

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