La condizione della stanzialità o della non-migrazione ha caratterizzato una parte consistente del cinema pugliese degli ultimi vent’anni, un cinema strutturato dall’esercizio quotidiano dello sguardo sulle cose vicine, alla ricerca del reale e del mito allo stesso tempo. Il percorso di Valentina Pedicini, che purtroppo si interrompe dopo quarantadue anni di vita, svariati documentari, un corto e un lungometraggio di finzione, è stato un percorso differente, fin dall’inizio segnato dall’oscillazione tra allontanamento e ritorno, tra perdita e riappropriazione.
L’incipit di My Marlboro City (2010) è un manifesto del suo approccio, l’idea di uno sguardo a occhi chiusi che cattura il reale più in profondità; mentre sullo schermo scorrono veloci le immagini della campagna brindisina ripresa dal treno, la voce over della regista espone questo punto di vista che è anche un punto di fuga: “Se chiudo gli occhi e cerco nei ricordi i frammenti dell’infanzia, vedo fumo. Un fumo denso e dolce, mescolato all’odore del mare. Non abito più qui da tanto, ma adesso che ci sono, adesso riconosco ogni cosa. Gli scogli su cui correvo ferendomi i piedi, la luce triste all’imbrunire, la strada che mi porta alla casa dei miei”. Dal fumo denso e dolce della memoria prende forma la storia del contrabbando di sigarette a Brindisi, la città in cui Valentina Pedicini è nata e da cui è partita a 19 anni, diretta prima a Roma e poi a Bolzano, dove ha frequentato la scuola di cinema Zelig.
A Bolzano realizza Pater Noster (2008), un cortometraggio documentario che esplora l’enclave di una comunità altoatesina di monaci shaolin di religione cattolica; qui si palesa la predilezione dell’autrice per gli universi chiusi, ad accesso limitato, in cui l’istanza filmante ha la possibilità di mostrare e rivelare cose non viste: pensiamo all’orfanotrofio svizzero in Dove cadono le ombre, il lungometraggio prodotto da Fandango nel 2017, e anche alla comunità marchigiana di monaci guerrieri filmata nell’ultimo documentario Faith del 2019. Anche Pater Noster si apre con una dichiarazione che valorizza la realtà interiore; a parlare è una delle donne della comunità shaolin: “Da piccola ho sempre sognato molto, sentivo che c’era qualcosa di diverso in me, mi piaceva fantasticare di essere in un altro mondo, e alla fine ci sono arrivata”.
Questa interiorità, nel cinema di Valentina Pedicini, si esprime in termini luministici mediante la penombra, che favorisce le condizioni per il raccoglimento e il dialogo tra i soggetti rappresentati e la regista: anche la protagonista di Mio sovversivo amore (2009), è ripresa nel buio mentre dà vita alla propria parte maschile per una performance di Drag King. Ed è ancora nell’ombra perenne che lavora l’unica minatrice donna del Sulcis, nel documentario Dal profondo (2013), in cui la macchina da presa scende 500 metri sotto terra, mentre la voce della donna dice allo spettatore: “Respira, respira piano. I tuoi occhi presto si abitueranno al buio. Non aver paura”. È un cinema che attiva e mette in allarme tutti i sensi, per ricostruire compiutamente il mondo da narrare; quando Valentina Pedicini gira il suo primo cortometraggio di finzione, Era ieri (2016), spiega in un’intervista molto bella pubblicata su “il lavoro culturale”: «Ho dovuto scavare nei miei ricordi e infondere gli odori, i respiri, la delusione».
Questa necessità di scavare per realizzare una ricerca del reale dove il reale si nasconde, in un lavoro che consiste nel portare alla luce ciò che è sepolto nella memoria, ha il suo massimo risultato in Dove cadono le ombre. In una casa di riposo della Svizzera odierna, un’infermiera si trova ad accudire un’anziana signora che era stata sua istitutrice nello stesso luogo, molti anni prima, quando la casa di riposo era un orfanotrofio destinato ai bambini provenienti da famiglie di etnia Jenisch. Ispirato alle pagine autobiografiche di Mariella Mehr, il film si fa apprezzare anzitutto per come sa narrare con tensione crescente il ritorno di un passato rimosso, presentando una classica inversione tra vittima e carnefice, supportata da una notevolissima performance di Elena Cotta nel ruolo dell’ex-aguzzina. Lo stile astratto della messa in quadro fa assumere alla vicenda un valore ancora più universale; avvalendosi del contributo determinante di Vladan Radovic alla fotografia, la regista brindisina costruisce una versione scarnificata del reale del tutto aderente al racconto, mostrando una maturità indiscutibile.
Ora la scomparsa di Valentina Pedicini ci priva purtroppo delle sue opere future, ma non del suo tenace invito a scavare sotto la superficie delle cose, chiudendo gli occhi per vedere meglio.
Valentina Pedicini, Brindisi 1978 – Roma 2020.