Con la morte di Sandra Milo, al secolo Salvatrice Elena Greco, nata nel 1933 a Tunisi, scompare una delle ultime dive della stagione aurea del cinema italiano. Una delle figure più amate, parodiate, presenti nella storia del nostro spettacolo, tra cinema, televisione, teatro, rotocalchi, ma ancora oggi – come spesso accade per attrici e attori – poco esaminata in ambito storiografico e critico.
Diva protagonista di grandi successi per diversi decenni, dalle commedie degli esordi a diverse esperienze internazionali, soprattutto con autori francesi, fino alla stagione cinematografica più importante, con Il generale della Rovere (1959) e Vanina Vanini (1961) di Rossellini, Adua e le compagne (1960), Fantasmi a Roma (1961) e La visita (1963) di Pietrangeli, 8½ (1963) e Giulietta degli spiriti (1965) di Fellini (ruoli, questi ultimi, che le hanno valso il Nastro d’argento come miglior interprete non protagonista). Ma è stata anche attrice per Bolognini, Gregoretti, Salce, Festa Campanile, Zampa (Frenesia dell’estate, 1963), Risi (L’ombrellone, 1965), e negli ultimi anni – malgrado le apparizioni diradate – Salvatores, Avati, Muccino, Castellitto.
Tutta la carriera di Sandra Milo è stata contraddistinta almeno da due elementi fondanti. Da un lato, dagli esordi fino agli ultimi mesi della sua vita, Milo ha abitato l’intero spazio mediale del nostro paese, dal cinema alla televisione, dalla canzone ai magazine, dall’editoria (celebri le autobiografie, ma pochi ricordano che l’attrice è stata anche autrice di poesie, con un testo titolato Il corpo e l’anima) fino ai social, con il recentissimo – e molto apprezzato – avvicinamento a Instagram. Dall’altro lato, spicca la sua trasformabilità performativa, la sua attitudine a modificare gli assetti più riconoscibili e stabili della sua immagine, adattandoli non solo al cambiamento dei tempi, ma anche alle forme cangianti che il suo pubblico esigeva. Rimanendo se stessa.
Sandra Milo non si è risparmiata, ha dato molto di sé – in termini di trasversalità ma anche di continuo arricchimento della sua immagine di star – con una generosità che ha pochi eguali nella storia del nostro spettacolo. Dopo il 1968, anno in cui interrompe per una decina d’anni le attività per rimanere in famiglia, Milo riapparirà diventando un volto noto del piccolo schermo negli anni craxiani, prima con una rubrica in Mixer (Rai Due, 1983-1984), poi con le trasmissioni Piccoli fans (Rai Due, 1984-1989), L’amore è una cosa meravigliosa (Rai Due, 1989-1990) e Cari genitori (Rete 4, 1991-1992). E poi, via via, le partecipazioni ai reality (da L’isola dei famosi 7, nel 2010, fino al Cantante mascherato nell’edizione 2023, nei panni della maschera Cigno), il ruolo di opinionista, le apparizioni senza veli (nel 1990 sulla copertina di Playmen e qualche anno fa, a 87 anni, in copertina del magazine Flewid, appoggiata su un letto a gambe divaricate e coperta solo da un lenzuolo bianco).
Fino alle ultime produzioni, in particolare il docu-reality Quelle brave ragazze (Sky, 2022-2023, Riccardo Valotti), dove Milo, accompagnata da Orietta Berti (poi sostituita da Marisa Laurito nella seconda edizione) e Mara Maionchi, viaggiano in diverse parti d’Europa tra avventure, prove da superare, momenti di confidenze e condivisioni, ricordi, incontri. Memorabile il momento in cui, nella prima stagione, Milo, Maionchi e Berti si scambiano aneddoti confidenziali sui loro amori e il loro rapporto con il sesso, mentre fanno colazione al mattino in camicia da notte e tuta, tra fette biscottate e croissant. Orietta Berti racconta dell’amore per suo marito Osvaldo, e Sandra Milo chiede: “Ma tu hai avuto solo lui?”, e alla risposta affermativa dell’amica, Milo prosegue titubante chiedendo “e… scusa… ma tu hai fatto l’amore solo con lui?”; Berti risponde di sì, e Milo sbalordita, dopo un attimo di attesa, esclama sgranando gli occhi, realmente curiosa e con un eterno candore sorpreso: “e con nessun altro?”.
Un aspetto fondamentale della sua carriera ha riguardato l’enorme attenzione mediatica che ha subito. Sandra Milo è stata sotto più aspetti una diva discussa e celebrata, e proprio per questo parodiata, imitata, presa in giro, soprattutto negli anni in cui è divenuta una icona della cultura popolare, che a volte si è orientata verso il trash: come dimenticare il grido “Cirooo!” durante una puntata di L’amore è una cosa meravigliosa, a seguito di uno scherzo in cui una telespettatrice avvisava in diretta dell’incidente occorso al figlio Ciro, oppure l’imitazione di Gianfranco D’Angelo a Drive in ai tempi di Piccoli fans, con pettinatura anni Ottanta e il tormentone “Che carinooo!”. La carriera cinematografica e televisiva dell’attrice è sempre stata messa in relazione, come avviene per le star, con la sua vita privata e con i discorsi circolanti attorno ad esse, focalizzati soprattutto sulle tribolazioni famigliari (a partire dall’esperienza matrimoniale molto precoce, annullata dalla Sacra Rota, e la gravidanza poi non portata a termine a 15 anni), il rapporto con il secondo marito, il produttore Moris Ergas (padre della sua primogenita Deborah), e poi con Ottavio De Lollis, padre dei figli Ciro e Azzurra.
Anche da questo punto di vista la star Milo non si è mai sacrificata, alimentando quella stessa attenzione mediatica sulla sua immagine auto-narrandosi in prima persona, raccontando dell’amore per Fellini durato 17 anni, del suo genio e dei loro incontri clandestini in motel di periferia o in alberghetti squallidi, della storia d’amore con Bettino Craxi, delle sue infedeltà, della violenza fisica e psicologica subita nel matrimonio con Ergas, e più recentemente manifestando per i diritti delle donne, i diritti degli omosessuali, la tutela degli animali.
Un’attrice, una performer e un’artista poliedrica e trasversale, del tutto a suo agio con i differenti mezzi di espressione artistica, ma al contempo con dei tratti di riconoscibilità, di stile, di specificità che l’hanno resa famosa a livello internazionale. Anzitutto, la voce: un timbro unico, quello di Sandra Milo, flautato in gioventù, e poi più stridulo, atipico, e unito ad un incedere delle parole inframmezzato da pause, sospiri, brevi intervalli cadenzati con piccole risate, che si ritrovano nei film, nella conduzione televisiva, e persino negli spot (ad esempio nel Carosello per la Palmolive, nel 1959). E poi il sorriso, altro marchio recitativo di Milo, così come il passo anchegghiante, un’andatura ondeggiante che ha connotato molti suoi personaggi. Pensiamo a Carla, l’amante di Guido (Mastroianni) in 8½, soprattutto nelle scene ambientate nell’albergo periferico vicino alla stazione che fa da sfondo alle loro avventure extraconiugali. Guido la vuole truccata “più da porca”, aumentandole il trucco vicino agli occhi con una matita nera, in un gioco erotico che mantiene anche un livello giocoso, extra-realistico, fumettistico (Carla legge i fumetti a letto e si esprime attraverso interiezioni come “sgnac”, “sgulp”, “sbac”), incarnando una perfetta amante-giocattolo che si concede restando una gioia ludica e non un gravoso impegno, come nel matrimonio.
Eppure la performance di Milo, non soltanto perché guidata da Fellini, si libera di un connotato più superficiale per restituire la complessità di un personaggio goffo ma resistente, che parla bene del marito piluccando il pollo con le mani, o che domanda – buttandosi tra le braccia dell’amante palesemente disaffezionato, prima dell’amplesso –: “Guido, ma mi vuoi anche bene?”. In grado, insomma, di rivelare tutta la fallacia del suo interlocutore, alter ego del regista. O pensiamo a Pina, protagonista della Visita, forse il ruolo più complesso nella filmografia di Milo, e uno dei ruoli più indelebili di tutto il cinema italiano: lavoratrice, autonoma, che ha relazioni sessuali senza essere sposata ma cerca l’amore negli annunci della posta del cuore, sui rotocalchi. Pietrangeli allarga il suo corpo, già florido, con un finto fondoschiena in gommapiuma (Pina è “la bella culandrona” per gli abitanti del piccolo paese in cui vive nella bassa ferrarese) e la boccuccia truccata a cuore. E come in 8½ la performance dell’attrice racconta anche contraddizioni, attese, solitudini, piccoli e grandi desideri: quando fa le prove per l’imminente incontro con il cinico Adolfo, nella sala d’aspetto della stazione, mentre si specchia e prova l’entrata in scena e le battute da dire, come un’attrice; quando intona a bassa voce, tra sé, da sola in vestaglia sul divano, Io che amo solo te di Sergio Endrigo (“c’è gente che ha avuto mille cose / tutto il bene, tutto il male del mondo”), mentre sfoglia un periodico femminile e le lacrime di sconforto e solitudine scendono a rigarle il viso; o quando se ne va con la sua auto, sola ma libera, progettando una gita al mare, nel finale del film.
Il significato simbolico del corpo accomuna queste figure femminili, e diversi ruoli di Sandra Milo. È stata spesso ricordata, anche in questi giorni della scomparsa, la leggerezza dell’attrice; eppure nei film che interpreta non viene mai rappresentato un corpo leggero o ingenuo. Viene mostrato, piuttosto, un corpo che aveva il compito di significare, un corpo pesante, distintivo, che riesce ad essere erotico e perturbante, pieno e aggraziato, ancestrale e infantile.
Letizia Battaglia ha accostato la carnalità di Milo a quella di Kim Novak. «[Milo] emanava sesso da ogni poro, ma a mio avviso le mancava la sua [di Novak] innocenza, la dolcezza del suo volto». Nell’uso del corpo di Milo non vi è mai, paradossalmente, la pura esibizione, ma una estrema consapevolezza dei toni e delle sfumature della propria performance, e ovviamente della propria corporeità: quello di Sandra Milo è un corpo-sintomo dell’Italia degli anni sessanta, che parla della condizione delle donne (e in generale di una condizione esistenziale) sfruttando gli stereotipi della leziosità, della superficialità e della esteriorità, e mettendo al centro la questione del desiderio e dell’inquietudine. Ancora Letizia Battaglia: «nell’“ocaggine” dei personaggi di Sandra Milo non c’è leggerezza. C’è un che di pesante, invece. C’è insoddisfazione. E c’è il cinismo dell’Italia bacchettona e maschilista di allora».
Malgrado l’apparente svagatezza, la sua disinibizione pubblica nel mostrarsi esposta e nel narrare dei suoi amori e delle sue passioni erotiche, Milo attrice ha incarnato un modello femminile estremamente focalizzato sul racconto delle crepe dell’essere donna, del disagio, della solitudine, della scomodità. Si è descritta, in un’intervista di una decina d’anni fa, come una donna «sempre in fuga», eppure tutto di lei, nell’arco di una lunga carriera e di una lunga vita, ha comunicato il contrario del ripiegamento, finendo per raccontarla come uno dei nostri simboli più nitidi della curiosità e della libertà.
Riferimenti bibliografici
A. B. Saponari, “Una donna dongiovanni”. Deformazioni grottesche del corpo erotico di Sandra Milo nel cinema italiano dei primi anni Sessanta, in Laura Busetta, Federico Vitella (a cura di), Stelle di mezzo secolo: divismo e rappresentazione della sessualità nel cinema italiano (1948-1978), in Schermi. Storie e culture del cinema e dei media in Italia, IV, n. 8, luglio-dicembre 2020.
D. Shalom Vagata, Guido, la Saraghina e la signora Carla: studio sulle immagini di 8½, in Contemporanea. Rivista di studi sulla letteratura e sulla comunicazione, n. 4, 2006.
F. Maresco, La mia Battaglia. Conversazioni con Letizia Battaglia, il Saggiatore, Milano, 2023.
S. Milo, Caro Federico, Rizzoli, Milano, 1982.
S. Milo, Il corpo e l’anima. Le mie poesie, Morellini, Milano, 2019.
Sandra Milo, Tunisi, 11 marzo 1933 – Roma, 29 gennaio 2024.