«Raquel. La donna più desiderata del mondo». Così, nel dicembre 1979, recita la copertina che l’edizione italiana di Playboy dedica a Raquel Welch, uno dei corpi più sognati ma al contempo meno denudati degli anni Settanta. Nemmeno in questa occasione, infatti, il sex symbol americano, icona di una bellezza più neoclassica che contemporanea, accetta di svelare integralmente il suo ammiratissimo corpo, al contempo tonico e formoso, plastico e morbido. Ma chi è e soprattutto che cosa rappresenta, alla fine degli anni Settanta, Raquel Welch?

Il suo mito, protetto anche da un abbandono tutto sommato precoce del grande schermo, comincia nella calda estate del 1966, quando – oltre a gettare le fondamenta del World Trade Center e le prime bombe sul Vietnam del Nord – gli USA forgiano quella che la stampa italiana etichetta subito come la «Vamp degli anni Sessanta» o, ancora meglio, l’alternativa curvilinea a Ursula Andress. «Una bella donna – scrive Milla Pastorino sul settimanale Noi donne – è sempre uno spettacolo da guardare. Ma invece c’è qualcosa di più. Il tentativo di fare, di questa figliolona bruna, un simbolo sociologico, […] una donna-fumetto senza storia dietro di sé, nata da un segno di matita, simbolo di sé stessa prima ancora che del suo tempo». Più che da un segno di matita, in realtà, la star-image di questa ventenne meticcia, costretta ad abbandonare la carriera di ballerina in virtù di un fisico eccessivamente prosperoso, nasce dalla mente del produttore Patrick Curtis, prima manager e poi secondo dei quattro mariti della diva. È lui che convince l’ex-vincitrice di tanti concorsi di bellezza a firmare con la Twenty Century Fox, a conservare il cognome del primo marito (Welch) e a nascondere ai media i due figli da lui avuti. Scomparsa Marilyn, Hollywood ha bisogno di rinnovare l’archetipo della bombshell e Jo Raquel Tejada in Welch può essere la bambola giusta nel momento giusto.

Se il film d’esordio, il beach movie A Swinging’ Summer (Sparr, 1965), consente alla futura stella di mostrare unicamente le proprie doti canore, decisamente più apprezzabile è la prova offerta sul set di Viaggio allucinante (Fleischer, 1966), dove Welch interpreta una neurologa impegnata in un viaggio ai confini del corpo umano. A discapito delle forme, qui nascoste sotto il camicie bianco, questo personaggio dimostra coraggio, spirito di sacrificio e senso del dovere, virtù che l’attrice, in futuro, avrà poche occasioni di incarnare. Il grande successo, però, arriva con la parte di Leona, la sensuale cavernicola nella preistoria pseudo-fantascientifica targata Hammer (Un milione di anni fa, Chaffey, 1966). Il lavoro dell’interprete è in questo caso apparentemente semplice: non c’è bisogno di parole (perché il personaggio non parla) e nemmeno di approfondimento psicologico, ma solo di magnetismo, presenza e fotogenia. Qualità che Miss Welch evidenzia non solo nell’iconica locandina del film – dove campeggia la sua figura intera, coperta solo da un bikini in pelle –, ma anche nella sequenza che, in perfetto ossequio alle regole della drammaturgia divistica, suggella la sua ritardata entrata in scena. Anziché raggiungere le compagne che, sulla riva, sono intente alla pesca, Leona entra in campo, flette le ginocchia, appoggia il bastone e sorride, lasciando che la cinepresa immortali i bianchissimi denti e soprattutto l’armonia di forme levigate da anni di danza. Non è un caso se, al pari di Jane Fonda, Welch rappresenterà di qui in avanti un ideale di bellezza intesa come salute e forma fisica, raggiungibile da (quasi) tutte le ammiratrici mediante tabelle di allenamento e consigli alimentari dispensati dalla star tanto in televisione che sulla carta stampata. «Con la pubblicazione del poster del film – annota la diva nella sua autobiografia – tutto nella mia vita cambiò in un colpo solo e tutto ciò che riguardava la vera me fu spazzato via. Tutto il resto sarebbe stato eclissato da questo sex symbol bigger-than-life».

Nel vano tentativo di replicare il successo di Un milione di anni fa, molte delle produzioni successive riprendono in sede di locandina l’immagine della star in bikini, quasi a voler fare di Welch il prototipo di un femminino balneare, leggero e fugace quanto la stagione estiva: un modello non esattamente in linea con le aspirazioni di un’attrice alla disperata ricerca di parti in grado di metterne in luce le capacità attoriali. È il caso, ad esempio, di Colpo grosso alla napoletana (Annakin, 1968), Il mio amico il diavolo (Donen, 1967) e soprattutto di Fathom-Bella, intrepida e spia (Martinson, 1967), spy-movie con cui la Fox cerca di copiare la ricetta che ha reso vincente Modesty Blaise (Losey, 1966). Anche in questo caso all’attrice è richiesta più la posa che l’azione, a conferma di come ogni star cinematografica altro non sia che un brand messo in scena. Emblematica è la sequenza d’apertura del film di Martinson, con la cinepresa che prima scivola furtiva da destra a sinistra, accarezzando le gambe abbronzate della protagonista, e poi ne cattura l’iconico sorriso, mentre un vento artificiale – identico a quello utilizzato negli studi fotografici – agita una chioma fluente e rossa quasi quanto il costume indossato.

I tratti latini ereditati dal padre – come le linee affilate del naso e il disegno ampio delle labbra – non ingannino: l’immagine esportata in Europa, nota anche ai non frequentatori della sale cinematografiche, è quella dell’americana-tipo, solare e ridente come i volti stampati sulle pubblicità delle gomme da masticare. Solo che in questo caso l’oggetto da consumare, anche se solo con lo sguardo, è la diva stessa. «Nella sua bellezza piena, robusta, sana, vitaminizzata – ha ragione Milla Pastorino – vedremmo il simbolo di un’umanità che vuole sopravvivere ai mostri che essa stessa ha generato. Una specie di Grande Madre, opulenta e generosa, da contrapporre al fungo della bomba come una sfida alla distruzione». Nel 1969, infatti, mentre il napalm made in USA brucia migliaia di vietnamiti innocenti, Welch porta sullo schermo il personaggio di Sarita, una rivoluzionaria disposta a dare la vita per la libertà del suo popolo (El Verdugo, Gries, 1969), ma lo fa negoziando la pratica dell’impegno civile con le ragioni dello stardom. Per attirare in trappola i soldati di Verdugo, infatti, Sarita – impegnata anche in una scandalosa love story con un uomo di colore – inscena una doccia en plein air nei pressi della linea ferroviaria. Ancora una volta l’attrice rifiuta il nudo integrale, ma poco importa. Gli abiti incollati sulla pelle bagnata dal sole e dall’acqua distraggono i militari e lo stratagemma della ragazza ha buon esito: con soli 170 dollari, oggi, è possibile acquistare su ebay.com una foto di scena della sequenza autografata Raquel Welch.

Se, come dimostra anche la performance esibita in Bandolero! (McLaglen, 1968), il western ben si adatta alla recitazione fisica (per non dire atletica) della star, la commedia è però il genere che meglio di altri ne ha evidenziato il talento. Basti ricordare – per fare solo tre esempi – i duetti con uno straniato Mastroianni in Spara forte, più forte… non capisco! (De Filippo, 1966), il doppio gioco ordito ai danni di Martin Held in La belle époque (De Broca), quarto episodio di L’amore attraverso i secoli (1967), e soprattutto le concitate schermaglie con Faye Dunaway (Lady Winter) nel fortunato I tre moschettieri (Lester, 1973), che vale a Welch il primo e unico Golden Globe della carriera.

In conclusione: oltre la scollatura, per citare il titolo della recente autobiografia, restano la duttilità e l’intelligenza – in parte ancora da scoprire – di un’interprete che, in accordo con il cambiamento dei costumi, ha saputo gestire in modo equilibrato la propria fama e il proprio invecchiamento, sostituendo gradatamente l’immagine di sex symbol con quella, decisamente meno conturbante, di una non comune (ma pur sempre mortale) healthy woman.

Riferimenti bibliografici
M. Pastorino, Ritorno alle “curve”, «Noi donne», 4 giugno 1966, pp. 34-35.
R. Welch, Raquel. Beyond The Cleavage, Raquel Welch Productions, New York 2010.

Raquel Welch, Chicago 1940 – Los Angeles 2023.

Tags     corpo, diva, Raquel Welch
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