«Je l’ai déjà entendu dire que la mort est un événement tel qu’on ne peut le recevoir immédiatement mais qu’elle a au moins un avantage, le survivant devient maître de la relation». Così, in quel lungo epicedio che è Ce qu’aimer veut dire, Mathieu Lindon ricorda l’amico Michel Foucault. L’unico sollievo dal dolore di una morte è dato da questo potere che i vivi hanno sui morti. A quarant’anni dalla morte di Foucault possiamo dire di essere noi i padroni assoluti e non solo della relazione quanto anche della sua opera – quarant’anni di “tradimenti” che hanno disatteso le sue sue ultime volontà: «Nessuna pubblicazione postuma». Dall’edizione dei Dits et écrits all’inizio degli anni novanta alla pubblicazione de Les aveux de la chair (2018) e più di recenti di inediti quali Le discours philosophique (2023) e i materiali su Nietzsche (2024), ciò che ha contraddistinto la nostra relazione con Foucault non è infatti che le sue disposizioni non siano state rispettate né che la sua dipartita abbia dato ai suoi esecutori testamentari un potere di cui un lungo elenco di pubblicazioni è la (felice) dimostrazione. Quel che è in questione è l’“effetto Foucault”, ossia il vuoto di senso che le nostre coscienze infelici hanno avuto di fronte in questi quarant’anni e che spesso è stato colmato da un processo di “canonizzazione”. David M. Halperin, autore di «un’agiografia gay» (2013), è uno dei primi a essersi interessato al «rovesciamento postumo» che ha contraddistinto la ricezione del pensiero foucaultiano – da chi lo ha demonizzato in quanto pensatore dell’estremismo o del fondamentalismo a quelli che hanno cercato di mantenerne vivo il ricordo come se si trattasse di verità eterne, di fede: San Foucault.
In tal senso, che si sia trattato di fama o di infamia post mortem, vale forse la pena ritornare all’inizio del 1984 quando Foucault scrive a un suo amico: “Ho pensato di avere l’HIV, ma un trattamento di antiobiotici mi ha rimesso in piedi”. Com’è noto, pochi mesi dopo verrà ricoverato a La Salpêtrière (lo stesso ospedale in cui aveva prestato servizio Charcot) e lì morirà il venticinque giugno. È passato sufficiente tempo per ripensare in modo critico non solo l’evento della morte di un autore come Michel Foucault, non solo ciò che ha pensato e detto, bensì anche con ciò che ha lasciato di impensato e di non detto. E non come Guy Sormon (2021), che di recente ha tentato di ricondurre le (presunte) turpitudini dell’uomo alle idee del filosofo, sostenendo (senza nessunissima prova) che durante il suo periodo tunisino Foucault aveva violentato dei minori; né come Miller, il biografo foucaultiano che a suo tempo lo aveva presentato come un asceta omosessuale che nella morte aveva cercato uno stato di grazia da cui la vita lo aveva tenuto fuori. Entrambi gli esempi vorrebbero proporsi come la dimostrazione di quello che avviene quando si libera troppo la sessualità: ciò che Freud chiamava istinto di vita (Lebenstrieb) e di morte (Todestrieb) si confondono in un’«orgia-suicidio» di cui l’HIV sarebbe stato il momento più estremo. Il non detto che merita oggi di essere recuperato non è questo, i modi non possono essere quelli di un processo in absentia, né il fine può essere quello (del tutto improduttivo) di delegittimare un pensiero come quello di Michel Foucault.
I quarant’anni che ci separano dalla morte del pensatore dicono qualche cosa di più che un presunto sadomasochismo, qualche cosa che va al di là della sua vita sessuale. Se Foucault fosse sopravvissuto a quella che veniva chiamata gay-related immune deficiency in questo momento avrebbe novantotto anni. Un conto ingenuo, forse, che però dà l’idea di tutti gli eventi di cui sarebbe stato testimone e che verosimilmente avrebbe commentato su qualche quotidiano nazionale – così come fu nel 1978 in occasione della rivoluzione in Iran o l’anno prima in merito alla petizione che chiedeva l’equiparazione dell’età del consenso fra omosessuali ed eterosessuali. Si è tentati di chiedersi, infatti, cosa avrebbe detto Foucault a proposito delle rivolte delle iraniane o dell’apparentemente più superficiale polemica sul bacio non consensuale che il principe dà a Biancaneve. Essere “padroni” dei suoi scritti vuol dire anche addossarsi il rischio di dare (un) seguito al suo pensiero – e non tanto immaginando ciò che avrebbe detto se fosse stato vivo quanto utilizzando in modo assolutamente partigiano i suoi concetti – specie se, come Foucault, si intende l’esercizio della filosofia come una presa di posizione.
Intuizioni come quella che ci sia un controllo biopolitico che investe nello stesso tempo i nostri corpi individuali e il corpo della specie meritano di essere ripensate anche – o direi soprattutto – a distanza di quarant’anni. Che sia connotato in senso immunitario, tanatopolitico o necropolitico (à la Mbembe), infatti, il concetto foucaultiano di biopotere rimane uno dei riferimenti più utili ai fini di una critica dell’ordine egemone/esistente. Non sono sicuro che si tratti dello stesso potere di respingere nella morte al quale si riferiva Foucault: è passato troppo tempo per non pensare che gli eventi che si sono susseguiti a partire dalla metà degli ottanta non abbiano trasformato il senso della nozione di “biopotere”. E tuttavia cosa c’è di più biopolitico dell’inserimento del diritto all’aborto in una costituzione o del dibattito intorno alla gestazione per altri, di politiche migratorie mortifere o di “guerre fra razze” che degenerano in veri e propri genocidi? A più di quarant’anni dalla prima definizione che ne diede Foucault, il concetto di “biopotere” dimostra di essere (drammaticamente?) attuale e di dar senso a eventi apparentemente lontani fra loro. Ieri come oggi: nel 1984, mentre Foucault veniva ricoverato in ospedale e l’epidemia di HIV iniziava a diffondersi, incominciavano i primi scioperi contro il governo di Margaret Thatcher e proseguiva la guerra Iran-Iraq; nel 2024, dopo una pandemia e un’epidemia di vaiolo delle scimmie, il conflitto russo-ucraino è al suo secondo anno e il dramma del popolo palestinese non accenna a finire. San Foucault, ora pro nobis.
In questo senso, checché ne dicesse Lenin, non esistono malattie individuali e malattie del potere – quest’ultime sono anche nostre o, come preferiva dire Foucault, è «il fascismo che è in noi». Il corpo del virus, quello individuale (inevitabilmente sessuato/sessualizzato) e quello sociale sono tutt’uno: se uno di questi si ammala, i danni ricadono su tutti. Tale diagnosi, tuttavia, non costituisce la fine o l’ultimo atto del pensiero foucaultiano. Tutto il contrario: è da qui che tutto ha inizio. Che non ci sia vita – né morte – che non abbia in sé un senso essenzialmente politico, infatti, vuol dire che esiste un potere che passa di dominante in dominato definendo così le condizioni della sua sopravvivenza. Le persone muoiono e il potere rimane: come scrive Lindon, anche morire è in verità soltanto un passaggio di poteri. È proprio un tale divenire, però, che dà a ognuno un potere che – come diceva Foucault – è insieme anche di resistenza. Essere vivi ci dà un potere (o una potenza, avrebbe specificato Toni Negri) con cui è possibile resistere, rivoltarsi o insorgere.
Quello foucaultiano, dunque, un pensiero che non ha mai ammesso padroni, nonostante siano passati quarant’anni (si sarebbe quasi tentati di dire “anarchico” – se non si intendesse con ciò che il potere è malvagio o che un mondo senza potere è possibile). Come Deleuze, che secondo Foucault aveva scritto un’introduzione alla vita non fascista, anche lui è stato autore di una lunga introduzione alla vita che resiste. Non sarebbe un peccato dimenticarcene proprio in quest’occasione?
Riferimenti bibliografici
D. M. Halperin, San Foucault. Verso un’agiografia gay, ETS, Pisa 2013.
M. Lindon, Ce qu’aimer veut dire, P.O.L, Parigi 2011.
J. Miller, La passione di Michel Foucault, Longanesi, Milano 1994.
G. Sorman, Mon dictionnaire du Bullshit, Grasset, Parigi 2021.
Michel Foucault, Poitiers, 15 ottobre 1926 – Parigi, 25 giugno 1984.