Il cinema di Giuliano Montaldo, ulteriore padre nobile della storia tout-court nazionale e internazionale, procede di “piega” in “piega”, nell’accezione deleuziana. Detto, altrimenti, scorrendo la sua filmografia, è ineludibile l’evidenza di una guerra che si tira dietro l’altra: una che finisce non può dirsi mai finita, neppure quando la notizia giunge con clamore, come in Tiro al piccione (1961) o in Gott Mit Uns (1970). Un tribunale inquisitorio o un plotone d’esecuzione rischia sempre di essere in agguato nella storia mutante e pervasiva del potere. L’universo cinematografico di Montaldo si offre quindi come osservatorio permanente e spinge a vigilare ovunque e comunque. Ricordare Montaldo, classe 1930, vuol pertanto dire essenzialmente ripercorrere quasi per intero le tappe salienti della migliore storia del cinema italiano. Ma soprattutto entrare nel merito delle “pieghe” stesse della storia tout court.

Proprio Deleuze scrisse: «Un labirinto è detto molteplice, in senso etimologico, poiché ha molte pieghe. Il molteplice non è soltanto ciò che ha molte parti, ma è anche ciò che risulta piegato in molti modi» (2004). Ecco, così è stata l’opera e la vita stessa di Montaldo, raccontata molto bene da Fabrizio Corallo nel documentario Vera & Giuliano (2020), con debito richiamo al rapporto e sodalizio con Vera Pescarolo, sua compagna di una vita, cui doverosamente si rimanda per ripercorrerla nel modo più puntuale. Ma per ritrovare un ulteriore bandolo della matassa in questa triste e finale circostanza basterebbe un brano di una breve video-intervista introduttiva a uno dei suoi film, in cui appunto Montaldo ha dichiarato: “Io francamente credo che chiunque vorrà raccontare la storia del secolo passato o del prossimo non può che andare a riguardare queste immagini. In queste immagini c’è la politica, il costume. C’è la verità di certi atteggiamenti, di certe facce, di certi luoghi. C’è la storia del nostro paese. C’è la storia di come eravamo per sapere chi siamo”. Ebbene, quella volta il regista si stava riferendo nello specifico al patrimonio audiovisivo e fotografico dell’Istituto Luce, al quale si era dedicato nel documentario Le stagioni dell’aquila (1997), ma come non estendere il concetto all’intera sua filmografia, che fa storia a sé dentro un discorso storiografico più ampio? Nessun film di Montaldo infatti prescinde dal fattore storico che può essere in primo piano o sullo sfondo, salvo incunearsi tra le “pieghe” di cui sopra a lui care poiché scomode e per ovvie ragioni eluse altrove. Il procedimento con cognizione di causa risale a Tiro al piccione, folgorante e complesso film d’esordio. Ma Montaldo l’ha ribadito a proposito di Gott Mit Uns, che, per dirla con le sue parole, «raccontava una “piega” della storia diversa dalla storia ufficiale. Sì, era un modo di trovare vittime anche dove non ce ne dovrebbero essere».

Le “pieghe” della storia, come le definite direttamente, costituiscono in pratica da Tiro al piccione a L’industriale (2011), ininterrottamente, la materia privilegiata dell’indagine trasversale che rende all’unisono contemporanee opere all’apparenze concentrate su epoche molto distanti. Ad esempio i suoi film più noti, Sacco e Vanzetti (1971) e Giordano Bruno (1973), o I demoni di San Pietroburgo (2008) partecipano tutti assieme di un’unica, coerente e connessa ispirazione. La loro sovrapponibilità deriva dalla circostanza che Montaldo ha avuto innanzitutto una storia alle spalle. Ha conosciuto cioè, sentita e interpretata di storia quella ufficiale. E lo ha fatto alla luce, e non solo con il Luce, del conguaglio continuo con la storia non ufficiale. L’ha quindi raccontata a modo suo, fisiologicamente questa storia, personale e “storica” al quadrato, per ragioni culturali, politiche e generazionali. L’orizzonte di riferimento è stato ovviamente il Novecento. L’insieme della ricostruzione narrativa per immagini di Montaldo, capitolo dopo capitolo, cioè film dopo film che di questo work in progress storico-narrativo diventa l’ulteriore “giro di vite”, dà quindi conto ogni volta del particolare effetto di contrazione, inversamente proporzionale alle conseguenze, degli eventi che hanno caratterizzato il ventesimo secolo. Con Montaldo il cinema ha svolto a testa alta la sua parte. Del resto l’enunciazione di Hobsbawm della categoria di “secolo breve” per Il Novecento ha comportato in copertina del libro omonimo un’immagine chiave de Il grande dittatore (1940) di Chaplin. E la ridistribuzione in tre età di Hobsbawm non ha perciò trovato mai impreparato Montaldo.

Nell’età “della catastrofe”, dal 1914 al 1945, vanno dunque a collocarsi i seguenti tasselli del mosaico storico dell’autore genovese: Tiro al piccione, Gott Mit Uns, Sacco e Vanzetti, L’Agnese va a morire (1976), Tempo di uccidere (1989), Gli occhiali d’oro (1987) e parzialmente Le stagioni dell’aquila e L’oro di Cuba (2009). Nella contigua età “dell’oro”, ovvero nel periodo compreso tra il 1946 e il 1973, rientrano chiaramente Una bella grinta (1965), Ad ogni costo (1967) e Gli intoccabili (1969), nonché per la specifica parte aggiuntiva ancora Le stagioni dell’aquila e L’oro di Cuba. Infine alla “frana” che arriva al 1991 sono ascrivibili Il giocattolo (1979), Circuito chiuso (1978), Il giorno prima (1987) e per ovvie ragioni ancora le immancabili porzioni corrispondenti de Le stagioni dell’aquila e L’oro di Cuba. Le tappe o età di questa rapida successione di fatti storicamente rilevanti che nella loro estrema rapidità staccano come in una corsa tremenda i secoli passati, “lunghi” nell’accezione appunto indicata da Hobsbawm, convergono nel blocco principale del cinema di Montaldo che a sua volta del “secolo breve” riflette l’essenza discorsiva. Eppure nell’intorno cronologico espanso trovano posto anche personaggi, fatti e momenti storici apparentemente esterni, antecedenti e susseguenti. Ergo Giordano Bruno, Marco Polo (1982-1983), I demoni di San Pietroburgo e L’industriale. Ma per un meccanismo coerente su questo singolare secolo di riferimento, che copre settant’anni di biografia di Montaldo, si proiettano le luci e specialmente le ombre dei secoli precedenti.

Ad agire “mascherati” sul presente, con effetto retroattivo, sono sia Giordano Bruno e Marco Polo che I demoni di San Pietroburgo. Mentre con il senno di poi chiude il cerchio storicamente determinato L’industriale che a ragion veduta è stato una rivisitazione in chiave moderna di Una bella grinta. A riprova di come le dinamiche spietate, noir, passionali degli anni del “miracolo” economico in cui la donna e la “roba” di verghiana memoria vengono assimilate, travalichino la soglia del “vecchio” secolo/millennio e al “nuovo” si adattano quanto basta. Questa storia “moltiplicata” e “piegata” Montaldo l’ha a più riprese, in tutti i sensi, spiegata e perciò dispiegata intrecciandola con l’esperienza di vita, implicitamente la sua, da acuto e smaliziato testimone del tempo. Senza contare che tra le storie che fanno la storia c’è perciò quella di Montaldo in persona che (si) rievoca in forma cartacea ad Alberto Crespi nel volume di maggior riferimento, Dal Polo all’equatore. I film e le avventure di Giuliano Montaldo (Crespi, 2005).

L’elemento storico in qualsiasi forma coesiste moralmente ed esteticamente con il dato soggettivo, Giuliano Montaldo quindi si trova in ottima compagnia con Nicola Sacco (che valse a Cannes premio come miglior attore a Riccardo Cucciolla), Bartolomeo Vanzetti, Giordano Bruno, Marco Polo, Dostoevskij e con i tanti eroi involontari o gli antieroi di volta in volta esplorati da Montaldo, pronto a fare convivere e intrecciare il privato con il pubblico e scovando ogni volta soggetti esemplari e a lui familiari da portare sullo schermo. Con il requisito fondamentale di essere vettori storici.

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, a cura di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2004.

Giuliano Montaldo, Genova 1930 – Roma 2023.

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