“Son contento di morire, ma mi dispiace. Mi dispiace di morire, ma son contento”. Queste parole di un “couplet” da avanspettacolo cantate da Gigi Proietti suonano come uno “sberleffo” alla morte, una derisione per quella che a Roma è già di per sé una maschera e viene chiamata “Commare Secca” (che poi è il titolo del primo film di Bernardo Bertolucci su sceneggiatura di Pasolini). Quello che colpisce in Proietti, nell’incarnare una tradizione polimorfica della maschera come esorcismo e dissimulazione del reale, è proprio l’agganciarsi alla sua spettralità, senza sganciarsi dal suo terragno e carnevalesco valore di feticcio. È una eredità della tradizione italiana della maschera, come oggetto mediatore, che risale al barocco e la connota come autoriflessiva.
C’è un quadro di Salvator Rosa, Plauto o Allegoria della menzogna (1640-1649) in cui un uomo, verosimilmente un attore, tiene con una mano una maschera e con l’altra la indica guardando da un’altra parte. In fondo l’arte attorica di Proietti aveva una funzione autoriflessiva rispetto al recitare, all’esibirsi in commedia, dicendo verità sotto forma di sviamento, di deformazione, ironicamente e sarcasticamente menzognera. Basti pensare a uno dei suoi numeri caricaturali più efficaci, L’attore di estrazione popolare, che prende di mira all’inizio la retorica della recitazione viscerale e istintiva, per poi, con un guizzo, sviarla in un ulteriore sbeffeggio allo straniamento come vezzo altrettanto retorico (“sortisco dal personaggio, lo guardo, glie sputo ‘n faccia e poi subito rientro: è tutto un entrà e uscì… certe corenti d’aria!”). Tale metarecitazione comico-grottesca, in cui convergono elemento popolaresco e raffinato eccentrismo surreale, è ciò che Proietti ha ereditato da uno dei maggiori attori polimorfi, la cui arte sopraffina era caricaturare l’atto stesso del recitare, fino a raggiungere vette di esilarante assurdità: Ettore Petrolini.
Proietti riverbera di Petrolini (cui dedica, con la regia di Ugo Gregoretti, un intero spettacolo) la capacità magnetica di assorbire e riproiettare gli umori del pubblico, di captarne l’attenzione con la vis comica e di stabilire con la platea un dialogo sottile, fatto soprattutto di virtuosismo scenico: le pause, lo strabuzzare gli occhi, la mimica facciale, la plastica corporale, e la straordinaria capacità fonica di emissione vocale, deformata ed eccentrica. Come quando, in A me gli occhi please, inventa un grammelot napoletano esasperandone gli strascinamenti sillabici, la gestualità icastica. In ciò la polimorfia di Proietti si avvicina a quella di Dario Fo. Così come l’atletismo fisico, il capitombolare delle battute accompagnate da una mimica frenetica, e insieme il padroneggiare la metamorfosi scenica, da un lato riprendono la cifra di un attore come Gassman, sempre in spericolato squilibrio tra comico e tragico, e dall’altro ereditano il trasformismo convulso di Leopoldo Fregoli (che Proietti interpreta tra l’altro in uno sceneggiato televisivo). Ma ancora la sua capacità di atletismo fisico-fonico lo porta all’amicizia con Carmelo Bene, con cui recita nel 1974 in La cena delle beffe di Sem Benelli.
Il fatto è che Proietti assorbe e restituisce una sorta di essenza teatrale legata al grottesco deformato del moderno, ma insieme trascina sul palcoscenico (e sullo schermo) la maschera polimorfa che passa dalla tradizione all’avanguardia, e arriva fino alla biomeccanica mejercholdiana e al teatro di varietà esaltato dai futuristi. E proprio con un gruppo d’avanguardia, il Teatro dei Centouno, Proietti aveva cominciato la sua carriera – poi esplosa accanto a un altro grande virtuoso come Rascel, quando sostituì Modugno nella commedia musicale Alleluja brava gente (1970). In questo senso è da intendersi la tensione di Proietti verso il cabaret e l’one-man-show, forme che trainano nel moderno quelle radici comiche che risiedono nell’antichità latina dei fescennini e dei “mimi”, e che si trasmettono poi negli assolo e nei lazzi della Commedia dell’Arte, del teatro della Foire, nell’arte dei saltimbanchi e del circo, fino all’avanspettacolo. Tuttavia in Proietti tutto ciò non è solo arte superba di recitazione ma anche virtuosismo metateatrale, si può dire “re-citazione” di una intera tradizione dell’attore.
Anche nel cinema, rispetto alle grandi maschere della commedia all’italiana, Proietti ci appare non tanto come un epigono o un erede, quanto come qualcuno che restituisce tra virgolette il virtuosismo attorico di quel genere, fino ad inventare un personaggio-maschera che si compendia in Febbre da cavallo (1976) di Steno e poi in Febbre da cavallo – La mandrakata (2002) di Carlo Vanzina, ma come una “variazione su” più che come una vera e propria costruzione di maschera. Questa sua fisionomia polimorfica rispondeva insieme a un istinto e a una riflessione su quell’istinto, che si riversava perfino nella grana delle sue intonazioni, anche come cantante e doppiatore. Quando Fellini lo chiamò per dare voce al suo Casanova/Sutherland, visto come un Pinocchio rovesciato che a poco a poco diventa un incartapecorito fantoccio, commentò con i suoi collaboratori: “Hai visto che bella faccia da cavallo che ha?”. Dunque l’istinto attoriale, la sfrenata passione teatrale, ma anche l’intelligenza performativa, la capacità di riflettere come in uno specchio, come in una cifra indicale, l’“essere attori” come esercizio empatico, affettivo ma pur sempre critico, lo ha indotto a dar vita, senza snobismi o pretese di magistero, al suo prediletto “Laboratorio di arti sceniche”, che ha formato una intera generazione di attori tra teatro e televisione, o a reinventare il Teatro Brancaccio, così come a ricostruire nel cuore di Villa Borghese il Globe Theatre shakespeariano.
La qualità insieme fisica e fantasmatica di Proietti risulta icasticamente nel televisivo Cavalli di battaglia (2017) in quello sketch del vecchio che esce dalla sauna, con il corpo scheletrito coperto da un bianco lenzuolo come uno spettro e racconta, tra pause eduardiane e raucedini, l’attesa che un suo amico, che non a caso si chiama “Toto”, esca da quell’antro fumoso come dall’aldilà. Il prendere in giro la laidezza, la morte e il destino con la sapidità antica del romano, lo si vede in due film di Sergio Citti: Casotto (1977) e Due pezzi di pane (1979). Nel primo è la tenerezza poetica, la “sudicia” autocommiserazione nella vergogna dei piedi sporchi (suoi e del compare Franco Citti: “Anvedi che piedi zozzi che c’hai!”) quando trovano uno stratagemma per uscire dalla cabina dove vogliono sedurre due ragazzine e tuffarsi in mare correndo (ma poi Proietti, come nella classica gag del muto, sbatte la testa su un asse di legno e stramazza sulla sabbia). Nel secondo film quando, nel finale, l’ambigua figura dell’albergatore da lui interpretata si rivela agli occhi di Pippo e Peppe (Gassman e Poiret) come l’incarnazione del Destino.
Come un estremo, sarcastico sberleffo alla “Commare Secca” Proietti è morto il giorno in cui è nato, il 2 novembre, il giorno dei morti (e si sa quanto sia solidale la maschera, il carnevale con il “ritorno dei morti” sulla terra). A Petrolini morente, quando vide entrare il prete con l’olio santo scappò di dire: “Adesso sì che sono fritto!”. Gigi Proietti con la sua tacita, silenziosa ultima battuta nel “dì de morti”, ha forse voluto rendere un omaggio implicito a Petrolini, che ebbe a pronunciare questa frase: “Che tragedia da ridere questo nostro soffrire! Si nasce per vivere e si vive per morire!”. Persino nel tempo apocalittico della pandemia, con quella sua risata tonante a tutti denti, Proietti è morto sì, ma “un po’ per celia un po’ per non morir!”, come scriveva sempre Petrolini.
Riferimenti bibliografici
F. Angelini, Petrolini o le peripezie della macchietta, Bulzoni, Roma 2006.
E. Petrolini, Facezie, autobiografie e memorie, Newton Compton, Roma 1993.
B. Roberti, Maschera, in Lessico del cinema italiano, a cura di R. De Gaetano, vol. II, Mimesis, Milano 2015.
Gigi Proietti, Roma 1940 – Roma 2020.