È una calda giornata di fine maggio e il treno che mi porta da Zurigo a Neuchâtel mi mostra paesaggi ordinati, in una sequenza di prati, staccionate che delimitano pittoresche casette dai tetti spioventi e una sequenza di laghi dove immagino persone in felice contemplazione. Convenzionalità che il viaggiatore si aspetta dalla Svizzera, paese tagliato da cantoni, lingue e religioni differenti, ma rannicchiato nei suoi mestieri di precisione, nella sua neutralità, a volte fuori dalla storia, e accomunato dalla fierezza per la sfuggente presenza europea. Una convenzionalità pittoresca, che piace ma che in fondo non convince. E che provo a rompere. Ne ho l’occasione, una ottima occasione: sto andando, prima di una conferenza, a visitare la casa museo dedicata a Friedrich Dürrenmatt. E alle sue inquietudini. Avevo letto i libri di Dürrenmatt ai tempi dell’università e venni immediatamente colpito da questo autore, tra tante altre cose, di noir e gialli molto particolari, dalle soluzioni complicate e capaci di mettere a soqquadro ogni certezza.

Continuano a scorrere dal finestrino del treno quelle sequenze convenzionali. All’apparenza. Forte del vaccino letterario, provo a scorgere quell’inquietudine sotto al pittoresco. I recinti, da lineari e ordinati, cominciano a mostrare dei rigonfiamenti; la superficie dei laghetti, placida all’apparenza, comincia a evocarmi mostri che nuotano inabissati. Immagino una pressione, una inquietudine che evoca movenze nascoste o sommerse; in agguato, la possibilità di improvvisi squarci in quell’ordine.

Di Dürrenmatt lessi dapprima il racconto lungo La panne. Vi sono narrate le vicende di un rappresentante commerciale, Alfredo Traps, che, a causa di una panne occorsa alla sua macchina, è costretto a chiedere ricovero nella prima casa nei paraggi. Viene accolto, e con molta gentilezza, da un giudice in pensione che gli offre ospitalità e una serata particolare. Verranno dei suoi amici per cena che sono soliti, per gioco, inscenare dei processi, magari quella sera lo avrebbero fatto, col suo consenso, a lui stesso. E così fu, tra una portata e l’altra di cibo gustoso e bevendo dell’ottimo vino, il viaggiatore comincia a raccontare di sé, della sua vita e del suo pessimo rapporto con il suo vecchio principale, poi, deceduto. Fu l’innesco del finto processo. Tra un discorso e l’altro e in un clima di montante euforia Alfredo si trova accusato dell’omicidio del suo ex capo. Cosa che viene di lì a poco sancita da una vera e propria sentenza che prevede la pena di morte. La serata finisce e Alfredo, euforico e contento e persino ringraziando per quella sentenza, si ritira nella stanza a lui assegnata per la notte. I compagni di quella serata lo trovano l’indomani mattina impiccato.

Arrivo finalmente a Neuchâtel. Un taxi mi porta dalla stazione, su per una strada di collina, in quella che era stata la casa di Dürrenmatt, divenuta ora il Centre Dürrenmatt Neuchâtel (CDN). Immersa nella natura, la casa museo ha il tipico aspetto di certa architettura lineare che, vagamente ispirata al razionalismo, rimane leggera, nascondendosi quasi tra la vegetazione; impronta dell’architetto ticinese Mario Botta che, sull’originario complesso costituito da due villette, ha inserito una torretta e un edificio/ingresso per accogliere i visitatori. All’interno mi colpisce dapprima lo studio: una lunga scrivania di legno ha come sfondo un quadro molto grande, a tinte cupe, raffigurante dei musicisti di una banda militare. Sul tavolo, tra libri e documenti, un pupazzetto di Marx col pugno chiuso. Intorno, oggetti di esplorazione, in particolare un grande mappamondo e un telescopio. Apprendo che l’astronomia era una delle passioni dello scrittore.

La promessa. Un requiem per il giallo moderno è il secondo libro di Dürrenmatt che lessi sempre ai tempi dell’università. Si narra di un incontro, quello tra uno scrittore di gialli e un comandante di polizia. Il secondo, dopo avere assistito alla conferenza del primo sulla teoria del romanzo giallo, con gentilezza gli dice che la vita reale di chi fa indagini è molto diversa da quella lineare prospettata dallo scrittore. Il comandante si offre di dargli un passaggio fino all’aeroporto per avere occasione di raccontargli la storia di un suo ispettore che si era messo sulle tracce di un assassino dopo l’omicidio della piccola Gilli Moser. Di quell’omicidio venne accusato un venditore ambulante che si trovava nei pressi del bosco dove era stato ritrovato il corpicino. Questi arrivò persino a confessare quel delitto, indotto dalla frettolosa violenza della polizia che voleva chiudere il caso; e si impiccò. L’ispettore, non convinto di quella colpevolezza fece una promessa alla famiglia straziata: avrebbe trovato il vero assassino della loro bambina, a ogni costo! Sospettando che ci fosse un omicida seriale ancora in giro, che si spostava a bordo di una grossa automobile nera, quella promessa divenne una vera e propria ossessione per l’ispettore, tanto da costargli il posto di lavoro in polizia. Continuò a indagare da privato e acquistò una stazione di servizio dove si trasferì a vivere e lavorare insieme a una mamma e alla sua piccola figlia; la speranza era che prima o poi sarebbe passata proprio da lì quella macchina. Il caso sembrò sulla via della soluzione quando la bambina comunicò che un signore con una macchina nera le aveva dato appuntamento per il giorno dopo. L’ormai ex ispettore,  con l’aiuto pur riluttante della polizia locale, organizzò degli appostamenti; tuttavia, a quell’appuntamento nessuno si presentò. L’ex ispettore cadde in uno sconforto ancora più profondo, senza liberarsi della ossessione e della promessa. Anni dopo il comandante ricevette, da una anziana signora ormai alla fine della vita, la confessione che suo marito era stato un omicida seriale di bambine e che era morto anni addietro in un incidente stradale prima di incontrare l’ennesima vittima. Il comandante andò immediatamente a informare il suo ex ispettore di quella confessione risolutiva, ma nella stazione di servizio trovò un uomo incapace di capire quanto gli veniva detto, ancora ossessionato da quella promessa, tanto da ribadire al frastornato comandante che prima o poi avrebbe risolto quel caso.

Nella casa museo la libreria è ordinatissima e in bella mostra sono gli alleati di una vita: quattromila opere ben catalogate della letteratura mondiale, a partire, naturalmente, dai classici di quella tedesca da Wieland a Hoffmann, da Lessing a Paul; e poi Frisch, Celan, sono solo i primi che saltano all’occhio del visitatore. La responsabile del museo mi fa vedere un libriccino di Leonardo Sciascia, è Todo Modo, e quel ritrovamento è anche il motivo della mia presenza in Svizzera: parlare del rapporto tra due grandi autori legati da una sorta di dissoluzione delle ragioni del giallo, almeno di quello tradizionale; dove gli omicidi e in generale i casi, piuttosto che alla soluzione, si offrono al caos della mente.

In seguito lessi molte altre opere di Dürrenmatt, anche ben dopo il periodo universitario. Ricordo in particolare Il sospetto, il quasi giallo innescato dalla pubblicazione di una fotografia su una rivista che raffigura un medico intento in crudeli operazioni sul corpo di un internato in un campo di concentramento. L’ispettore Hans Bärlach della Polizia di Berna, ricoverato in ospedale e ormai in uno stadio avanzato di malattia, capisce che il suo medico sembra riconoscere in quella fotografia un noto luminare; un sospetto, appunto, che innesca una serie di indagini dall’epilogo che sfocia nell’onirico. Proprio in queste settimane Il sospetto è proposto da Adelphi in una nuova traduzione a cura di Margherita Belardetti.

Ma a Neuchâtel ho in dono una copia in italiano di Minotauro. Tradotto mirabilmente da Donata Berra in una sequenza di pentapodia giambica, a partire dalla strutturazione in cinque ictus dell’originale tedesco, il mito del mezzo uomo e mezzo toro, rinchiuso da Minosse nel famoso labirinto realizzato da Dedalo, è rivisto, riscritto, rovesciato. Sicuramente umanizzato nella sua semi-bestialità:

Avanzò verso di lei. Lei si allontanò
Da lui mentre rispecchiata altrove sembrava
Che gli venisse incontro. Lui la inseguì
Attraverso il labirinto, lei fuggiva.
Era come se un vento di tempesta facesse
Turbinare in un vortice minotauri e ragazze,
a tal punto mulinavano l’uno verso l’altra, l’uno
lontano dall’altra, confusi l’uno nell’altra,
e quando la ragazza gli corse fra le braccia,
quando lui d’improvviso sentì il suo corpo, la carne
calda e madida di sudore, e non lo specchio
duro che finora aveva toccato, capì
- se di capire si potesse parlare nel caso
del minotauro - che fino a quel momento
era vissuto in un mondo in cui c’erano
soltanto minotauri, ciascuno rinchiuso in una
prigione di vetro, ma ora sentiva un altro
corpo, ora sentiva un’altra carne.

Nella casa museo vi è uno spazio dedicato alla pittura. Dürrenmatt amava dipingere, attività che lo accompagnò per tutta la vita, anche se non volle mai esporre o fare circolare sul mercato le sue opere. Immagini potenti, caratterizzate da grosse pennellate o grossi tratti a carboncino, che rendono perfettamente epoche, miti, stati d’animo, inquietudini dell’autore. Mi colpisce in particolare una di queste: il Minotauro si erge in piedi nella sua possenza e tiene sollevato sopra la testa il corpo inanimato della fanciulla con la quale aveva avuto un amplesso; intorno, gli specchi del dedalo nel quale è rinchiuso riflettono quel raccapriccio, frutto dell’incapacità del suo corpo di mezza bestia di aprirsi a un rapporto senza conseguenze mortali. E mi avvolge tutta la disperazione che prorompe da quell’immagine.

C’è un tratto, che viene portato alla mia attenzione dalla responsabile del museo: le immagini e le parole non sono per Dürrenmatt fasi separate di produzione ma fanno parte dello stesso processo. Le parole e le immagini si fondono in una espressione creativa totale, assoluta. Unica.

Ecco perché per cominciare davvero a conoscere Dürrenmatt non basta leggerne i libri ma bisogna armarsi di pazienza e spaziare nella pluralità di quanto ha lasciato; magari andare in quella casa museo e aprirsi alla complessità di un autore a tutto tondo, che è stato capace di mostrare al mondo le inquietudini di cantoni che troppo sbrigativamente liquidiamo come pittoreschi.

Riferimenti bibliografici
F. Dürrenmatt, La panne. Una storia ancora possibile, Adelphi (ed. or. 1956), Milano 2014.
Id., La promessa. Un requiem per il giallo moderno, Adelphi (ed. or. 1958), Milano 2019.
Id., Minotauro. Una ballata, Adelphi (ed. or. 1985), Milano 2021.
Id., Il sospetto, Adelphi (ed. or. 1952), Milano 2022.

Friedrich Dürrenmatt, Emmental 1921 – Neuchâtel 1990.

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