In un’intervista per la CBS del 2017, Donald Sutherland (1935-2024) ha rievocato un episodio curioso degli inizi della propria carriera, riguardante un provino andato male. L’attore ha raccontato come sceneggiatore, regista e produttore del film gli avessero telefonato e, dopo essersi complimentati per l’ottima audizione, avessero voluto spiegargli le ragioni della sua esclusione dal ruolo. «They said: “We’ve always thought of this fella as a sort of a guy next door, and to be absolutely truthful, we don’t think you look like you’ve ever lived next door to anybody”. That’s the story of my life, you know?».
È forse anche per questo che la carriera sessantennale di Donald Sutherland – nato in Canada, laureato in ingegneria a Toronto e trasferitosi in Inghilterra nel 1956 per frequentare la London Academy of Music and Dramatic Art – conosce un inizio timido in un genere specifico, l’horror, in cui quell’attore di breve formazione teatrale, alto e dall’aspetto tutt’altro che ordinario sembra poter funzionare molto bene. Il primo ruolo lo ottiene per un film italiano, Il castello dei morti vivi (Ricci, Sabatini, 1964), ma i ruoli, in effetti, sono due: Sutherland presta le proprie sembianze al goffo e arrogante sergente Paul e, opportunamente truccato e ingobbito, a una vecchia strega capace di predire il futuro; nel successivo Una notte per morire (Narizzano, 1965) è un giovane ritardato con difficoltà d’eloquio, dagli occhi attoniti e la bocca spalancata. Guardando ai suoi primi anni di attività, sembra impossibile svincolare quel corpo, in cui gli organi deputati ai sensi sembrano eccedere dai termini canonici della giusta misura, da personaggi dall’esistenza tormentata o eccezionale: gli occhi chiari e sporgenti, le orecchie ad ansa, il viso allungato e una dentatura prominente si inseriscono in una figura magra e allungata che l’attore dota nei primi ruoli di un’andatura incerta, e che è capace, all’occorrenza, di sprigionare una rabbia primordiale.
Se le qualità estetiche portano a indicizzare inizialmente Sutherland come interprete adatto a incarnare lo sconvolgimento orrorifico grazie ai propri connotati “sconvolti”, a partire dalla fine degli anni sessanta la sua carriera si configurerà sempre più come un percorso fittissimo, eterogeneo, imprevedibile, variegato, arduo da sintetizzare e in cui risulta difficile – e tutto sommato, quindi, inutile – rintracciare una direzione che non sia quella semplicemente dettata dal succedersi dei ruoli. Quando, infatti, la New Hollywood riscrive il modo di fare film e il modo di essere attori, a Sutherland vengono affidati, oltre ai ruoli da caratterista, a cui sembra apparentemente destinato, anche ruoli di primo piano. Certo, il processo non è immediato – in Quella sporca dozzina (Aldrich, 1967), nel ruolo di Pinkley incarna ancora lo scemo del villaggio, outsider tra gli outsiders, oggetto d’ironia del leader Franko/Cassavates (“You look like an intelligent guy!”) e soprannominato “Dumbo” dal gruppo per via delle orecchie enormi –, ma il successo di M*A*S*H (1970) segna la consacrazione di Sutherland. Ambientato in Corea ma riferito in maniera inconfutabile all’assurdità del conflitto in corso in Vietnam, il film di Robert Altman è l’occasione per l’attore di affinare i toni semiseri della propria recitazione con pochissimi aggiustamenti rispetto ai ruoli precedenti. La voce profonda e baritonale, modulata in Pinkley “Dumbo” in modo da suggerire un’ottusità infantile, assume per il Capitano Hawkeye di M*A*S*H un colore caldo; entrambi mal si adattano alla disciplina militare, ma la goffaggine del primo diventa nel secondo una scanzonata disinvoltura. Sutherland è abile insomma a scrivere, per ciascuno dei due personaggi, una partitura ritmica peculiare, che porta Pinkley a una dissonanza con l’ambiente militare e Hawkeye (anche in virtù della sintonia con Elliott Gould) a un’autorevolezza sghemba nel gestire – in senso umanitario e logico – un ambiente del tutto illogico.
Si tratta di un lavoro di precisione, di un contributo attoriale che può condensare in gesti, sguardi e variazioni posturali e vocali minime una gamma pressoché infinita di personaggi. Dopo il successo di M*A*S*H, l’attore colleziona infatti un numero vertiginoso di ruoli, costruendo una carriera da interprete di prima grandezza senza affrancarsi mai davvero da ruoli da caratterista, che gli concedono spazi di invenzione ampi: come quello nel ruolo di “Oddball” (“Testamatta”), uno schizzato sergente carrista in I guerrieri (Hutton, 1971), o del reverendo Henry, che si lancia in un monologo di sette minuti sull’assurdità del rito matrimoniale – proprio mentre sta celebrando un matrimonio – in Piccoli omicidi (Arkin, 1971), e ancora nei panni di Gesù Cristo, che appare in sogno al soldato mutilato nel dramma E Johnny prese il fucile (Trumbo, 1971).
Sul versante dei ruoli primari, quello da protagonista in Una squillo per l’ispettore Klute (Pakula, 1971) conferisce per la prima volta all’attore un’allure sensuale. “You remind me of my uncle”, afferma la prostituta Bree/Jane Fonda per intimidire l’ispettore. Eppure, grazie a un’acconciatura netta e a un viso glabro, Sutherland può mostrare il proprio volto in purezza, “normalizzandone” i tratti eccezionali in un regime di stretta economia espressiva, da cui emerge chiara la sensualità virile e pacata dell’uomo giusto in una vicenda torbida. La stessa strategia ricorre nel successivo A Venezia… un dicembre rosso shocking (Roeg, 1973), in cui l’attore è protagonista di quella che il Times ha definito «cinema’s greatest – and most lifelike – sex scene». Ha ben poco di virile, però, il Giacomo Casanova che Federico Fellini immagina per Donald Sutherland (Il Casanova di Federico Fellini, 1976), scelto in quanto «attore dalla faccia cancellata, vaga, acquatica, che fa venire in mente Venezia. Con quegli occhi celestini da neonato» e, potremmo aggiungere, una grazia fluida. Le coreografie dell’acrobata amoroso e i costumi disegnati da Danilo Donati lo vincolano alla visione felliniana senza davvero limitarlo: il risultato è un lavoro raffinato, frutto di una collaborazione che Sutherland, a distanza di anni, ricorderà come simile a un vero e proprio love affair.
Passare in rassegna i tanti personaggi di Sutherland non è qui solo un usus commemorativo, piuttosto una pratica inevitabile (e al tempo stesso, vista la mole di film, pressoché impossibile): non c’è altro modo, per provare a comprendere l’eccezionalità dell’interprete, che il resoconto impressionante dei suoi film, ovvero un susseguirsi di personaggi diversissimi tra loro. Accomunati, sì, dai tratti caratteristici inconfondibili, e che però Sutherland ogni volta riesce, con grande sapienza attoriale, a nascondere, camuffare, riattribuire, svincolandosi da una ricorsività potenzialmente limitante: è lui stesso a sottolineare come la sua carriera sia paragonabile a un «great big wooden platter of fruit and pasta and chicken and salad and soup and a banana and everything». Quell’“incrollabile veridicità” indicata dall’Academy nel conferire a Sutherland l’Oscar onorario (2018) è forse la sintesi – in parte impropria, come lo sono spesso le sintesi – di una possibilità rappresentativa illimitata in virtù di una padronanza scaltra dei propri mezzi: dallo spietato Attila Melanchini di Novecento (Bertolucci, 1976) al bonario professor Jennings di Animal House (Landis, 1978), dallo scassinatore gentiluomo di 1855 – La prima grande rapina al treno (Crichton, 1978) al maniaco piromane di Fuoco assassino (Howard, 1991), passando per il padre apprensivo di Ordinary People (Redford, 1980). Proprio in virtù di questa potenzialità sconfinata – che porta necessariamente, per corollario, a una leggibilità compromessa, difficile – nella serie The Undoing (Bier, 2020) a Sutherland tocca l’onere di tracciare la falsa pista, interpretando il patriarca comprensivo e premuroso che però, forse – lo suggeriscono alcuni primi piani in solitaria di troppo –, potrebbe anche essere il killer violento della giovane donna. Per la stessa proprietà, in La migliore offerta (Tornatore, 2013), Sutherland è Bill, l’insospettabile personaggio secondario che il plot twist finale rivela essere il burattinaio di tutta la vicenda. Non è poi solo la varietà, ma anche la continua incursione fuori e dentro ai generi, che non suggerisce una carriera fatta di “svolte” bensì, piuttosto, di fedeltà riconfermate: la fedeltà alla commedia, al dramma, all’horror e al thriller, a cui si affianca, negli anni dieci del Duemila, l’occasione del genere fantastico, offerta dal fortunato media franchise Hunger Games.
A novembre verrà pubblicata, postuma, l’autobiografia di Sutherland, Made Up, But Still True. Promosso come un «unfiltered account» sulla sua vita e la sua professione, il primo (e unico) scritto dell’attore offrirà uno sguardo più ravvicinato e dettagliato, auspicabilmente, sul suo lavoro d’interprete. Un interprete che sa far sembrare vero quel che è finto, tanto immediato quanto inafferrabile, complesso nella sua essenzialità e per questo irriducibile a una sintesi opportuna: qualcosa di molto distante, in effetti, dal ragazzo della porta accanto.
Donald McNichol Sutherland, Saint John, luglio 1935 – Miami, giugno 2024.