Il cielo è una macchia scura. Le prime luci del mattino filtrano appena dai nuvoloni grigi che lentamente avanzano. I rami secchi degli alberi in sovrimpressione si intersecano e, mimando il fruscio disordinato del vento, disegnano linee spigolose e asimmetriche. Un’immagine silenziosa, sinistra, cui segue lo scorcio sulla facciata di un palazzo fatiscente con ampie finestre dai vetri rotti. A quel punto sentiamo qualcosa. La voce-off di un bambino chiede “Where’s she?”, e alla risposta del suo interlocutore maschio e adulto – “She’s at the studio. She’s working” – corrisponde, sul piano visivo, l’inquadratura fissa dell’esterno di una bottega sulla strada, modesta e non molto rappresentativa. Ciò che accade poco dopo ci informa del sospetto che l’assenza dell’anonima donna in questione ha destato nel ragazzino e suggerisce l’atipicità di quel mancato rientro a casa (come anche di un’eventuale uscita anticipata o improvvisa), che non sembrerebbe conformarsi ad un’abitudine quotidiana consolidata. In lontananza, con indosso l’uniforme scolastica ed in spalla lo zaino, riconosciamo il ragazzo. Lo vediamo attraversare in prossimità di un incrocio, camminare a passo spedito su di un marciapiede, poi giungere davanti alla porta d’ingresso di un locale e fermarsi, mentre ai suoi movimenti concitati il montaggio alterna dettagli di pennelli da lavoro. Varcata la soglia, il bambino quasi smette di respirare e sgrana gli occhi. La macchina da presa stringe così sul suo volto segnato dal terrore e, all’apice della tensione, di gran lunga incrementata dalla negazione del controcampo, ne incrociamo, per un attimo, lo sguardo.

È l’incipit di The Undoing – Le verità non dette (2020), il crime drama in sei parti ideato da David E. Kelley (Big Little Lies, 2017) e diretto da Susanne Bier. Una sequenza d’apertura criptica che catapulta lo spettatore nel vivo di una storia tragica già cominciata e dai contorni vaghi. Un inizio in medias res di cui il didascalico “Two days earlier” (“Due giorni prima”) della scena successiva, nonché la riconfigurazione spaziale e la distensione dell’atmosfera tetra che la definiscono, si fanno testimoni, segnalando apertamente una manipolazione dello sviluppo lineare del racconto. Tuttavia, l’importanza dei minuti iniziali non deriva tanto dall’immediatezza con cui siamo introdotti alla vicenda e “rapiti” dall’enigmaticità con la quale ci si presenta, e neppure dal contenuto di ciò che rivelano. Più della trasformazione immediata della spettatorialità in partecipazione, interessante è la forma che questa assume. Infatti, pur trattandosi di partecipazione attiva ed esperita “dal di dentro”, la visione risulta per qualche motivo interdetta – “frammentata” – tanto che ripensare all’accaduto significa, in sostanza, domandarsi cosa non si è visto (e si sarebbe dovuto vedere). Ecco, tale percezione di frammentarietà – dovuta allo svelarsi sempre parziale delle cose, primo grande polo tematico della narrazione – riflette una precisa modalità di costruzione della messinscena. È una costante, il segno del “modo” stilistico in virtù del quale, di puntata in puntata, si impara a prestare maggiore attenzione al come si vede, monito della presenza (e della rilevanza) di una porzione di reale che non si offre allo sguardo.

La serie narra della violenta distruzione di un nucleo familiare apparentemente compatto; della scoperta dolorosa di una falla interna al rapporto coniugale felice (e perciò percepito come inalterabile) di una privilegiata coppia dell’Upper East Side, quella formata da Grace (l’eterea Nicole Kidman) e Jonathan Fraser (il carismatico Hugh Grant). Psicologa lei e oncologo pediatrico lui, genitori esemplari agli occhi del figlio Henry (Noah Jupe) e figure di riferimento per il gruppo d’élite cui appartengono, i due conducono una vita pressoché perfetta, fatta di numerosi impegni lavorativi ed incontri mondani in cui esibire (e in un certo senso imporre) tutto il proprio charme. Il microuniverso placcato – rivestito di sofisticate carte da parati e saturo di arredamento vintage, dove la più grande preoccupazione giornaliera riguarda la scelta dell’abito da indossare, o al massimo scaturisce dal rumore fastidioso di un frullatore per il quale risulterebbe difficile fare il nodo alla cravatta – è però una “casa di carta” costruita sulla menzogna; sull’illusione di una perfezione che in fondo non esiste e che piuttosto, crollando, si rivela nella sua essenziale pericolosità.

La serenità indisturbata dei Fraser è fittizia, e lo è perché si regge non su una reale assenza di incrinature nel legame tra i coniugi, bensì sull’ingannevole occultamento delle pulsioni, che risponde all’imperativo di adempiere ad un ruolo sociale, e dunque della verità. Feroci tanto quanto abilmente mascherate, le verità nascoste, in The Undoing, sono molteplici. Per questa ragione, quando l’omicidio di una giovane donna – iscritta, come Grace, al comitato delle mamme della scuola – dà avvio ad una caccia all’assassino serrata, nel perimetro di una cerchia ristretta di persone, lo sgomento cede all’insinuazione del dubbio. E la sparizione improvvisa di Jonathan, avvenuta in concomitanza al ritrovamento del corpo della vittima, getta l’intera famiglia al centro di una bufera mediatica, processuale e soprattutto emotiva, che non solo compromette gli equilibri relazionali, ma sconvolge l’esistenza di ciascuno dei suoi membri.

L’immagine è allora velata e ambigua perché velato e ambiguo è ciò che vuole rappresentare: trasparente e al contempo opaca come gli eventi, “una” e doppia come i personaggi, prismatica come la realtà che, nel mondo dorato ed ovattato della serie, non è mai soltanto questa (conosciuta, manifesta, benché artefatta) ma è anche altra. L’ombra è il perno su cui il dramma si regge, e a livello narrativo (il personaggio, al pari dello spettatore, è disorientato, incapace di scindere il vero dal falso in una storia che “si disfa” proprio quando sembrava aver intrapreso una certa direzione), e a livello formale (ogni inquadratura evoca l’idea di un’ostruzione e di una possibile falsificazione, veicola l’equivocità dei suoi elementi rimandando all’esistenza di un lato oscuro degli stessi).

In questa prospettiva, il primo episodio (“The Undoing”) dapprima persuade lo spettatore della veridicità di una situazione, poi lo costringe ad una messa in discussione radicale, ribaltandola e denunciandone l’inattendibilità. L’incontro tra Grace e la sensuale Elena Alves (Matilda De Angelis), il gioco seduttivo che si innesca tra le due inaugurato da un bacio saffico scambiatosi di nascosto, sembrano aprire la strada al racconto di un’avventura tutta al femminile vissuta come antidoto alla noia e ad un’insofferenza latente alle convenzioni sociali, accattivante perché nuova ma destinata, con ogni probabilità, a concludersi rafforzando il legame matrimoniale. Eppure, all’improvviso e in circostanze poco chiare, Elena viene uccisa. Le supposizioni avanzate sino a quel momento decadono, e a partire dalla seconda parte (“The Missing”) la narrazione ripiega su un percorso diverso (a dire il vero più di uno), smascherando la parte inedita della trama e l’identità “segreta” dei personaggi. Da oggetto del desiderio di Grace, la dolce e smarrita Elena diventa il bersaglio di un’esecuzione raccapricciante e anzitutto, così come emerge sin dalle prime indagini, si scopre essere l’amante subdola e ossessionata di suo marito (dal quale ha avuto anche una figlia); Jonathan, devoto ed empatico, si trasforma in compagno e padre sleale e, addirittura, nel potenziale mostro colpevole ricercato dalla polizia; Grace, donna forte e determinata, in preda al panico si schiera a favore dell’uomo meschino che ha sposato perché troppo fragile per ammettere, in primis a se stessa, di doversi ricredere sul suo conto e su quel che insieme hanno costruito.

E via, in coda, gli altri: l’anziano ma astuto padre di lei (Donald Sutherland), pronto a sostenerla e a proteggerla sia pure a costo di deluderla (per anni Franklin le ha mentito ed ha tradito la madre ormai defunta); il piccolo Henry, la cui innocenza diviene non del tutto scontata quando nel finale di “Trial by Fury” (1×05) scorgiamo, nell’astuccio del suo violino, il martello presumibilmente usato sul luogo del delitto; Fernando Alves (Ismael Cruz Córdova), freddo e distaccato rispetto a quanto è successo e, comunque, violento (pedina e minaccia Grace). In un simile scenario, dove l’esposizione in vetrina di tutto, lungi dall’attenuarle, alimenta le tensioni, protagonisti diretti e partecipanti esterni sono chiamati ad assolvere il medesimo compito, a sbrogliare una matassa che, al sorgere di ogni nuova ipotesi o dell’ennesimo indizio, si aggroviglia sollecitando rapide inversioni di marcia e continue rivalutazioni delle congetture emerse in precedenza. Le responsabilità balzano da una parte all’altra, e attribuirle è complicato laddove, scoppiata la bolla difensiva e perduta l’aura di prestigio e intaccabilità, nessuno può chiamarsi fuori dal proprio personale processo di espiazione di (almeno) una colpa.

Quale pista seguire, allora? Di chi fidarsi e come procedere, una volta constatato che credere nella cristallinità delle immagini, che siano esse “etichetta” della persona o frutto di un dispositivo atto a generarle, è il più grave degli errori possibili? Si rintraccia, nel lavoro di Kelley e Bier, lo schema del discorso sviluppato, e qui discusso da Cecilia Cruccolini, in Big Little Lies. In egual misura, il gioco degli specchi al centro dell’intreccio si replica e si infittisce in parallelo sul piano espressivo. Gli espedienti adottati per riprodurre le strategie di omissione della verità e nascondimento di sé messe in pratica dai personaggi – i vari “filtri” che, disturbando la visuale, stimolano l’assunzione di un punto di vista alternativo e un’ostinata penetrazione della superficie da parte dello spettatore – sono infatti gli stessi: specchi, ampie vetrate, stipiti o tende, porte dischiuse in appartamenti labirintici, pozzanghere e acque rifrangenti, grate, ringhiere.

Le inquadrature costituiscono ponti di collegamento con una dimensione invisibile del reale in cui risiedono segreti ingombranti e paure inconfessate. Ma il loro ruolo non si esaurisce esclusivamente nel rendere espliciti quei segreti e quelle paure, bensì nel rifletterne anche gli effetti nefasti sull’esistenza dei singoli individui cui appartengono. Il posizionarsi della macchina da presa dà l’idea del peso che incombe e grava sulle loro spalle, delle sensazioni da cui le loro azioni e reazioni ingiustificabili si originano e che, fino alla fine, interferiscono con la lettura e la risoluzione degli eventi. L’impressione dello schiacciamento, secondo nucleo tematico del racconto, si esprime con evidente frequenza: attraverso riprese zenitali (la plongée sul tavolo durante la riunione delle mamme ipocrite e perbeniste) e claustrofobiche (il taglio ravvicinato sull’occhio vitreo di Grace), o movimenti realizzati dal basso (limite più che varco verso il quale risalire, il cielo cupo soffoca il mondo sovrastandolo) e verso il basso (dall’alto di scale e scalinate, in generale sempre quando il personaggio avverte particolari pressioni).

C’è però un momento in cui l’immagine comincia a schiudersi, ed è quello in cui la debolezza evolve inaspettatamente in coraggio. Nel corso dell’ultima udienza in tribunale, Grace si ribella alle logiche degradanti della sopraffazione, sceglie di riconoscere il tratto manipolatorio (oltre che patologico) del potere maschile. La donna depone infatti contro il marito il quale, l’indomani, prende in ostaggio il figlio e disperato confessa di essere lui (ma “non il padre che conosci”) il responsabile dell’omicidio. Primo naturale sospettato – poi sottovalutato in nome del “niente è come sembra” al quale la complessa struttura narrativa ci aveva efficacemente abituati e che, per certi versi, ribadisce nel finale seppure in una prospettiva “rovesciata” – Jonathan si dichiara colpevole. E allora noi, di fronte a quell’ammissione, dopo aver a lungo pensato di raggirare il tranello dei facili giudizi e delle affrettate conclusioni, siamo presi in trappola.

Ad ogni modo, tra le pieghe del capovolgimento della situazione (“semplice” se si considerano i termini in cui si dispiega, ma nondimeno sofferto) affiorano, in contemporanea, gli esiti di un processo privato di minore risonanza pubblica, di una lotta interiore decisiva, tanto quanto quella giudiziaria, per il destino personale della protagonista/eroina della serie. La forza di The Undoing sembra infatti risiedere in una sottile e profonda riflessione, racchiusa nel sottotesto, sul femminile; sulla tenacia militante e sull’innata capacità di reinvenzione che gli sono proprie; sull’onestà con cui fiuta e contempla la natura bestiale del predatore per pervenire alla conoscenza consapevole, per ricostituirsi, per «consentire a ciò che deve morire di morire, e a ciò che deve vivere di vivere» (Estés 2016). A bordo dell’elicottero della polizia, recuperato Henry e ormai “salva”, Grace si (ri)alza in volo e respira. Dopo la discesa, ascende. Va verso il sole. In un’immagine che sprigiona tutta la potenza della liberazione di una donna e restituisce, attraverso la sua intima e singolare esperienza, il senso di un riscatto più universale, della donna dunque.

Riferimenti bibliografici
P. Estés, Donne che corrono coi lupi, Frassinelli, Milano 2016.

J. Mittell, Complex Tv. Teoria e tecnica dello storytelling delle serie tv, minimum fax, Roma 2017.
M. Murdock, Il viaggio dell’eroina, Audino, Roma 2010.

The Undoing – Le verità non dette. Ideazione: David E. Kelley; regia: Susanne Bier; sceneggiatura: David E. Kelley; interpreti: Nicole Kidman, Hugh Grant, Matilda De Angelis, Donald Sutherland, Noah Jupe; produzione: David E. Kelley Productions, Blossom Films, Made Up Stories; distribuzione: HBO/Sky; origine: USA; anno: 2020.

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