«Un quart d’heure. Juste un quart d’heure. Être beau comme Alain Delon pendant quinze minutes»: così il 18 agosto, a poche ore dall’annuncio della morte, “Le Nouvel Obs” ha omaggiato – verbalizzando un desiderio nascosto di molti uomini – l’ineguagliata bellezza di quello che è stato uno dei più iconici, internazionali e popolari tra gli attori europei del secolo scorso, amato, desiderato e idolatrato, ma anche contestato e criticato per via di posizioni politiche non sempre corrette, molto vicine alla destra di Le Pen. Come ci ha insegnato Edgar Morin, «il teatro non esige che le sue attrici siano belle ma lo star system vuole delle beltà» e quella di Delon – una bellezza al contempo maschile e femminile, fatta di lineamenti perfetti, corporatura atletica e occhi azzurri cerchiati di nero – ha attraversato sessant’anni di cinema e di stardom sino a diventare un archetipo. Come molti hanno ricordato in queste ore, Delon ha smesso presto di appartenere unicamente al cinema. La sua “faccia d’angelo” e la sua griffe sono apparse non solo sulle le pagine dei rotocalchi e delle fanzines, ma anche sulle copertine dei dischi (The Queen is Dead, The Smiths), sulle confezioni di profumo, sui quadranti degli orologi di lusso e sulle pagine dei fumetti erotici (Playcult).

Il mito di Alain Delon, macellaio mancato con un passato di studente ribelle e militare radiato, nasce alla fine degli anni cinquanta in quel cinéma de papa che di lì a poco sarebbe morto – come aveva profetizzato Truffaut – sotto il peso di «false leggende». A differenza del rivale Belmondo, icona di una maschilità ricca di vitalità ma povera di stylishness, il giovane Delon non ha alcuna formazione accademica alle spalle: ha abbandonato la scuola a 14 anni e invece del Conservatoire d’Art Dramatique frequenta la malavita parigina. Ma per i fratelli Yves e Marc Allégret questo è un dettaglio insignificante. Sedotti da quel viso dall’aria al contempo angelica e maudite, i due cineasti battezzano – rispettivamente con Godot (Quand la femme s’en mêle, 1958) e Fatti bella e taci (Sois belle et tais-toi, 1958) – l’inizio di una gavetta che sarà brevissima, perché solo due anni dopo il nome “Alain Delon” appare nel primo dei cartelli previsti nei titoli di testa di Delitto in pieno sole (Plein soleil, René Clément, 1960): il più pregiato, quello di norma riservato alle star. Il ruolo di Tom Ripley, l’omicida garbato e amorale plasmato da Patricia Highsmith, è il primo di una lunga serie di villain cinici e sofisticati che caratterizzeranno però solo un lato – quello più oscuro – della persona di Delon, non riducibile – come vedremo – unicamente all’immagine del killer spietato (Frank Costello faccia d’angelo, Le samourai, Jean-Pierre Melville, 1967), dello scrittore fallito (La piscina, La piscine, Jacques Deray, 1969), o del gangster impavido (Borsalino, Jacques Deray, 1970).

Nel thriller di Clément si evidenziano già quelli che saranno i tratti distintivi dello stile di Delon, abile nel passare, senza soluzioni di continuità, dalla presenza alla performance, ovvero da una recitazione in levare, fondata sull’azzeramento della mimica del volto, all’esibizione di una fisicità carica di energia e dispiegata in scene d’azione interpretate senza l’aiuto di controfigure. Penso, per restare a Delitto in pieno sole, al tuffo in acqua compiuto da Tom per liberarsi del corpo dell’amico, con tanto di risalita sulla barca, svestizione e (strategica) esibizione dei muscoli addominali contratti nello sforzo di reggere il timone. Sulla prestanza fisica di questo macho fragile indugia, nello stesso anno, anche la cinepresa di Visconti, che – nella seconda parte di Rocco e i suoi fratelli (1960) – decide di far combattere il suo attore contro un vero pugile, potenziando, con la carta del realismo, la virilità di una bellezza al contempo naturale e ideale, carica di un forte rilievo simbolico. Se Renato Salvadori (Simone), con il suo portamento curvo, la barba incolta e l’andatura sgraziata, incarna infatti la maschilità intesa come bestialità, Rocco esprime un mélange di forza, eleganza e purezza difficile, per non dire impossibile da recitare: «Io – ha dichiarato Visconti – non so quale altro attore poteva farlo, Rocco». Sul set, in effetti, il venticinquenne autodidatta dimostra di saper fare già tutto, dall’overacting di stampo teatrale (penso alla reazione emotiva di Rocco davanti allo stupro di Nadia) alla recitazione di spalle (si veda il duetto con Annie Girardot sulle guglie del Duomo), tecnica che l’attore utilizzerà anche in L’eclisse (Michelangelo Antonioni, 1962) per interpretare un agente di cambio bello, cinico e algido come Alain Delon.

Ma quello che Visconti filma – ed è il primo a farlo – è la malinconia nascosta nello sguardo triste di un seduttore così fatale che il suo fascino è stato spesso associato al sentimento della crudeltà, quando invece «è la sua stessa bellezza, nei suoi eccessi, che è crudele» (Vincendeau 2000). Se le star contaminano i proprio personaggi, anche i personaggi contaminano l’immagine delle star ed è quello che accade con l’interpretazione di Jean-Paul (La piscina), lo scrittore fallito che, accecato da gelosia e sete di vendetta, affoga senza pietà l’amico Harry (Maurice Ronet) per poi asciugarsi, cambiarsi e stendersi impassibile sul divano, come se nulla fosse successo. Più che un melodramma a tinte fosche, La piscina è un omaggio all’erotismo senz’anima della coppia Delon-Schneider, sfiorata da una cinepresa che sembra voler farci accarezzare la pelle abbronzata dei due ex-amanti, umida d’acqua e di sudore. Nel bellissimo incipit Delon, disteso supino sul bordo della piscina, non fa assolutamente nulla se non recitare il proprio mito, ovvero l’essere un puro oggetto di piacere visivo, non importa se maschile o femminile. Nel pedinare, con focali lunghe, il corpo tonico del sex-symbol Deray dimostra di aver appreso la lezione di Melville, che in Frank Costello faccia d’angelo aveva diretto la star come un automa bressoniano, invitandolo ad azzerare i codici della recitazione naturalistica. Stretto nel suo trench color panna, il Delon di Melville entra ed esce dal quadro senza far rumore e quando parla lo fa con una voce non timbrata, esprimendo così – con uno straordinario lavoro di sottrazione – l’inespressività stessa della solitudine (e della bellezza). Di questo portamento raccolto e incurvato si ricorderà qualche anno dopo Valerio Zurlini, che con La prima notte di quiete (1972) realizza non solo un mélo colto e raffinato, ma anche un documentario sulla mascolinità, al contempo pura e malata, di Delon, utilizzato finalmente in contre-emploi. L’uomo dall’aspetto trasandato che, avvolto in un cappotto di cammello, si aggira solitario nella nebbia di Rimini non è infatti né un buono (Visconti) né un cattivo (Melville), ma semplicemente un loser, un antieroe che muore inseguendo un amore impossibile.

Su questa stessa lunghezza d’onda, volta a decostruire una bellezza apparentemente imperitura, si sintonizzeranno in seguito due autori come Bertrand Blier (Notre Histoire, 1984) e Jean-Luc Godard (Nouvelle Vague, 1990). Se Robert (Notre histoire), il meccanico maldestro e alcolizzato che si installa nella vita di Donatienne (Nathalie Baye), appare a tutti gli effetti una parodia del Delon che fu, Roger/Richard Lennox (Nouvelle Vague) resta, a mio avviso, uno dei personaggi più intensi e tragici tra quelli interpretati dall’attore nella seconda parte della carriera. Godard sceglie Delon per il fatto che il divo porta dentro di sé non solo «la propria tragedia» (Jean-Luc Godard) ma anche la storia del cinema, e tra i fantasmi che popolano l’universo onirico di Nouvelle Vague – oltre a Leopardi, Dante, Bresson, Bernanos, Bataille e Rimbaud – c’è anche quello di Louis Malle e in particolar modo il personaggio di William Wilson, l’ufficiale sadico che uccide in duello il proprio sosia (William Wilson, episodio di Histoires Extraordinaires, Tre passi nel delirio, 1968).       

Chi (o che cosa) è stato, in conclusione, Alain Delon? Un’icona di bellezza, un seduttore fatale, un modello di eleganza maschile, ma anche – non va dimenticato – un interprete raffinato e talentuoso, capace di alternare il cinema di genere con quello d’autore utilizzando in senso espressivo una presenza scenica tanto spoglia di gesti e movimenti quanto ricca di mistero, fascino ed enigma.    

Riferimenti bibliografici
C. Leclerc, Alain Delon. L’acteur qui offre son âme, L’Harmattan, Paris 2020.
N. Rees-Roberts, D. Waldron, a cura di, Alain Delon. Style, stardom and masculinity, Bloomsbury, New-York 2015.
G. Vincendeau, Stars and stardom in French Cinema, Continuum, London 2000.

Alain Delon, 8 novembre 1935 – 18 agosto 2024.

Tags     Alain Delon, corpo
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