Secondo Stuart Isacoff, il pianoforte ha rivestito il ruolo di “centro dell’universo” per più di trecento anni: «È stato il pianoforte ad attirare i melomani nei salon parigini con le accorate improvvisazioni di Chopin, e nelle sale da concerto viennesi con l’esuberanza feroce e strappacorde di quelle di Beethoven» (2012, p. 4). Ma il pianoforte non può essere considerato soltanto uno strumento. Esso è, «nelle parole di Oliver Wendell Holmes, “uno scrigno dei miracoli”, ripieno di speranze, desideri e disinganni non meno che di corde, di martelletti e di feltri. Mutevole come la condizione umana, è stato un simbolo: di eleganza raffinata in un interno domestico vittoriano, o indifferente squallore in un bordello di New Orleans» (ibidem).
A una tale multiformità corrisponde un’analoga ricchezza, quella che ha caratterizzato la storia del pianismo, una storia popolata da figure leggendarie ed estremamente diverse, alcune legate a doppio filo con la temperie del loro tempo, come Alfred Cortot, Arthur Rubinstein o Vladimir Horowitz, altre le cui vicende sono diventate paradigmatiche delle dinamiche conflittuali del Novecento, come Van Cliburn, altre ancora che, nella loro olimpica e cristallina purezza, restano un mistero insondabile, come Arturo Benedetti Michelangeli o, ancora, da pianiste che hanno sfidato intollerabili chiusure e improbabili condizionamenti, come Nadia Boulanger o Clara Haskil. Ma il pantheon dei grandi pianisti e delle grandi pianiste annovera altri nomi di assoluto rilievo, da Martha Argerich ad Alfred Brendel, da Vladimir Ashkenazy a Maria Tipo, da Dino Ciani e Wilhelm Kempf a Yves Nat, Claudio Arrau o Wilhelm Kempff e a moltissimi altri. E poi? «E poi c’è Maurizio Pollini. Pianista di fama monumentale» (Barber 2020). Scrive così Charles Barber nel suo libro dedicato alla vita e alle lettere di Carlos Kleiber.
«E poi c’è Maurizio Pollini». Proprio così. C’è il Pollini diciottenne che vince il Concorso Chopin di Varsavia e il Pollini che si esibiva nelle fabbriche, il Pollini schumanniano e beethoveniano e quello contemporaneo e ultra-contemporaneo. Il Pollini a cui nel 1976 Luigi Nono dedica …sofferte onde serene… o a cui nel 1994 Salvatore Sciarrino dedica la sua V Sonata con 5 finali diversi e quello che figura tra i soci fondatori, il 24 ottobre 2009 a Firenze, del Centro Studi “Luciano Berio” (CSLB), insieme a Pierre Boulez, Edoardo Sanguineti, Umberto Eco, Renzo Piano e Giorgio Pestelli, nonché quello che ha animato il progetto “Pollini Perspectives”.
Maurizio Pollini, scomparso il 23 marzo scorso a 82 anni, nasce a Milano nel 1942 e viene forgiato, da subito, nel fuoco della musica. Per come egli stesso racconta a Michele Dall’Ongaro, il padre suonava il violino, la madre aveva cantato e suonato il pianoforte, lo zio, lo scultore Fausto Melotti, aveva suonato il pianoforte (cfr. Dall’Ongaro, Pollini 2016). Sollecitato da Dall’Ongaro, Pollini fa riferimento alla sua formazione musicale iniziale a proposito delle comuni radici sue e dell’indimenticato amico Claudio Abbado (del quale il 20 gennaio abbiamo celebrato i dieci anni dalla scomparsa).
Quello tra Pollini e Abbado è stato un rapporto musicale e personale ultradecennale, solido e profondo come il loro modo d’intendere e di fare musica. È stato un «sodalizio lungo una vita», per come recita il titolo della conversazione con Dall’Ongaro, iniziato quando erano ancora ragazzi, giovani e brillanti studenti che, conosciutisi probabilmente a teatro nella Milano degli anni Cinquanta, seguivano gli spettacoli di Strehler, ascoltavano concerti di pianisti come Schnabel, Rubinstein, Backhaus, Gieseking, Benedetti Michelangeli e godevano delle leggendarie direzioni di Furtwängler e Karajan. Pollini e Abbado possono essere assunti l’uno come modello d’interpretazione dell’altro, tanta era la sintonia tra i due, almeno rispetto a due grandi questioni, prima tra tutte quella del rapporto con la partitura.
A tal riguardo, per come dichiara lo stesso pianista, queste due immense figure del panorama musicale internazionale condividevano l’«idea che la fedeltà al compositore fosse ciò che distingueva un’esecuzione moderna da una del passato. La fedeltà come meta necessaria – non sufficiente, ma necessaria – per un’esecuzione degna di questo nome o che potesse almeno caratterizzare un’esecuzione da tenere in considerazione: un elemento importantissimo» (ibidem).
La fedeltà al compositore e alla composizione, quindi. Si tratta di uno degli aspetti caratterizzanti lo stile e le scelte interpretative di Pollini, pianista dal rigore e dalla scrupolosità rari che, non di rado, sono stati interpretati come segno di un approccio freddo e intellettualistico alla musica. Ma cosa significava, per lui, essere fedele al compositore? Non si tratta di limitare tale fedeltà al rispetto della partitura (fondamentale anch’esso), quanto intenderla come la penetrazione dello spirito e del complesso concettuale che stanno al fondo di ogni composizione musicale e, in generale, di ogni opera d’arte. Essere fedeli alla composizione significa, adornianamente, muoversi alla ricerca del contenuto di verità dell’opera, con rigore, serietà e fatica. Le esecuzioni di Pollini, una volta concluse, si configurano come l’esito di un tour de force simile a quello che Theodor W. Adorno riferisce a Beethoven e al processo dialettico che quest’ultimo costruisce (cfr. Adorno 2005). Sul volto di Pollini, al termine delle sue interpretazioni, restavano sempre i segni della fatica del concetto, dello spirito e del corpo, ugualmente coinvolti nel processo di (ri)costruzione dell’opera che il pianista milanese portava a compimento in ogni sua esecuzione.
Come ha scritto Dino Villatico su “Il manifesto” nel suo ricordo del grande pianista appena scomparso, «Pollini aveva compreso fin da ragazzo, la forma – nell’arte – è lo strumento privilegiato con cui organizzare il nostro senso del mondo: nella struttura della musica sta la sua ratio, il suo tramite per rendersi comprensibile, così come per dare una logica all’irrazionale». Non si tratta, tuttavia, di scivolare in un formalismo musicale freddo e senz’anima, quanto di ri-creare l’opera, salvaguardandone e rispettandone la dimensione formale, ma penetrandola nelle sue trame, trasformandola in poesia e in concetto. Possiamo anche considerare ogni esecuzione di Pollini come un’impresa orientata verso un grande obiettivo: tenere in equilibrio forma e contenuto, ragione e sensibilità, controllo tecnico-strutturale e libertà interpretativa.
Il secondo elemento che vede Pollini e Abbado alleati è stato, senza dubbio, l’idea di musica come strumento di miglioramento della società, di lotta alle disuguaglianze, di progresso civile e di mezzo per richiamare le coscienze sulla follia della guerra. Emblematico, in questo senso, è il concerto che Pollini tiene il 19 dicembre 1972 per la Società del Quartetto di Milano. In piena guerra del Vietnam, il pianista, prima di sedersi sulla panca e dare inizio al concerto, legge un breve comunicato – firmato, tra gli altri, anche da Nono e Abbado – contro il bombardamento americano sul paese asiatico. Tale sarà il caos che esploderà che Pollini dovrà lasciare la sala senza neppure eseguire il programma previsto. Di questo episodio si è parlato moltissimo, ma vorrei richiamare il commento di due personalità di primo piano, appartenenti a due mondi distinti: la politica e la cultura.
Nella sua autobiografia politica uscita nel 2008, Giorgio Napolitano ricorda come il mondo culturale italiano di quegli anni fosse estremamente ricettivo e attivo rispetto ai principali avvenimenti politici internazionali, come, appunto, la guerra in Vietnam. Al disastro milanese, ricorda Napolitano, seguì il trionfo di un concerto che Pollini terrà poche settimane dopo, a gennaio, al Teatro Comunale di Bologna. Anche quell’occasione viene intesa dal pianista come un’opportunità per denunciare gli orrori della guerra, contribuendo a sensibilizzare il pubblico e molti altri colleghi sul tema della pace e dell’antimilitarismo.
A ulteriore testimonianza della potenza e dell’efficacia del gesto di Pollini, frutto di una tanto utopica quanto granitica convinzione dell’utilità sociale della musica e delle arti, prendendo posizione contro la guerra in modo chiaro e netto, possiamo richiamare il commento, dal titolo La bistecca e la politica, che Umberto Eco consegnerà al quotidiano “Il Giorno” un mese dopo gli accadimenti milanesi (e che appare, cinquant’anni dopo, decisamente attuale). Quanto successo alla Società del quartetto induce Eco a chiedersi quale possa essere il significato politico, estetico (cos’è l’arte?) e sociologico (cos’è oggi un artista?) di quell’episodio. Rispetto all’accusa di aver fatto politica in un ambiente che dovrebbe rimanerne estraneo, Eco si chiede: cosa sarebbe successo se Pollini, dopo il terremoto in Sicilia o l’alluvione del Polesine, avesse iniziato un concerto leggendo una dichiarazione di solidarietà alle vittime, magari invitando il pubblico a osservare un minuto di silenzio? Tutti si sarebbero alzati in piedi, plaudenti e commossi.
Ora è accaduto invece che Pollini abbia tentato di parlare delle vittime di feroci bombardamenti che hanno commosso gli uomini di ogni nazione. E gran parte della platea ha rifiutato questo appello. Perché? Perché ovviamente i dissenzienti discriminavano tra vittime su cui è bello e nobile commuoversi e vittime su cui commuoversi è dubbioso. Quindi chi ha fatto politica, aperta, dichiarata, brutale, è la platea che ha zittito Pollini: "essa gli ha detto taci, questi morti non sono di tutti, come i morti di un terremoto; sono solo tuoi e dei tuoi amici; ci sono morti e morti" (Eco 2024).
Sicuramente quello di Pollini è stato un gesto politico, ma l’arte (significato estetico) ha una sua connotazione politica, per quanto sia legittimo negarlo. L’arte non è altro rispetto alla realtà e, nonostante gran parte dei frequentatori della Società del Quartetto non si siano posti questo tema, è invece «logico che un artista sensibile, apprestandosi a porre le mani sul pianoforte mentre intorno a lui stanno succedendo cose laceranti per la coscienza di ogni uomo civile, si sia posto la domanda: “Ho diritto di fare quello che faccio, di usare l’arte per far finta che nulla stia succedendo, di usare l’arte come droga?”. Ed è giusto che abbia deciso di proporre al pubblico le ragioni di una inquietudine» (ibidem).
L’arte è anche questo e l’artista, pur essendo nella società contemporanea soprattutto un divo oggetto di ammirazione, imitazione e, spesso, oggetto d’interesse morboso di giornali e rotocalchi, è membro di una «élite senza potere» (1973), come l’ha definita Francesco Alberoni, che «esercita una enorme influenza pubblica, a patto che stiano assenti dalla sfera della gestione pubblica». Pollini, dunque, era anche questo: un pianista militante che, fin da giovanissimo, ha avuto le idee molto chiare sulle caratteristiche e la funzione sociale dell’artista. Fare musica aveva per lui significato, sempre, esplorare le pieghe della creazione artistica, indagandola con gli strumenti dell’analisi concettuale e un raffinato, ma non sempre compreso, sguardo poetico.
Riferimenti bibliografici
T.W. Adorno, Mahler. Una fisiognomica musicale, Einaudi, Torino 2005.
F. Alberoni, L’élite senza potere, I Satelliti Bompiani, Milano 1973.
U. Eco, La bistecca e la politica, in Il costume di casa. Evidenze e misteri dell’ideologia italiana negli anni Sessanta, La Nave di Teseo, Milano 2024.
S. Isacoff, Storia naturale del pianoforte. Lo strumento, la musica, i musicisti: da Mozart al jazz, e oltre, EDT, Torino 2012.
C. Kleiber, Vita e lettere, Il Saggiatore, Milano 2020.
G. Napolitano, Dal Pci al socialismo europeo. Un’autobiografia politica, Laterza, Roma-Bari 2008.
M. Dall’Ongaro, M. Pollini, Un sodalizio lungo una vita: Pollini e Abbado, in L. Formenton, A. Gentile, A. Morstabilini, a cura di, La cultura. Numero 1000, Il Saggiatore, Milano 2016.
Maurizio Pollini, Milano, 5 gennaio 1942 – Milano, 23 marzo 2024.