Nantes. Roland Cassard (Marc Michel), in cerca di un lavoro, fa ingresso nel Passage Pommeraye. Qualche passo e urta una giovane donna (Anouk Aimée), che cammina, tenendo per mano un bambino, in direzione opposta alla sua. “Dica, non potrebbe stare più attento?”, gli dice lei. Ma dopo un istante, chiamandolo per nome, riconosce l’uomo con cui si è scontrata. E lui riconosce lei: è Cécile, amica di infanzia del giovane, di cui lui, ragazzino, era perdutamente innamorato. Ma ora per tutti è Lola, ballerina al cabaret “Eldorado”. Ha avuto un figlio dal suo grande amore, Michel (Jacques Harden), che l’ha abbandonata. Lei lo aspetta da sette anni, convinta, del tutto inspiegabilmente, che prima o poi ritornerà. E invece ha ragione, perché alla fine del film, al termine di un intricatissimo incanto in cui si incrociano, talora ripetendosi in modo sorprendente, i destini di diversi personaggi, Michel – che è già in città, ma Lola non lo sa – tornerà da lei e la porterà via con sé, partendo assieme al loro bambino.

Nel frattempo, però, dopo il fortuito incontro appena evocato, Roland ci mette pochissimo a innamorarsi ancora di Cécile/Lola. E soprattutto, non la scorderà mai più, proprio come chiunque abbia visto almeno una volta il film. Che naturalmente è Lola, donna di vita (1961), il primo, splendido lungometraggio di Jacques Demy – film-matrice di tutto il suo cinema –, uno dei lavori più compiuti di tutta la Nouvelle Vague largamente intesa. Un’opera lieve, intensissima, sottilmente febbrile, come il suo personaggio principale, che coincide con uno dei ruoli più belli e più importanti di Anouk Aimée. Una segreta, semplice, quasi fanciullesca inquietudine segna in modo indelebile la sua interpretazione e tutto il film. E modella uno dei più vividi personaggi femminili del cinema moderno.

Qualche anno più tardi, nell’unico, sfortunato lavoro americano di Demy, L’amante perduta (1969), Aimée tornerà ancora a vestire i panni di Lola (già potentemente evocata in un celebre passaggio de Les Parapluies de Cherbourg, 1964): lo spettatore la ritroverà a Los Angeles, altera e distante, ma in realtà sperduta e più triste, più sola che in passato, senza aver perso nulla, tuttavia, della sua aerea, leggerissima grazia.

Interprete duttile e carismatica, dotata di una naturale eleganza, di una presenza scenica forte e misurata, di un fascino spesso rigato da toni malinconici, nella sua lunga e prestigiosa carriera Anouk Aimée ha lavorato con registi di grande e grandissimo rilievo e dopo la piena affermazione prima nel cinema francese, poi sulla scena internazionale, ha trovato la grande notorietà interpretando, accanto a Jean-Louis Trintignant, il ruolo di Anne Gauthier in Un uomo, una donna (1966) di Lelouch, che l’ha poi diretta in numerosi film fino all’ultimo lavoro dell’attrice, I migliori anni della nostra vita (2019), in cui per l’ultima volta, dopo Un uomo, una donna oggi (1986) e sempre al fianco di Trintignant, ha ricoperto quello stesso ruolo.

Nata nel 1932, figlia di attori – Henry Murray (Henry Dreyfus) e Geneviève Soria (Geneviève Durand), ma anche sua nonna, Madeleine Soria (Gabrielle Durand), era un’attrice –, Nicole Françoise Florence Dreyfus, è questo il suo vero nome, ha esordito giovanissima nel cinema, in Tragico incontro (1947), cupo melodramma di Henri Calef in cui interpreta Anouk, cameriera nella locanda di una piccola città mineraria, in Normandia, in cui il film è ambientato. Sarà Prévert, come noto, sul set di La Fleur de l’âge, che egli ha scritto, film maledetto, incompiuto e perduto di Carné, ispirato alla rivolta e alla fuga, nel ‘34, di giovani detenuti della colonia penitenziaria di Belle-Île-en-Mer, a volere per lei, che vi recita, il nome Aimée, accanto a quello del primo personaggio interpretato dall’attrice.

Nel 1949, con Serge Reggiani, già presente ne La Fleur de l’âge, si distingue ne Gli amanti di Verona di Cayatte, sempre scritto da Prévert, che rifigura e attualizza in modo non convenzionale, passando attraverso il pretesto del film nel film, la vicenda di Romeo e Giulietta. La critica si accorge di lei, che appare presto come una delle più promettenti interpreti francesi del secondo dopoguerra. Bazin, pur indicando i limiti del film, la elogia, in quello stesso 1949, su “Le Parisien libéré” («Anouk Aimée dà mirabilmente vita al personaggio di una moderna Giulietta che non era affatto facile da sostenere») e, sulle pagine de “L’Écran français”, poco tempo dopo, osserva: «Anouk ha la bellezza, il fascino e l’intelligenza che possono portarla lontano». L’attrice ha appena diciassette anni. Come sempre, avrebbe detto Daney, Bazin aveva ragione.

Negli anni cinquanta è dapprima Albertine, la giovane amante di Jean-Claude Pascal nel raffinatissimo, sospeso mediometraggio La tenda scarlatta (1952), di Alexandre Astruc, per il quale, più tardi, di nuovo insieme a Pascal, fornisce, in Les mauvaises rencontres (1955), primo lungometraggio dell’autore, una prova notevole, tesa e calibrata insieme, quindi accompagna altri due importanti esordi nel lungometraggio di finzione, quello di Franju, La fossa dei disperati (1959), i cui interpreti Mocky (che lo aveva sceneggiato e che avrebbe dovuto dirigerlo), Aznavour, Pierre Brasseur, lei stessa – tremano, così scrisse Godard sui “Cahiers”, più che recitare, e quello, già inclassable, anche rispetto alla Nouvelle Vague, che è ormai a un passo dalla sua consacrazione pubblica, dello stesso Mocky, Les Dragueurs (1959). Ma spicca in questo periodo anche la sua interpretazione, al fianco di Gérard Philipe, in un Becker solo apparentemente anomalo, Montparnasse (1958).

Saranno soprattutto gli anni sessanta, in cui tra l’altro lavora molto in Italia, i più prolifici e intensi della sua carriera, a rivelare compiutamente, a livello internazionale, le sue qualità di attrice moderna e raffinata, il suo fascino sofisticato, enigmatico e un poco oscuro, la sua grazia malinconica.

Per Fellini, ne La dolce vita (1960), algida, sensuale, sottilmente disperata, interpreta il ruolo della ricca Maddalena, accanto a Mastroianni, con cui torna a recitare, ancora per l’autore italiano, in un altro grande capolavoro, (1963), in cui è Luisa, la moglie del regista in crisi. Dopo i toni brillanti di Don Giovanni ‘62 (1960) di de Broca e la prova indimenticabile di Lola, prende parte al mosaico grottesco de Il giudizio universale (1961) di De Sica, quindi è diretta, tra gli altri, da Lattuada (L’imprevisto, 1961), Aldrich (1962, Sodoma e Gomorra, girato a Cinecittà), Festa Campanile e Franciosa (Le voci bianche, 1964), Vancini (Le stagioni del nostro amore, 1966).

Poi, ecco, con Lelouch, Un uomo, una donna, che le vale una nomination agli Oscar, un Golden Globe e diversi altri riconoscimenti: il film, esso stesso premiatissimo, è facile e incline alle sdolcinatezze, ma attraverso un’intesa del tutto esemplare, Aimée e Trintignant, vedovi caduti in un amore travolgente e difficile, sulle note di Francis Lai, lo servono con notevole efficacia e il pubblico, ovunque, approva. Il decennio si chiude col citato L’amante perduta, con un incerto Lumet, La virtù sdraiata (1969), in cui recita assieme a Omar Sharif, con un lavoro del tardo Cukor, Rapporto a quattro (1969), con Dirk Bogarde, nel quale è l’ammaliante e spregiudicata Justine che dà il titolo originale al film.

Per diversi anni rimane lontana dai set, ha un ruolo laterale per Lelouch in Chissà se lo farei ancora (1976), poi, per Bellocchio, affiancata da Piccoli, fornisce una delle sue prove più incisive e più importanti in Salto nel vuoto (1980), con cui ottiene il premio per la migliore interprete femminile a Cannes, mentre, nei panni di Barbara, moglie di un superlativo Tognazzi, recita in un grande film di Bertolucci, La tragedia di un uomo ridicolo (1981).

Negli anni successivi, confermandosi come una delle attrici più raffinate e sensibili del panorama internazionale, continua a lavorare con registi di grande prestigio come Skolimowski (Successo ad ogni costo, 1984), Varda (è nel gran cast cinefilo di Cento e una notte, 1995), Altman (Prêt-à-porter, 1995, in cui, ancora all’interno di un ricchissimo cast, interpreta la stilista che, per protesta, manda nude in passerella le sue modelle, alla fine del film). Ma è in particolare a Lelouch che, dalla metà degli anni sessanta in avanti, lega costantemente il suo nome. Dopo Viva la vita (1984), è ancora impeccabile in Un uomo, una donna oggi, primo sequel del grande successo di venti anni prima, che di quello è più equilibrato e asciutto, e non smette di apparire, in piccoli ruoli, nei lavori del regista, come in Uomini e donne: istruzioni per l’uso (1996) e Una per tutte (1999).

A settant’anni è Myriam, protagonista de La Petite prairie aux bouleaux (2003), esordio nel cinema di finzione di Marceline Loridan Ivens, documentarista, moglie e collaboratrice – e talora co-regista di alcuni suoi lavori della tarda maturità – di Joris Ivens, ispirato all’esperienza di sopravvissuta all’orrore dei campi nazisti della cineasta. Più tardi è l’anziana malata cui Accorsi si lega di profonda amicizia nel debole …Non ci posso credere (2011) di Claudel e, ancora con Lelouch, dopo Ces amours-là (2010), in cui ha il ruolo di Madame Blum, chiude, come detto, la sua carriera con un film sorprendente e coraggioso come I migliori anni della nostra vita, che torna a raccontare, sorretto dalla prova a tratti emozionante dell’attrice e di Trintignant, la vita dei due protagonisti, che qui si rincontrano anziani, di Un uomo, una donna.

Questo piccolo ritratto di Anouk Aimée non vorrebbe tuttavia concludersi senza tornare, tratteggiando un rapido movimento circolare, nel punto in cui era cominciato: e allora ecco che Anouk ha di nuovo ventotto anni, i boccoli scomposti sugli occhi, vestita di bianco. Certo che è Lola, ma questa volta è nella grande Cadillac di Michel che fila via da Nantes, nelle battute conclusive del film, e si volta a guardare indietro. Verso Cassard, che non la vede. Verso di noi, allora, come per salutare.

Anouk Aimée, Parigi, 27 aprile 1932 – Parigi, 18 giugno 2024.

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