Se si pone attenzione al rapporto tra arte e improvvisazione, facilmente ci si accorge di come i due termini siano abitualmente percepiti come contrapposti. L’alternativa tra arte e improvvisazione giunge al senso comune da una tradizione antica e prestigiosa che, seguendo Aristotele, intende la prima come un saper fare secondo regole precise e ragionate, la seconda come l’istintivo porre rimedio – in modo più o meno rabberciato – agli imprevisti del caso. Chi padroneggia una tecnica, notoriamente, lavora “a regola d’arte” e di certo non (si) improvvisa. L’ultimo libro di Alessandro Bertinetto, Estetica dell’improvvisazione, affronta risolutamente questo luogo comune finendo per rovesciarlo in una tesi brillante e radicale: non alternativo né opposto all’arte, il fenomeno dell’improvvisazione esibisce in maniera esemplare i caratteri di quella creatività che contraddistingue il fare artistico nel suo complesso.

L’improvvisazione diventa così paradigma per l’arte tout court. Rintracciabile nelle diverse pratiche ed espressioni artistiche – anche le più insospettabili e apparentemente pianificate – l’improvvisazione tematizza in modo trasformativo il rapporto tra regola e singolo caso d’applicazione, problematizza l’agency dell’artista, mostra l’intimo funzionamento del giudizio estetico ed esibisce l’emergenza di quell’accordo intersoggettivo che è condizione – estetica e politica – del realizzarsi di una comunità. Con le parole poste dall’autore quasi a conclusione del saggio: «L’improvvisazione presenta l’inizio dell’arte come manifestazione dell’essere umano a sé stesso, del suo (desiderio e tentativo di) accordarsi, consentendovi e corrispondendovi in modo accogliente, a sé, agli altri e all’ambiente» (Bertinetto 2021, p. 189). Ma in che modo l’improvvisazione riesce a farsi carico di questo ruolo paradigmatico nei confronti dell’estetica e del nesso tra arte e politica? Andiamo con ordine.

Nel primo capitolo Bertinetto distingue improvvisazione reattiva e improvvisazione deliberata. Ogni attività umana comporta un certo coefficiente di improvvisazione dal momento che deve fronteggiare gli inevitabili rovesci della sorte ma diverso è ciò che facciamo quando di proposito decidiamo di confrontarci con la contingenza in campo artistico attraverso l’improvvisazione. Seguendo questa distinzione, «se l’arte è, hegelianamente, una pratica mediante cui l’essere umano si rappresenta a sé stesso, il senso dell’improvvisazione artistica è quello di mettere in scena, reduplicandola performativamente, la vicenda esistenziale dell’agire umano nel suo confrontarsi con la contingenza del vivere» (ivi, p. 31). Si coglie fin dall’inizio la posta in gioco teorica, che è quella di rendere conto non solo di una pratica artistica fra le altre ma del suo valore per una filosofia generale dell’arte e, di lì, per una comprensione della forma di vita umana. Il salto di scala è ciò che conferisce al testo un carattere avventuroso e speculativo, ben al di là dello specialismo.

Ma, in primo luogo, che cosa apprezziamo nell’improvvisazione artistica? E in che modo essa si offre a noi? Nel secondo capitolo Bertinetto esplicita i termini della «grammatica della contingenza» che regge e organizza il fare improvvisativo, arrivando alla seguente formulazione:

L’estetica dell’improvvisazione artistica concerne una grammatica della contingenza concettualizzabile mediante categorie quali emergenza, presenza, curiosità e autenticità. Essa coinvolge il fruitore come elemento della sua articolazione e genera un effetto estetico analogo a quello del motto di spirito. Inoltre, per un verso, comporta il fallimento come possibilità strutturale di una pratica non garantita; per altro verso, la sua riuscita può assumere l’apparenza del fallimento (rispetto al suo essere improvvisata), allorché appare come il suo altro: un’opera(zione) premeditata. Per cogliere l’apparire estetico dell’imprevisto occorre allora assumere la prospettiva del partecipante, corrispondendovi (ivi, p. 76).

Nelle singole pratiche artistiche l’improvvisazione manifesta diversi aspetti di sé: il capitolo terzo è dedicato a una disamina del nesso tra arte e improvvisazione che interessa non soltanto gli ambiti più facilmente riconducibili al fare ex improviso ma anche quelle forme artistiche in cui organizzazione e progettazione sembrano essere indispensabili. Senza tornare ulteriormente sull’improvvisazione musicale, al centro di una precedente monografia, Bertinetto si addentra in campi diversi come la danza, il teatro, la poesia, l’installation art, il regno intermediale e digitale, sempre con ricchi e dettagliati riferimenti. Ancora, pittura, scultura, letteratura, cinema, fotografia (cui sono dedicate pagine particolarmente illuminanti), architettura, design e land art completano una sorta di “sistema delle arti improvvisative”, mostrando come la “grammatica della contingenza” non presieda soltanto al funzionamento di singole pratiche, più o meno diffuse, ma innervi in vario modo la totalità di ciò che chiamiamo “arte”. E questo perché la riflessione filosofica sull’improvvisazione artistica mette capo a una «estetica della riuscita», da intendersi come una rinnovata filosofia dell’arte.

Il quarto capitolo, il più speculativo e ambizioso, affronta alcuni nodi teorici particolarmente significativi: contro «un diffuso luogo comune [che] vuole che quella dell’improvvisazione sia un’estetica dell’imperfezione» (ivi, p. 146) Bertinetto mostra come «la perfezione e il suo contrario non sono criteri (ultimi) della riuscita artistica, perché – come esemplificato proprio dai processi improvvisativi – la norma della riuscita non precede l’opera d’arte, ma è da essa internamente realizzata» (ivi, p. 150). L’arte non è mera esecuzione di un piano predeterminato poiché la sua formatività, per usare una nota espressione di Pareyson, è un «fare che, mentre fa, inventa il modo di fare»; questa irriducibilità dell’arte a una regola prestabilita determina, in ambito estetico, il primato dell’apprezzamento e della valutazione sull’identificazione o, in altri termini, la rivincita dell’ermeneutica sull’ontologia.

Ma, radicalizzando ulteriormente, è la creatività stessa a essere intimamente legata all’improvvisazione, dal momento che «l’opera creativa ha qualcosa di sorprendente: è inattesa e imprevedibile» (ivi, p. 161). L’improvvisazione allora esibisce in maniera peculiare un tratto tipico della creatività artistica, vale a dire la capacità di dare origine al nuovo non prescindendo dalla regola – come invece vorrebbe, ingenuamente, una certa mitologia romantica – ma rinegoziandola e rimodulandola in continuazione: «L’improvvisazione è alterativa della regola, piuttosto che alternativa alla regola» (ivi, p. 168).

Il tema della «normatività performativa» tipica dell’improvvisazione conduce Bertinetto a un vertiginoso ripensamento sub specie improvisationis di uno dei temi fondativi dell’estetica: il giudizio di gusto kantiano. Alla ricerca di una norma (un concetto) non dato in partenza, il giudizio estetico è produttivo, generativo e, sempre alle prese con un’esperienza singolare, improvvisativo; inversamente, l’improvvisazione è esercizio in presa diretta del giudicare estetico: «L’improvvisazione […] produce senso (makes sense) allo stesso modo in cui il giudizio estetico inventa la normatività a partire dal singolo caso. Se l’improvvisazione è la performance del giudizio estetico, ovvero il giudizio estetico come performance, il giudizio estetico stesso funziona in modo improvvisazionale, poiché inventa in modo abduttivo la norma di valutazione del caso singolo» (ivi, p. 177).

Ecco dunque emergere dal ripensamento del giudizio estetico la tematica del con-sentire, della comunicabilità e dunque della formazione di una comunità possibile che, come abbiamo già visto, conduce a un interessante sviluppo estetico-politico. Quella suggerita da Bertinetto – né profetica né utopica – è una comunità eutopica, che intravede nella normatività sviluppata collaborativamente nell’interplay improvvisativo l’orizzonte di una felicità possibile: «L’arte è autentica e politica, se e perché riesce esteticamente producendo libertà e promuovendo, nel tempo reale del vissuto con-sentire, un accordo, attualmente fragile, incerto e contingente e idealmente sempre a venire» (ivi, p. 186).

Molti i percorsi aperti dal saggio di Bertinetto; scelgo di addentrarmi – anche solo muovendo qualche passo – nella direzione indicata dall’espressione «grammatica della contingenza». Sul filo del paradosso, essa suggerisce un’armonizzazione tra ciò che è abitualmente considerato fisso e ciò che muta, vale a dire tra regola e caso. Contro il pregiudizio che vorrebbe l’improvvisazione come una attività assolutamente immediata e spontanea, tale espressione indica un legame fondamentale con la sfera della normatività: non si dà improvvisazione se non sullo sfondo e in dialogo con un set di regole assunte come dato di partenza. Ma il dialogo improvvisativo non è per forza una garbata conversazione e soprattutto non conduce inesorabilmente a risultati ripetitivi e stereotipati (come invece riteneva Adorno, severo critico dell’improvvisazione).

Il fare improvvisativo – è questo a mio parere uno dei punti più rilevanti della riflessione di Bertinetto – consiste in una applicazione che trasforma la regola. In questo modo la riflessione su una singola pratica artistica arriva a confrontarsi con il più ampio interrogativo circa la creatività umana e, facendosi carico di una domanda filosofica di prim’ordine, prova a rispondere alla questione: come è possibile che si dia una novità? La risposta è realista, ovvero né ingenuamente ottimista né viceversa accigliatamente pessimista: il nuovo si dà nell’assunzione del vincolo di una norma che ci precede all’interno di una pratica trasformativa capace di ridefinire la norma stessa. Qui la tematica wittgensteiniana del rapporto tra regola e applicazione mostra con chiarezza tutta la sua rilevanza politica, indicando quella che Bertinetto chiama eutopia, il co-sentire solidale collaborativo tra i partecipanti all’improvvisazione, e che il filosofo austriaco indicava, con termine essenzialmente musicale, come Übereinstimmung, accordo consonante e con-senso tra i parlanti.

In definitiva, il lettore potrebbe non aver mai ascoltato una nota del Concerto di Colonia di Keith Jarrett, né avere alcuna idea della contact improvisation di Steve Paxton o dell’improv theatre contemporaneo, ma leggendo il libro di Bertinetto, oltre a farsi un’idea della pervasività dell’improvvisazione nel campo delle arti, può capire qualcosa di fondamentale a proposito dell’estetica, questa disciplina filosofica che alcuni credono si occupi dell’“ora di ricreazione” e che invece va al cuore dei problemi della nostra condizione umana.

Riferimenti bibliografici
A. Bertinetto, Eseguire l’inatteso. Ontologia della musica e improvvisazione, Il glifo, Roma 2016.
L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, Bompiani, Milano 2010, p. 59.
L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967.

Alessandro Bertinetto, Estetica dell’improvvisazione, il Mulino, Bologna 2021.

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