Al cinema «è proibito all’attore guardare in cinepresa». Così Barthes, che ingiungeva ancora che un solo sguardo dritto in camera e «tutto il film sarebbe perduto». In un passaggio incidentale di Zona. Un libro su un film su un viaggio verso una stanza, Dyer ricorda il divieto barthesiano per sottolineare come al contrario Stalker (Tarkovskij, 1979), film di cui sta per ripercorrere tutto il “viaggio”, fotogramma per fotogramma, rinunci a ogni stereotipo narrativo e stilistico, come se stesse esplorando un territorio vergine, stesse per la prima volta misurando distanze, spessori, colori, immergendosi in acquitrini e cercando varchi tra le rocce. Quel territorio è la Zona del cinema. Dyer perciò ricorda il divieto barthesiano per sottolineare che Tarkovskij contravvenendo a esso, mostrandoci lo sguardo in macchina dei suoi protagonisti, lo Stalker e lo Scrittore appena prima di inoltrarsi nella Zona, intende sottolineare come il viaggio che sta per narrare ci riguardi.

Un passo indietro. Stalker è uno dei capolavori di Tarkovskij, rielaborazione di un racconto, Picnic sul ciglio della strada (1971) dei fratelli Strugackij, di cui conserva l’ambientazione, quella post-apocalittica di un mondo degradato, la cui unica speranza è quella di superare i varchi che delimitano la Zona, in cui tutto è possibile e al cui interno si trova la Stanza dei Desideri. Chi varca quella porta, vedrà realizzato il suo desiderio più intimo, sconosciuto anche a se stesso. Tarkovskij trasforma il protagonista del racconto, lo Stalker appunto, un contrabbandiere che accompagna curiosi e disperati all’interno di quello spazio vietato, in una sorta di idiota di stampo dostoevskiano. Difatti la riduzione dell’Idiota era il progetto che il regista dovette abbandonare, prima di dedicarsi a quest’opera di science-fiction. Lo Stalker accompagnerà all’interno della Zona due personaggi, da lui stesso nominati, di fronte al tavolino di un bar sperduto in qualche angolo remoto del mondo, come lo Scrittore e il Professore. Tre possibili modi di superare lo spazio proibito: religioso apocalittico, umanistico estetizzante, tecno-scientifico. Nessuno dei tre avrà il coraggio di entrare, probabilmente timorosi di quale desiderio possa emergere.

Al ritorno a casa, in un’ultima enigmatica scena, la figlia mutante dello Stalker, priva di gambe e braccia, muoverà con la forza del pensiero dei bicchieri sul tavolo, secondo una scansione di stampo cristologico (un bicchiere che cade, un secondo colmo di vino, il terzo con una piuma e un tuorlo d’uovo, come segni di una speranza di redenzione apocalittica), mostrando così l’onnipervasività della Zona e come questa sia pronta a lasciar attraversare la Stanza agli ultimi. Innumerevoli le interpretazioni di questo mistero tarkovskiano: la Zona è il comunismo, la Zona è la profezia di Chernobyl e del rischio nucleare, la Zona è il luogo divino dell’assolutamente possibile. La Zona è il cinema. Come numerose le fascinazioni che, un film così immerso nella cultura russa e sovietica, ha prodotto nell’immaginario occidentale, dalle composizioni di Luigi Nono (No hay caminos, hay que caminar…Andreij Tarkowskij, 1987) a un libro fotografico di David Bate (Zone Book) fino addirittura a un videogame (Stalker. Shadow of Chernobil), forse proprio per la sua totale alterità rispetto alla strada che invece quell’immaginario andava prendendo, a partire dal coevo Star Wars.

Quello che ho appena fatto è proprio ciò che Dyer stigmatizza, quando descrive la sua reazione a chi prova a riassumergli un film per invogliarlo a vederlo: non andare più in sala. È apparentemente quello che anche lui ha fatto in forma parossistica, accompagnandoci nella sua visione del film per quasi 200 pagine. Anche qui però un’apparente divagazione ci spiega la logica di questa scrittura ossessiva. Paragonandolo ad Antonioni, la cui visione de L’avventura (1960) ricorda come tra le sue peggiori come spettatore, Dyer ci spiega che Tarkovskij ne radicalizza l’uso del tempo senza azione: «Se la lunghezza normale di una ripresa viene aumentata, lo spettatore si annoia, ma se la allunghi ancora di più viene fuori una qualità nuova, una particolare intensità di attenzione».Questa attenzione è quella che cerca Dyer in un esercizio di ekphrasis che, frammista a spunti autobiografici e note di carattere saggistico, ci conduce di fronte alla domanda: che cosa significa guardare? E ancora di più: come parlare di un film che sta raccontando il nostro stesso guardare? Perché il dispositivo messo in atto da Tarkovskij a questo ci conduce: ognuno proietterà in quella Zona il proprio desiderio/il proprio incubo più nascosto, proprio guardando a quel mondo degradato, ridotto a un ammasso di tubi e di carcasse di macchine abbandonate, ridotto a larva, risucchiato da una Natura colta nel suo stato sorgivo.

Come ogni ekphrasis, Zona ci conduce di fronte al paradosso centrale di ogni tentativo di traduzione verbale dello sguardo, in quanto è ineliminabile la tensione tra il logos che vuole ridurre alle sue forme e ai suoi schemi e il corpo dell’immagine. Ma questo è il lavoro dello spettatore, e di quella particolare categoria di spettatore che è il critico. Allora attraverso quelle apparenti divagazioni, in cui il tono lieve e filtrato da una sottile ironia sembra confliggere con lo sguardo metafisico tarkovskiano, Dyer esibisce il doppio lavoro di proiezione, quello dell’autore e quello dello spettatore, che tanto più nitidamente emerge in Stalker, proprio perché l’azione predispone invece all’osservazione fenomenologica di uno spazio da esplorare, in cui tutto è sempre sul punto di accadere e in cui tutto muta impercettibilmente davanti ai nostri occhi.

In quel tempo dilatato, in quell’attenzione, siamo costretti a vagare e a ripercorrere con gli occhi gli stessi frammenti di spazio, a cercare barlumi di senso in un rumore di treno o in una lampadina che si fulmina improvvisamente, siamo costretti a slegare lo sguardo dal movimento dell’azione e a impegnarci nell’osservazione della cosa stessa. Facendo questo, emerge quell’inconscio ottico, quell’impasto di credenze, conoscenze e idiosincrasie, di orientamenti culturali e religiosi, di ricordi e di desideri, che orientano la nostra osservazione, che a sua volta si sovrappone a quella dell’autore, provando a proseguirne la visione e al contempo distorcendola, anche quando cerca di mettersi in ascolto fedele.

E allora quel confliggere tra il tono metafisico di Tarkovskij e la levità di Dyer è quanto mai invece opportuna, perché ci costringe a farci carico di una fusione di orizzonti, che è sempre anche un dissidio, un agone. L’autore d’altro canto, anche quando corrisponde a una figura rigorosa come quella di Tarkovskij, è un nome proprio dietro il quale intravedere un complesso lavoro di negoziazioni, compromessi, forzature. Come quello che costringe Tarkovskij a un’improbabile presentazione all’inizio del film, in cui il testo di un notiziario televisivo avrebbe dovuto, secondo la Mosfil’m, impedire che lo spettatore potesse collegare la Zona all’Unione Sovietica, riferendosi a un piccolo paese e a un tempo indeterminato nel quale tutto ciò sarebbe accaduto.

Nel raccontare il suo lavoro di spettatore, che dovrebbe nei prossimi anni muoversi verso altri due film, Senza un attimo di tregua (1967) di Boorman e Dove osano le acquile (1968) di Hutton, Dyer ripercorre però anche una stagione, quella di se stesso poco più che adolescente, che sul finire del secolo scorso viveva la fase probabilmente terminale dello spettatore-cinefilo, dello spettatore che cercava nel tempo del cinema non tanto il divertimento, ma piuttosto il rito: cercava un’esperienza immersiva, fondata su quell’attenzione prolungata, in cui la comprensione del mondo fuori dalla sala passava attraverso la chiusura a qualsiasi stimolo che non fosse quello proveniente dal rito stesso a cui si stava partecipando, e proprio attraverso tale chiusura era in grado di far emergere l’invisibile che attorniava la nostra esperienza quotidiana. L’invisibile non in quanto apparteneva a un mondo “altro”, ma in quanto era ciò che di questo mondo ordinario, fatto di lampadine fulminate e di rumore di treni e di bar sperduti e di carcasse di carri armati, non riuscivamo ancora a vedere. Siamo ancora capaci di entrare in quella sala? Siamo ancora capaci di entrare nella Zona?

Riferimenti bibliografici
D. Bate, The Zone Book, Artword Press, London 2012.
G. Dyer, Zona. Un libro su un film su un viaggio verso una stanza, Il Saggiatore, Milano 2018.

Share