Ludwig Wittgenstein, nella prefazione alle Ricerche filosofiche, definisce quelle raccolte nel testo una serie di “osservazioni filosofiche”, nei termini di pensieri impossibili da «costringere […] in una direzione». Se la «natura stessa della ricerca […] ci costringe a percorrere una vasta regione di pensiero in lungo e in largo e in tutte le direzioni» (Wittgenstein 2014, p. 3), allora il testo prenderà la forma di un vero e proprio “album” che tiene insieme – in maniera precaria, rapsodica, eppure in qualche modo coerente – osservazioni che sono quasi dipinti, fotografie, disegni,«riordinate e spesso tagliate» (ivi, p. 4).

Imparare a guardare. Dispacci dal mondo dell’arte sembra, in questo senso, precisamente un album: una raccolta di saggi che – come dei dispacci, appunto – si susseguono quasi “a staffetta”. Proprio perché vige questo ordine a carattere multidirezionale, è difficile trovare una leva con la quale analizzare il testo in maniera sistematica. L’autore è un vero e proprio informatore – uno scrittore di dispacci – a beneficio del lettore; un informatore che è, in primo luogo, lui stesso spettatore, fruitore, soggetto dell’esperienza concreta che si fa nei musei, nelle gallerie, nei cinema, a teatro o in una sala da concerto. Quello di “imparare a guardare” non è tanto un monito didascalico (nonostante, come scrive lo stesso Noë, l’arte proponga sempre un compito – che è riorganizzazione e ricapitolazione, un invito a “rifare noi stessi”), quanto un esercizio.

Un tentativo, dunque, quello intrapreso nella scrittura di questo libro; un’operazione che implica necessariamente schizzi, scarti, progressioni e arretramenti. Nonostante la struttura del testo sia basata su tentativi abbozzati, il filo rosso è dichiarato esplicitamente – l’arte. Intesa in senso ampio, a volte disorientante, come sempre con Noë – «Poiché ciò che ci piace non è limitato all’arte, l’implicazione è chiara, anche se di solito non viene notata: non possiamo tracciare una linea di demarcazione significativa tra ciò che è e ciò che non è arte» (Noë 2023, p. 107). Non sembra esserci una gerarchia tra i saggi incentrati su Andy Warhol e Janet Cardiff, Jeff Koons e Rembrandt, e quelli dedicati a Top Gun (“Guarda di nuovo Top Gun. Ti lascerà senza fiato!” raccomanda l’autore, come se sapesse che all’interno di un libro sull’arte un piccolo saggio su questo film potrebbe insospettire il lettore), Inside Out, David Bowie, Bob Dylan, Beyoncé. Dal potere della performance alla valenza dei film in 3D, dai temi del falso, del plagio e del monumento a quello del significato della musica: si tratta di saggi brevi, che hanno il carattere di bozzetti, segnalazioni e suggerimenti, più che di trattazioni dettagliate. Eppure, indicazioni teoriche sono presenti, disseminate – quasi nascoste – all’interno del testo; persino il saggio che si snoda a partire dalla domanda curiosa «perché si tossisce così tanto durante gli spettacoli dal vivo?» (ivi, p. 97) si pone come obiettivo quello di chiarire il ruolo del pubblico nella struttura della performance dal vivo.

In questo senso, la critica d’arte sembra ricoprire un ruolo fondamentale: «La critica non è tanto un’arte che si occupa di differenziare quanto piuttosto una disciplina per restituire ciò che si vede; è una pratica per renderlo intelligibile a se stessi e agli altri» (ivi, p. 110). Ancora una volta un rimando a temi wittgensteiniani: anche secondo Wittgenstein, infatti, la figura del critico non avrebbe contorni precisi o istituzionali, ma ha il compito di indirizzare l’attenzione, far emergere somiglianze e differenze tra opera e opera, all’interno di «una famiglia di casi estremamente complicata, con punti culminanti – l’espressione di ammirazione, un sorriso o un gesto, ecc». (Wittgenstein 2012, p. 65). Gli “aggettivi estetici” contano ben poco nella formulazione di un giudizio; eppure, Noë costella il suo libro di affermazioni come “è straziante”, “è meraviglioso”, “coinvolgente”, consigliando, indirizzando lo sguardo del lettore, senza ricoprire il ruolo di un vero e proprio critico ma in qualche modo rimanendo sempre e comunque spettatore. Infatti: «I pezzi qui raccolti sono esercizi per dare all’arte, e a me stesso, il tempo di lasciare che qualcosa accada; provo a fare il mio lavoro in modo che l’arte possa fare il suo» (Noë 2023, p. 12).

Proprio nel corso di questo lavoro, l’autore non si sottrae mai dalla formulazione di un giudizio vero e proprio: “Non ci limitiamo a rispondere all’arte, ma la giudichiamo”, evidenziandone così il carattere densamente “valutativo”» (ivi, p. 136). L’esperienza estetica, proprio per questo, è «critica – ovvero si articola in uno spazio di pensiero e di conversazione, uno spazio dei giudizi […]. Trovare le parole per articolare una risposta estetica […] non è qualcosa che tipicamente facciamo da soli, individualmente, come semplice risposta personale ad un’opera d’arte pensata così come una sorta di stimolo atomizzato» (ivi, p. 173). La visione dell’arte nei termini di un trigger – tipica dell’approccio di certa neuroestetica – non può essere accolta da Noë: l’esperienza estetica non è “un dato fisso”, poiché ad essere in questione sono «le persone, non i cervelli» (ivi, p. 174). Tanto più che anche l’opera d’arte stessa ricalcherebbe, secondo l’autore, il modello della conversazione: «Al posto del modello della reliquia, propongo quello che potremmo definire il modello della conversazione. Secondo questo modello le opere d’arte sono gesti, o frasi, o mosse in un dialogo o in una conversazione in corso. Il valore di un’opera consiste quindi nell’originalità del suo contributo a questo scambio continuo» (ivi, p. 116). La neuroestetica, dunque, viene tenuta in considerazione solo in quanto pratica che mira (o può mirare) a un «tipo specifico di comprensione», nei termini di un «progetto di guardare all’arte al fine di ottenere una migliore comprensione di ciò che significa essere umani» (ivi, p. 173).

I saggi che compongono Imparare a guardare sono stati scritti, in molti casi, parallelamente alla stesura di Strani strumenti. L’arte e la natura umana, testo più unitario e di impronta più marcatamente concettuale; i temi principali, comunque, rimangono, a partire dal concetto di attività organizzate. Nel testo del 2015, infatti, l’autore sosteneva che, in quanto esseri organizzati, le attività che hanno natura abituale sono quelle che di fatto “ci organizzano”. Non ci rendiamo conto, in larga parte, dell’assorbimento e dell’immersione in tali attività; il ruolo dell’arte è precisamente quello di farcene accorgere. Un guardare, quello della fruizione artistica, che è in qualche modo riflessivo – che guarda a come si guarda. Proprio in questo senso le opere d’arte – comunque le si voglia intendere – non sembrano seguire le regole che strutturano l’esperienza che solitamente facciamo del mondo. L’arte e l’esperienza che ne facciamo, secondo Noë, si articolano secondo delle dinamiche che non prevedono l’applicazione in senso pragmatico e l’agire in senso stretto.

In questo senso, il tema della noia è centrale: in Strani strumenti, ma ancor di più in Imparare a guardare. Pare esserci un passaggio significativo tra i due testi proprio su questo punto:

La noia dell’arte, come quella della filosofia, è una noia preziosa. Questa stessa noia è un aspetto del lavoro dell’arte, il suo potere di sconvolgere e, sconvolgendo, di rivelarci a noi stessi.
Ho detto che l’opera d’arte ti sfida a percepirla o a metterla a fuoco. L’opera d’arte, come ho scritto nel mio libro Strani strumenti, dice “Guardami, se ci riesci! Ti sfido!”.
Ma le opere d’arte non si presentano solo come oscure e fuori fuoco. Credo che siano anche obbligate […] a fornirci le risorse necessarie per dare loro un senso. Le opere d’arte, quindi, sono opportunità concettualmente garantite per passare dal non vedere al vedere, o dal non capire al capire (Noë 2023, p. 102).

Una garanzia concettuale del tutto ambivalente, in quanto obbliga il fruitore ad uscire da una comfort zone. Se la vita adulta viene vissuta, infatti, inevitabilmente “in base al progetto” – ovvero secondo attività organizzate «che abbracciano archi di tempo, con inizi, fasi intermedie e finali, che strutturano le nostre vite e ci proiettano in una curva che si innalza al di sopra dell’asse del tempo lineare» (ivi, p. 100) – è senz’altro difficile provare l’esperienza di vera e propria noia. L’unico margine davvero disponibile sarebbe proprio quello offerto dall’esperienza artistica, perché «l’arte […] interrompe l’arco o disturba. Ci svela a noi stessi. Ci costringe a riconoscere tutto quello che diamo per scontato […]. L’arte ostacola forse solo momentaneamente, il dispiegarsi prevedibile che garantisce l’intelligibilità» (ivi, p. 101).  

Riferimenti bibliografici
A. Noë, Strani strumenti. L’arte e la natura umana, Giulio Einaudi Editore, Torino 2022.
L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Giulio Einaudi Editore, Torino 2014.
Id., Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Adelphi, Milano 2012.

Alva Noë, Imparare a guardare. Dispacci del mondo dell’arte, Postmedia Books, Milano 2023.

Tags     Alva Noë, arte, estetica
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