Immagini in bianco e nero leggermente sfocate ci mostrano una folla di donne, con abiti lunghi e larghi cappelli, che si affrettano ad uscire da un grande cancello e da una porta laterale, dirigendosi fuori campo; sullo sfondo una struttura in ferro, il tetto di un capannone industriale. In altre immagini in bianco e nero, questa volta più nitido e contrastato, un uomo dal viso buffo e dall’espressione spiritata è intento nel lavoro ripetitivo di stringere bulloni a una catena di montaggio: ogni sosta dovuta ai più semplici e umani imprevisti, un prurito, una mosca insistente, produce piccoli disastri e interruzioni del lavoro, fino a che l’uomo non viene letteralmente inghiottito dagli ingranaggi, per poi riemergere senza mai deflettere dal suo automatismo. Si tratta di due tra i film più celebri della storia del cinema: La sortie de l’usine Lumière, primo film realizzato dai fratelli Auguste e Louis Lumière – proiettato per la prima volta il 22 marzo 1985 durante un incontro della Société d’Encouragement pour l’Industrie Nationale a Parigi, e in seguito riproposto in una proiezione pubblica al Grand Café – e di Tempi moderni, capolavoro di Charlie Chaplin del 1936, il cui titolo di apertura recitava: Modern times: a story of industry.
L’immagine della fabbrica e le vicende dei lavoratori sono temi ricorrenti nella storia del cinema, arte del Novecento essa stessa costituita da una “macchina industriale” che il teorico Christian Metz giustamente indicava, accanto a quella spettatoriale e a quella discorsiva, come elemento costitutivo del mezzo cinematografico. E molti altri film che affrontano il tema della fabbrica e del lavoro si potrebbero citare oltre a quelli che abbiamo descritto, fino ad arrivare, per esempio, alle recenti filmografie di Ken Loach o dei fratelli Dardenne. Il libro di Karen Pinkus A fine turno. Lavoro, macchine e vita nel cinema degli anni Sessanta in Italia parte dall’assunto dello strettissimo legame tra questi temi e il cinema, ma sceglie di non mettere al centro della sua osservazione un film sul lavoro o sulla fabbrica particolarmente noto (di cui la cinematografia italiana certamente non è priva, uno tra tutti: La classe operaia va in paradiso di Elio Petri, del 1971). Ad aprire ogni capitolo del libro e a dare inizio alle varie linee di riflessione che si intersecano nel testo è invece ogni volta una diversa scena tratta dall’episodio di Boccaccio ‘70 girato da Mario Monicelli, dal titolo Renzo e Luciana. Anche il periodo scelto come focus del libro non è d’altronde quello che ci si aspetterebbe, non si parla infatti del dopoguerra, né dei cosiddetti anni di piombo, ma del “momento interstiziale”, come lo definisce la stessa autrice, del boom economico.
Queste scelte ci dicono già molto sul libro di Pinkus, che utilizza un metodo che potremmo accostare al “divenire-minore” deleuziano-guattariano: andare a cercare nuove possibilità per l’immaginazione nello stile più piano, negli intervalli, nei momenti più ordinari della trama, nelle casualità del montaggio e della ripresa, al di là di ogni magniloquenza dello stile. Come afferma la stessa autrice: «Non ci sarebbe nulla in Renzo e Luciana che meriti la microscopica attenzione che gli ho concesso: eppure, proprio per questo – per la sua modestia e ordinarietà – potrebbe avere qualcosa da insegnarci» (Pinkus 2020, p. 8). Quello che ho definito uno sguardo minore rende possibile approdare a conclusioni non stereotipate, che non obbediscono per esempio al riflesso condizionato e radicatissimo di contrapporre alla macchina una presunta essenza umana. Pinkus accentua invece i momenti di rottura, tutto ciò che fa problema e che può sollevare dubbi e suscitare risposte critiche: «Se guardiamo abbastanza attentamente, possiamo trovare rotture, momenti in cui le “macchine” (cinema, produzione, società, narrazione) semplicemente non hanno senso, oppure si rompono» (ivi, p. 9).
L’osservazione e l’enfasi sui momenti di interruzione e di rottura, riferita al film preso in esame ma anche alla produzione, alla società intera, si pone allora come il nodo politico al fondo del libro: ritrovare nel rapporto tra macchine e vita un potenziale per un’azione comune. In questo senso il tema del general intellect, della intelligenza collettiva dei lavoratori, viene pensato a partire dal periodo del boom, dal fordismo, per essere però ampliato fino alla nostra contemporaneità tecnologica. Queste sono infatti le ultime parole del testo, che tengono insieme l’adesione a un punto di vista e a uno stile eccentrico e la possibilità di resistenza: «Renzo e Luciana e gli altri film discussi di certo aprono, in modi inaspettati, a possibili linee di resistenza, se li vediamo con un occhio alle fratture, alle volte microscopiche, e con poche eccezioni, verosimilmente inconsce o non intenzionali. Un ragionamento del genere è sottile, sicuramente poi un po’ eccentrico e forse nevrotico, e per questo degno della nostra considerazione» (ivi, p. 138).
Occorre sottolineare però che l’aspetto politico emerge in questo libro sempre attraverso un lavoro sull’aspetto estetico, allo stesso modo in cui la commedia italiana degli anni del boom lasciava affiorare la critica sociale attraverso la brillantezza della superficie, brillantezza ed elemento di piacere che Pinkus invita a non dimenticare. Per questo motivo, è facile comprendere perché la figura di Adriano Olivetti, tra design e ricerca sociale, estetica e innovazione tecnologica, sia così importante e ricorrente in questo testo, tanto che l’autrice confessa che l’idea iniziale era quella di un lavoro interamente dedicato alla sua impresa. Il mondo Olivetti infatti continua a proporsi come esperimento che «apre a possibili traiettorie e modelli di organizzazione sociale o industriale, in un momento in cui era ancora possibile immaginare altri esiti nella relazione tra vita, tecnologia e capitale» (ivi, p. 15).
Dedicato al “laboratorio Olivetti” è anche il volume dal titolo Umanesimo e tecnologia, a cura di Daniele Balicco per la collana L’ospite ingrato del Centro di ricerca Franco Fortini, diverso come progetto e come stile dal libro di Pinkus, ma in fondo vicino per quel che riguarda gli intenti. Non è un caso infatti che, al di là delle possibili critiche, l’esperienza Olivetti sia oggi tanto ripresa e studiata, dato che la domanda sulla possibilità di uno sviluppo più democratico e sostenibile è ancora disattesa e sempre più urgente, come sottolinea giustamente il curatore. Anche questo testo evidenzia l’eccezionalità dell’impresa di Olivetti, tra innovazione e tecnologia, avendo come sfondo continuo il pensiero sulla contemporaneità. Nell’introduzione vengono per esempio rimarcate le differenze rispetto a un’azienda come la Apple, e la questione della vita dei lavoratori diviene immediatamente il centro della riflessione:
Se all’Olivetti l’attenzione alla forma sensibile dei prodotti è solo l’ultimo momento di un processo di progettazione più ampio, che coinvolge la vita dei lavoratori stessi e il territorio in cui abitano, nel caso della Apple, l’uso dell’estetica assomiglia piuttosto ad un’inquietante formazione di compromesso, dove la bellezza delle macchine tecnologiche, proprio come il canto delle sirene nell’Odissea, dissimula la violenza del processo produttivo (Balicco 2021, p. 11).
L’intreccio di politica ed estetica, una estetica che non vuole dissimulare la violenza né disinnescare la reazione, in cui la forma è «dimensione strumentale ma soprattutto simbolica, attraverso cui si esprime una concezione del mondo fondata sulle relazioni, rispettosa dei limiti e capace di tatto» (Carnevali 2021, p. 19), si dipana in questo volume attraversando tre sezioni. Nella prima sono raccolti saggi che seguono differenti direzioni del laboratorio Olivetti, nella seconda parte il focus viene posto sulla attività di Franco Fortini, nella terza vengono proposti importanti materiali d’archivio, lettere, poesie, testi inediti.
È nella seconda sezione, dedicata alla lunga esperienza lavorativa e culturale di Fortini presso la Olivetti, che, ulteriore risonanza con il libro di Pinkus, ritorna anche il tema del mezzo cinematografico (nel testo di Giuseppe Alessi). Fortini infatti, oltre alla sua attività di copywriter e alla sua generale partecipazione al progetto culturale e allo stile Olivetti, scrive testi per il cinema d’impresa. «Poeta tra le macchine», come lo descrive Giovanni Giudici in uno degli articoli raccolti nel volume, Fortini riannoda il legame tra cinema e lavoro nella scrittura di film come Incontro con Olivetti (Ferroni, 1950), in cui si affronta il tema della fabbrica connesso a quello dell’abitare e del territorio; oppure come Le regole del gioco (Magrì, 1968) dedicato al rapporto tra la vita umana e le macchine, elaboratori che «masticano le loro cifre oggi ma pensano solo al domani, quando il loro ordine ci farà liberi per un felice disordine» (Balicco 2021, p. 86). Il tema della libertà ritorna in una delle lettere di Fortini raccolte nell’ultima sezione, quando, inviando a Olivetti convalescente un uccello in gabbia come regalo, lo invita a liberarlo subito se ne ha voglia, visto che «è piacere tanto raro, al giorno d’oggi, concedere una libertà» (ivi, p. 243).
Karen Pinkus, A fine turno. Lavoro, macchine e vita nel cinema degli anni Sessanta in Italia, Ombre Corte, Milano 2020.
Daniele Balicco, a cura di, Umanesimo e tecnologia. Il laboratorio Olivetti, Quodlibet, Macerata 2021.