“Abbiamo fatto delle foto, dovresti vederle!”. Così scriveva ai suoi familiari la militare statunitense Sabrina Harman dal carcere di Abu Ghraib, in Iraq, durante la guerra del 2003. Le immagini in questione, citate spensieratamente da Harman e diffuse nel mondo con grande scandalo nel 2004, mostravano soldati e soldatesse nell’atto di farsi fotografare sorridenti accanto a cadaveri e a prigionieri iracheni torturati, con i quali venivano allestite agghiaccianti messe in scena. Al di là della naturale condanna etica di fronte ai fatti e alle immagini di quei fatti, il volume di Pierandrea Amato In posa, uscito nel 2014 (Cronopio, Napoli), tentava una riflessione sulla forma di quelle fotografie, sul media utilizzato. Nel libro L’immagine carnefice, a cura dello stesso Amato, studiose e studiosi di differente estrazione ripartono da quel testo e da quelle immagini per indagarne lo statuto nell’economia delle guerre e della politica contemporanea. Il testo segue vari sviluppi teorici, anche molto differenti tra loro, mantenendo allo stesso tempo una forte unitarietà, offerta dal punto di partenza comune, un materiale fotografico davvero scottante ed inquietante. Che non smette di interrogarci.
In primo luogo, tutti i saggi del volume insistono sulla performatività di quelle fotografie. La crudeltà non è solo nella tortura precedentemente avvenuta, ma nel fatto stesso della foto, tanto è vero che siamo presi dall’orrore di fronte ai volti sorridenti dei carnefici, alla ostentazione del loro compiacimento, quasi più che dai corpi esangui o torturati.
Da qui il titolo particolarmente efficace e radicale: è l’immagine stessa ad essere carnefice. A titolo di esempio, questa affermazione di Matilde Orlando: «Non si tratta di concepir[e tali immagini] come testimonianza di qualcosa, ma come evento mediale che non rimanda ad altro che a se stesso: evento dotato di conseguenze proprie. Si tratta di un evento performativo che ha in se stesso la propria causa, la propria origine e la propria referenza. Pura performance» (p. 21). Ancora più tranchant il finale dell’articolo di Gaetano Princiotta Cariddi: «La pratica nuova che queste foto ci consegnano è la trasformazione dello strumento di tortura, che dai ferri roventi diventa la fotografia stessa» (p. 59). Un punto teorico cruciale del libro è che molte delle analisi collegano strettamente la performatività delle fotografie alla loro natura digitale. L’immagine di un’azione sostituirebbe l’azione poiché con le nuove tecnologie digitali in ogni momento della mia vita posso immortalare ciò che sto vivendo (ed eventualmente condividerlo su un social network), invece di viverlo e basta. Per esempio, il contributo di Beatrice Latella, utilizzando Debord e la sua affermazione secondo cui lo spettacolo uccide la vita, insiste sul fatto che la differenza tra immaginario e reale è azzerata dalla istantanea digitale, dato che la pratica si può diffondere molto più ampiamente. Così anche Marco Letizia: «Con il digitale lo scarto tra lo scatto della fotografia e la sua diffusione si è radicalmente assottigliato […] La realtà sembra confondersi, senza residuo alcuno, con la sua rappresentazione» (p. 84).
Pur nel riconoscimento dei cambiamenti avvenuti nel passaggio dall’analogico al digitale (brevemente: aumento del numero di foto memorizzabili, abbassamento dei costi, istantaneità dello scatto e della visione, potenziale infinità della diffusione), la prima domanda che credo occorra porsi riguarda la presenza di una discontinuità così netta, una rottura così forte, relativa alla natura dell’immagine. Mi sembra che da un punto di vista non sociologico o mediologico, ma ontologico, filosofico, cioè della natura della foto, la capacità di catturare lo spettatore, di essere attiva, performante, sia presente in diversi gradi in tutte le immagini “riuscite”.
Amato, nell’appendice al volume, ammette in modo convincente elementi tanto di continuità quanto di rottura, per assumere però come punto di partenza la discontinuità. Tuttavia, anche Roland Barthes, autore citato come caposaldo del discorso sulla fotografia analogica che insiste sulla realtà del referente, quando parla di punctum – quel dettaglio contingente e inevitabile che dalla foto ci punge, ci ferisce – parla in fondo di una “performatività” dell’immagine fotografica, al di là del suo essere testimonianza, informazione (studium). Questa stessa visione mi sembra sia contenuta nella prima tesi sul digitale proposta dal curatore, un digitale che viene pensato quasi come destino dell’evento fotografico, «esecuzione ontologica del medium fotografico» (p. 196), come anche, in fondo, nella seconda tesi, che conclude ipotizzando l’estinzione della fotografia. Abbandonando la questione, certamente sostanziale, della forma fotografica, il libro risulta sollecitante anche per quel che riguarda il tema più generale dell’aggressività, su cui vorrei soffermarmi.
Il contributo di Fabio Domenico Palumbo si occupa del nesso tra perversione e immagine presente nelle foto di Abu Ghraib con strumenti teorici psicoanalitici, in particolare lacaniani. La volontà di annientare l’altro, la generale aggressività dell’umano, viene spiegata con la teoria dello stadio dello specchio, quella fase dell’infanzia in cui i bambini imparano a riconoscere la propria immagine in una superficie riflettente. Insieme al rallegramento che accompagna quella che in fondo è la nascita della propria soggettività, subentra tuttavia la frustrazione, poiché ciò che si vede nello specchio è separato, scisso dall’io reale, ed appare più padrone di sé e più coeso. Insieme alla comparsa dell’Io ideale si instaura secondo Lacan uno scarto che non sarà mai colmato, alla base delle insicurezze, dell’invidia, dell’aggressività per tutte le figure che nel corso della vita appariranno per qualche tratto vicine a me, ma al tempo stesso più sicure e complete.
Cos’è allora a scatenare l’aggressività nei confronti invece di chi è più debole, addirittura contro chi è alla totale mercé di qualcun altro, orrore che le foto di cui parliamo non smettono di testimoniare? Le teorie psicoanalitiche che se ne occupano non sono poche, a cominciare da Melanie Klein (in Invidia e gratitudine). Seguendo la teoria lacaniana, dal momento fondativo dello specchio deriverebbe anche l’aggressività, l’odio per chi mi riporta alla mente la mia mancanza e la mia insicurezza. Questo chiarirebbe un aspetto dell’esperienza umana apparentemente inspiegabile e particolarmente angosciante. Ho trovato evocata tale possibilità soltanto di passaggio in Totem e tabù, testo nel quale Freud collega le usanze delle tribù primitive a quelle dei nevrotici, sottolineando come ciò che è proibito – tabù, ovvero sacro e impuro nello stesso tempo – sia l’oggetto del desiderio originario. Nel brano richiamato, l’invidia è in primo luogo quella destata da chi ha trasgredito il divieto, e diviene egli stesso tabù per gli altri membri del clan totemico. Tale individuo va evitato in quanto risveglia una tentazione, un conflitto in chi gli sta vicino, che si chiede perché a lui dovrebbe essere permesso ciò che ad altri è vietato. Subito dopo però Freud evidenzia come possa eccitare le voglie proibite altrui, destando invidia, anche chi non ha trasgredito alla proibizione, ma si trovi in una “condizione eccezionale”: le posizioni di re, sacerdoti, neonati, ma anche le condizioni delle donne con mestruazioni, della pubertà, della nascita, della malattia e della morte sono di questo tipo e hanno questa forza pericolosa.
Se i re, i capi, i sacerdoti sollecitano prevedibilmente l’invidia per i loro privilegi, la rivalità aggressiva nei confronti di defunti, neonati, donne “in condizioni di sofferenza”, indicata da Freud come invidia per la “loro particolare impotenza”, resta sicuramente più difficile da spiegare. Riprendendo Lacan, si possono forse proporre varie spiegazioni: l’invidia che a volte scatena chi è debole è al confine con l’odio puro per chi ci ricorda la nostra impotenza originaria, sottotraccia ma sempre operante; ma forse si invidia anche chi, essendo definitivamente e fortemente impossibilitato a reggere il gioco della concorrenza con l’Io ideale, a causa della sua impotenza straordinaria, si sottrae finalmente alle regole, allo sguardo dell’Altro, alla rincorsa nei confronti della pienezza del proprio Io ideale. O ancora, è la posizione stessa del debole, della vittima, a produrre i carnefici, scatenando una dinamica in cui l’altro viene sollecitato nella sua aggressività anche dai suoi stessi sensi di colpa. Centrato sul tema della vittima, il saggio di Eleonora Corace prende le mosse dalla foto in cui la soldatessa Lynndie England tiene al guinzaglio un prigioniero iracheno nudo, per poi allargarsi a riflettere in modo più esteso sul “paradigma vittimario”. La necessità di annichilimento e di animalizzazione dell’altro (di cui del resto sono possibili vari esempi nel corso della storia) è un altro modo, più raffinato ma complementare all’esercizio della violenza pura, di controllare e addomesticare l’alterità, di gestirla. Ridurre l’altro a mera vittima, anche al di fuori dell’orrore di Abu Ghraib, anche compassionevolmente – come facciamo forse anche noi guardando le foto in questione, come per lo più ha fatto nel 2004 l’opinione pubblica –, diviene allora una maniera differente di protrarre la sua sottomissione, di non accettare la sua esistenza, di spostare la risposta da un piano politico a un piano sentimentale e intimistico.
A questo proposito, vorrei concludere evidenziando una ulteriore provocazione che dalle immagini della prigione irachena arriva a interpellarci sulle figure femminili. Nell’attuale dibattito pubblico le donne sono ridotte sempre più spesso al ruolo di vittime, a partire dai torbidi resoconti televisivi e giornalistici su persecuzioni e femminicidi, fino a questioni che riguardano la gestione del loro corpo, per esempio, recentemente, sul tema della gestazione per altri. Sembra che, per essere considerate interlocutrici politiche, sia necessario collocare le donne in un ruolo predeterminato, e dunque rassicurante, quello di vittime, che possa così giustificare risposte di ordine pubblico invece che politiche e culturali. Piuttosto che riconoscere la potenza, l’autonomia del femminile (che spesso è all’origine della aggressività invidiosa, per esempio in coppia, in famiglia), si preferisce prendere retoricamente le parti delle donne dopo averle descritte come bisognose di protezione, ciò che rende così auspicabile soluzioni securitarie. Le foto di Abu Ghraib destano allora un ulteriore scandalo, molto in luce nel dibattito successivo alla loro diffusione: mostrano figure femminili nella parte inequivocabile di carnefici. Una realtà evidentemente così difficile da accettare che alcuni autorevoli commenti (per esempio quello di Adriana Cavarero) hanno sentito la necessità di sminuirne il ruolo cosciente all’interno del sistema, facendone in fondo, in una sorta di cortocircuito, nuovamente delle vittime.
Riferimenti bibliografici
P. Amato, a cura di, L’immagine carnefice, Cronopio, Napoli 2017.
R. Barthes, La camera chiara, Hill & Wang, 1980.
S. Freud, Totem e tabù, Beacon Press, 1913.