Lo spettacolo presentato al Teatro Storchi di Modena in prima nazionale è stato realizzato nel contesto del progetto europeo Prospero Extended Theatre che vede riuniti dieci partner fra cui Emilia Romagna Teatro Fondazione ERT, che è stata fra i fondatori  già dal 2006. Si tratta di una produzione che ha impegnato una lunga preparazione, un cast numeroso di attori, una macchina tecnologica fatta di proiezioni in tempo reale e registrate che interagiscono con le azioni live, traduzione del testo in italiano.

A sipario aperto la scena presenta una stanza dal tono polveroso e abbandonato, con mobilio malandato: letto divano poltrona, sedia a rotelle, un attrezzo ginnico (una cavallina), libreria, tavolino. Uno schermo in fondo e due schermi rettangolari ai due lati in alto del proscenio su cui si proiettano dettagli della scena ripresa dal vivo con telefonini dagli stessi attori, creando un interplay fra recorded e live, fra immagine e azione reale sul palcoscenico. Gli spettatori sono accolti oltre che dalla scena visibile (la platea resta illuminata per molti tratti dello spettacolo) da un suono che fa pensare a un canticchiare sommesso fra sé e sé. L’autore è Bogumil Misala, giovane musicista polacco di successo che compone anche musica per film. Il registro sonoro dello spettacolo compone una partitura di voci, suoni concreti, poche musiche, in sintonia con la recitazione degli attori, che è come uno stream of consciusness, pensieri che attraversano la mente, bisbigliati, sussurrati, detti più per se stessi che ad una alterità.

Il tema di Imagine è in effetti  la storia dell’Europa dal secondo Novecento al nuovo millennio, avendo come filo rosso i miti che la canzone di John Lennon Imagine aveva contribuito a diffondere: un mondo senza guerre, confini, odio, proprietà, religione; un programma politico, come Urlo di Allen Ginsberg, altra figura mitica. In quegli anni qualcosa era iniziato, ma poi perché non si è fatta la rivoluzione? Si è avuto paura di cambiare? Dove abbiamo sbagliato? E sono ancora valide queste idee? Sognare o agire? Sono queste le domande che lo spettacolo rivolge agli spettatori.

La situazione scenica rappresenta un gruppo di amici accomunati da un passato di utopie e ideali che viene convocato da quello che è stato il loro guru, Antony: entrano a uno a uno da una porta e chiamano in scena oltre a John Lennon (con immagini di repertorio vibranti), Janis Joplin, Patti Smith, le figure di cui si sono nutriti e insieme il proprio vissuto, gli errori che non si possono riparare, i tradimenti delle utopie, la solitudine, la morte, le crisi di identità (“Non so se sono un’attrice o un personaggio”) e del linguaggio, le parole che non significano nulla, ma anche fatti storici, il processo di Norimberga, Auschwitz, la guerra in Ucraina, l’epidemia, le migrazioni: la catastrofe di questa vita e di questo mondo.

Nell’ultima parte dello spettacolo c’è un riferimento esplicito al viaggio di Antonin Artaud in Messico, al paese dei Tarahumara – la «razza degli uomini perduti». È un esempio anche questo di utopia vissuta e praticata? O una distopia? Un esorcismo di un folle che farnetica? Il programma di sala recita: «Imagine è un viaggio artistico intorno al mondo della controcultura a cavallo fra gli anni sessanta e settanta». La domanda fondamentale che pone è: le utopie della New Age sono state tradite e abbandonate, come ricreare nel presente un pensiero e un desiderio di trasformazione dell’individuo e della società? «Abbiamo tutto cancellato». «Vincere la catastrofe globale», sostiene Krystian Lupa è possibile solo se rinasce e si radica un pensiero, un’istanza di cambiamento.

Il testo va da sé, non è legato agli attori che lo enunciano bisbigliando come in una camera del pensiero: «Sono il residuo del  tuo cervello» e infatti non si capisce chi stia parlando, ma non importa. Pochi gli attori che emergono con una individualità (l’attore che impersona Antony ricorda Cieslak de Il principe costante di Grotowski), perché funzionano come una coralità. In Imagine l’attore non interpreta, ma non espone neanche se stesso, le parole che dice sono le sue, rielaborate dall’autore dello spettacolo, non rifiuta il personaggio, ma non afferma «sul palcoscenico sono io, non voglio vivere con la vita di un altro», non è un attore/attrice scisso/a.

Le cinque ore di durata dello spettacolo sono attraversate da un costante flusso di parole, frasi, pensieri, domande, dette dai performer in scena, un testo abbondante, «creazione collettiva degli attori» che ha richiesto i tempi lunghi delle improvvisazioni e delle rielaborazioni, che include anche didascalie che ci sembra che avvicinino il parlato a un romanzo piuttosto che a un testo drammatico, dove le didascalie indicano le azioni che l’attore deve compiere e descrivono la scena. La presenza della voce fuori campo del regista-autore Krystian Lupa è significativa: interviene per far suonare l’orchestra degli attori secondo il ritmo della partitura dello spettacolo, simile a una jam session jazzistica. Mentre Kantor in scena, appartato vigilava sullo spettacolo interagendo con gli attori con i gesti, Lupa usa la voce e interviene direttamente, sia per commentare e guidare l’andamento dello spettacolo (a un attore dice: “Ti stai prostituendo con il pubblico”), sia per interagire fuori scena performativamente: urla, canta, ripete delle parole senza senso.

Come si colloca il teatro di Krystian Lupa nel contesto della produzione contemporanea? Si inserisce certamente nella tradizione del teatro del secondo Novecento che ha oltrepassato la rappresentazione mimetica, ha annullato la differenza fra racconto e dramma, esautorato il dialogo, la successione temporale delle azioni, la caratterizzazione dei personaggi, il racconto ben congegnato. Ma non rientra nelle tendenze attuali del reality trend che mira all’autenticità di storie e persone vere in scena, o del reenactment, dispositivo per trasmettere memorie storiche, saperi sociali, identità culturale, comportamenti veicolandoli attraverso il corpo.

Nel teatro di Krystian Lupa non si mette in questione la relazione fra realtà e rappresentazione, fra dimensione mimetico-rappresentativa e presenza del dato reale. Il suo è un teatro d’autore che appartiene a una tradizione divenuta classica nel teatro occidentale in cui l’ossatura dello spettacolo è data dal lavoro che si fa con gli attori, dalle loro improvvisazioni. Nel teatro d’autore il testo verbale viene fuori dall’interno del processo produttivo dello spettacolo, dopo aver attraversato una serie di passaggi di selezione e montaggio, dall’oralità alla scrittura.

Imagine. Testo e regia: Krystian Lupa; sceneggiatura: Krystian Lupa; attori: Karolina Adamczyk, Grzegorz Artman, Michał Czachor, Anna Ilczuk, Andrzej Kłak, Michał Lacheta, Mateusz Łasowski, Karina Seweryn, Piotr Skiba, Ewa Skibińska, Julian Świeżewski, Marta Zięba; costumi: Piotr Skiba; musica: Bogumił Misala; drammaturgia: Dawid Kot; anno: 2022.

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