I western ci mostrano a volte un po’ di cameratismo virile nelle baracche, ma di solito anche questa limitata comunità di soli maschi è un po’ troppo per l’eroe, che alla fine rimonta a cavallo avviandosi verso la città o lo stato vicino di un’America sconfinata. Ma l’eroe prima di rimontare a cavallo ha portato a termine il proprio compito e i western non sono in alcun modo inni inequivocabili all’individuo. Il vagabondo solitario contribuisce spesso alla fondazione di una società della quale non può personalmente fare parte, e c’è in questo un autentico pathos. Mentre gli avviliti ma indomiti personaggi moderni rimessi in piedi dall’Arianna americana possono essere ricuperati dal mondo contemporaneo, per questo mondo l’uomo del West è già perduto, appartiene a un vecchio ordine che tutti sappiamo finito. La nostalgia impregna i western dai tempi di Fenimore Cooper […]. È vero che Hollywood ha generalmente un debole per il tono elegiaco, ma i western sono elegiaci per definizione.
Così, in L’america e il cinema, Michael Wood sintetizza in poche righe l’essenza del genere americano per eccellenza, il western. Di questi racconti sulla fine di un mondo Anthony Mann è stato senza dubbio uno dei più grandi cantori. Si pensi, per fare un solo esempio, all’inizio di un suo film del 1955, Terra lontana: in sovrimpressione sul campo lungo che mostra l’arrivo del protagonista con la sua mandria, una scritta ci informa che ci troviamo a Seattle, nel 1896. Prima ancora che la storia inizi, già Mann sembra voler sottolineare come quest’opera si collochi su una sorta di limite, superando di qualche anno la più comune classificazione temporale del genere western, generalmente ambientato in un periodo tra il 1860 e 1890. Non solo: da Seattle, nel nordovest estremo degli Stati Uniti, e quindi al termine del percorso di conquista dalla costa atlantica a quella pacifica, la storia si sposterà in Alaska (a Skagway) e successivamente in Canada, nel territorio dello Yukon (a Dawson, nella regione del Klondike). Terra lontana è già uno di quegli “ultimi western” che diventeranno consuetudine più tardi, con Peckinpah e la generazione della New Hollywood. Qui, il regista coglie ed estremizza un aspetto che è fondativo del genere, che ne giustifica in qualche modo l’essenza e la radice tragica: quella di essere ambientato in una zona liminare prossima a scomparire.
La particolarità del concetto di frontiera, nella storia americana, sta nel fatto che esso non sia legato solamente a questioni di natura spaziale (la classica divisione tra “garden” e “desert”, o tra “tame” e “wild”), ma ha soprattutto un valore temporale, vista la natura transitoria dettata dal progressivo spostamento dei coloni, molto accelerato negli anni successivi alla guerra civile. Nei grandi capolavori western degli anni cinquanta, come L’uomo senza paura, di King Vidor, Sentieri selvaggi di John Ford, o Sfida nella città morta di John Sturges, il personaggio incarna in sé il concetto di confine, finendo irrimediabilmente lacerato tra due mondi. Al termine del percorso, conscio che il percorso della frontiera è quasi giunto all’Oceano, e dunque al termine, non potrà che scegliere di rimanere dal lato casalingo (come Robert Taylor in Sfida nella città morta), da quello selvaggio sempre più esiguo (come Kirk Douglas ne L’uomo senza paura) o semplicemente scomparire (come John Wayne nel finale di Sentieri selvaggi). L’aspetto interessante di questa nostalgia, scrive ancora Wood, è che «non si fonda su un rifiuto del mondo moderno, ma sulla sua rassegnata accettazione. Il prezzo della civiltà viene presentato come crudelmente alto, ma i western non rifiutano di pagarlo. Si interrompono al momento del pagamento».
Nel caso di Mann, questo aspetto è estremizzato: i suoi personaggi, interpretati da James Stewart, da Henry Fonda, da Gary Cooper o da Glenn Ford, sono spesso uomini che hanno passato tutta la vita sul confine e si avviano ormai verso la vecchiaia. Jeff Webster, il protagonista di Terra lontana, porta sulla sella una campanella da appendere sulla porta di casa quando deciderà di fermarsi definitivamente. L’oggetto sembra suggerire, però, che la casa di Jeff sia la sua sella, e che la sua natura sia quella di nomade.
Nel cinema di Mann, la doppiezza insita nel concetto di frontiera si traduce in una sorta di nevrosi schizofrenica che domina il personaggio e che a sua volta dà forma a suoi doppi all’interno dei film: in Là dove scende il fiume, ad esempio, l’eroe Glyn McLyntock (Stewart) e l’antagonista Emerson Cole (Arthur Kennedy) sono, per larga parte del racconto, l’uno il gemello dell’altro. Ma ognuno di questi uomini reagisce da par suo alla fine del proprio mondo: se l’antagonista va verso la morte, per gli eroi di Mann, destinati a rimanere in vita, questa scelta non può che rappresentare una resa, nel senso in cui la intende Bernard Dort:
Quando in certi iper-western tragici l’eroe stanco accetta, dopo aver a lungo esitato, le mansioni di sceriffo, ciò non rappresenta tanto il segno di un’unità epica ritrovata, quanto la constatazione di un fallimento: l’eroe rinuncia agli imperativi della sua coscienza individuale, smisurati in rapporto all’ordine del mondo, e si accontenta di quest’ordine, in ciò che esso ha di più formale (in Bellour 1973).
Jed Cooper (Victor Mature), il protagonista di L’ultima frontiera, incarna il paradigma del personaggio travolto dal cambiamento: “È il progresso quello che ci manderà in rovina”, esclama all’inizio l’amico di Jed, Gus (James Whitmore). Jed è un uomo bianco che vive come un indiano, cacciando nei boschi per la maggior parte dell’anno, e viene convinto a indossare la divisa da soldato al primo scoppio delle ostilità tra le giacche blu e le popolazioni autoctone dell’Oregon. Restio ad ogni tipo di disciplina, nel soggetto originale del film Jed avrebbe dovuto soccombere. “Cambiare o morire”, sembra essere la conclusione inevitabile del percorso degli uomini di frontiera di Mann.
Specialmente nei cinque western con James Stewart protagonista, Mann cesella la psicologia dei suoi eroi ambigui, presi, per dirla con Bellour, tra «l’avvenire che trascina via e il passato che rende prigionieri»: il fratricida di Winchester ’73, il bandito che tenta di redimersi di Là dove scende il fiume, l’inaridito cacciatore di taglie de Lo sperone nudo, la guida sarcastica ed egoista di Terra lontana, fino al più vulnerabile (ma altrettanto implacabile) protagonista di L’uomo di Laramie. Henry Fonda, il cacciatore di taglie di Il segno della legge, e Gary Cooper, l’ex bandito di Dove la terra scotta, sono variazioni minime di uno stesso personaggio. In quest’ultimo film, in particolare, Link (Cooper) ha già abbandonato la vita errabonda dell’uomo di frontiera, e sarà solo il destino a riportarlo indietro, ai suoi giorni selvaggi, per chiudere una volta per tutte i conti con il passato. Nel suo ultimo western, Cimarron, Yancey Cravat (Glenn Ford), dopo aver tentato di varcare tutti i confini possibili, trova la morte in Europa, compiendo un impossibile viaggio senza ritorno verso Est.
Accanto alle storie, personali, collettive e simboliche, Mann racconta però anche l’America dei grandi spazi come nessun autore western ha mai fatto: i fiumi, i ghiacciai, i boschi, le rocce, i deserti: nella sua filmografia, un solo western “urbano” (Il segno della legge) e uno completamente immerso negli spazi naturali, senza alcun segno di costruzione umana (Lo sperone nudo). Una natura che appare maestosa e al contempo ostile, il “contrario dell’ecologia”, come scrive Nicolas Saada: «Se qui l’uomo si ritrova solo in un ambiente naturale, non c’è nessuna comunione tra lui e gli elementi. La natura rivela un’altra natura, più distruttiva, quella dell’uomo».
Riferimenti Bibliografici
R. Bellour, A. Mann, in Id. (a cura di), Il Western, Feltrinelli, Milano 1973.
B. Dort, La nostalgia dell’epopea, in Raymond Bellour (a cura di), Il Western, cit.
J. Kitses, Horizons West: Anthony Mann, Budd Boetticher, Sam Peckinpah, London, Thames and Hudson in association with the British film Institute, 1969.
J.C. Missiaen, Anthony Mann, Editions universitaires, Paris 1964.
A. Morsiani, Anthony Mann, La nuova Italia, Firenze 1986.
N. Saada, Les westerns fiévreux d’Anthony Mann, in “Cahiers du Cinéma”, n. 470, luglio-agosto 1993.
M. Wood, L’America e il cinema, Garzanti, Milano 1979.