Può sembrare strano,
la psichiatria tende fatalmente alla teologia.
La letteratura non dovrebbe mai parlare di sé stessa ma essere, per così dire, periferica; mostrarsi decentrata, menzognera; per illuderci di poterla attendere «come una rivelazione, come una cosa seria». Ne Il vescovo e il ciarlatano, raccolta di saggi e articoli recentemente pubblicata per i tipi di Sellerio, Giorgio Manganelli ci guida nei segreti di Ernst Bernhard, nei panciotti londinesi di Freud, nelle questioni sovrumane di Jung, verificando – o, forse, vanificando – la propria esperienza psicoanalitica, in una sorta di grande sogno collettivo. Bernhard, scrive Manganelli, era un «uomo che voleva essere frainteso»: travisato non per incomprensione ma per amore dell’equivoco, per senso erotico (ed estetico) del disordine; perché ogni fraintendimento non sia mai, o non sia soltanto, un comprendersi male, ma sia piuttosto (e sia meglio) un continuo cercare, intendere una cosa per un’altra, fino a incontrarsi proprio là dove non ci si sarebbe aspettati.
Sarà, forse, con queste ragioni che lo psicanalista mentitore Ernst Bernhard – racconta lo scrittore mendace Giorgio Manganelli – gli insegnerà a mentire, costruendo la menzogna non tanto a partire dall’avere negato questa o quell’altra verità, quanto, piuttosto, dall’idea che la maggior parte dei fatti – se non proprio tutti – siano talmente difficili a dirsi che spesso è preferibile tacerli o, magari, ancora meglio, lasciare che siano naturalmente fraintesi. È questo il tipo di fraintendimento che Manganelli eredita da Bernhard, una menzogna che sembra concederci il lusso della sua franchezza, che si sposta dalla certezza oscena di chi accampa verità; è la menzogna sospesa, appunto, la menzogna che attende, che coincide – esattamente – con l’abbandono del centro. Senza fraintendimento, ovvero senza periferia e senza attesa, non vi sarebbe stata scrittura, né opera, né autore e lo stesso Manganelli non avrebbe potuto dirsi quel Re di cui oggi pare impossibile dubitare. Né, certo, avrebbe egli abitato allucinazioni elaboratamente arredate o registrato interviste impossibili tra Piacenza e Singapore; perché – potremmo risolvere – senza quel continuo fraintendere Manganelli non sarebbe stato sé stesso.
Del resto, è nel farsi fraintendere che ogni scrittore edifica; nel rivendicare la superiorità dell’errare – o dell’errore –, di una pagina simulata o distorta, che Manganelli poté liberarsi in ogni sua riga di testo e Autore, per essere la parte migliore di quella letteratura viva che era vera solo mentre s’andava scrivendo. In fondo, ogni scrittore lo si ritrova quando si smette di cercarlo, se si accetta quell’antico vincolo che impose al primo abitante del mondo di ritrovarsi nel fondo del malinteso che coincise con la prima scrittura. Ha scritto Giorgio Caproni – riservato amante del fraintendere:
– Smettetela di tormentarvi.
Se volete incontrarmi,
cercatemi dove non mi trovo.
Non so indicarvi altro luogo.
La letteratura – come lo scrittore – chiede di non essere cercata, si muove dal centro per scavare nell’impensato, per trattenersi nell’equivoco, fino ad elevare ogni menzogna all’apparente più mite fraintendimento. Essere menzogneri – come Manganelli –, vuol dire allora essere fraintendibili, – come Bernhard –, periferici, lontani da ogni verità di mezzo, e per ciò stesso intraducibili. Vuol dire, ancora, parafrasando Caproni, cercare le cose dove non sono: negli spazi di un verso come nell’io («il vero io, si sa, è una cosa rara»), nella verità di un testo, come nella sua menzogna. Soltanto quando avremo abbandonato del tutto le nostre certezze – e ci metteremo di lato, e scopriremo il vuoto – riusciremo ad intendere quella grande menzogna che era stata per noi tutta la nostra poesia.
E menzognero è certo Manganelli – che senza disprezzare la condizione della vittima – ci seduce tra le sue pagine, per aiutarci ad abbandonare il centro, per consegnarci alla nostra più viva contraddizione. Come un lettore irriverente (quale è) l’autore scannella e si intrufola nei drammi psicologici che furono di altri, costantemente attratto dalle possibilità di riscrittura che dimorano dietro ad ogni possibile e impossibile storia. Ora ingannevole perché sorridente, ora leggero perché infinitamente infantile, l’analizzato-scrittore muta in «dizionario impazzito» e quale carta di lemmario dissigilla i segreti della parola per essere una e cento altre cose, fino a scomporre, ghignando, l’immagine del suo nome.
L’Autore (o, anche, un autore) fa bella mostra di sé, si rende periferico nell’essere stato ovunque – in una possibile parola, in un altro impossibile testo. Proprio come il suo analista Manganelli è avulso dalla realtà, rifiutandosi di raggiungere quella verità che in lui – come in Nietzsche – porta sempre il peso di una condanna. Per lo scrittore esegeta di sogni ogni presenza potrebbe non avere avuto luogo ed ogni luogo potrebbe essere stato un sogno. Per questo, come Bernhard, ogni paziente-scrittore ama la sua menzogna: per dirsi estraneo alla verità («la verità non ci riguarda»), per limitarsi ad accarezzare quella superstizione («la superstizione è fatta a nostra misura») che lo renda il felice prigioniero di ogni altra ipotetica realtà – poco importa se migliore o peggiore di questa, poco importa se contraddittoria.
Nel leggere Manganelli siamo avvolti da una lucentezza argentina (in una nube di oppio) ed ogni pagina finisce (o, forse, inizia) per ingannarci come in un delirio, per sfuggirci come quel tempo che non è mai stato il nostro. È allora parlando di Freud (e subendone lo stesso fascino mitologico) che Manganelli si intrattiene nel mito greco, o descrivendo il giovane Oliver Sacks che lo scrittore ci obbliga a immaginarlo prigioniero di un bizzoso teologo gnostico – e con quanta naturalità ameremo crederlo. È nella menzogna (che Manganelli edifica) che si mostra la sua più grande verità: la possibilità che ci colloca contemporaneamente qui e altrove, rimuovendo con tanta leggerezza quel velo di assoluto che sembrava avvolgere le nostre vite e i nostri valori («i valori della vita non so assolutamente cosa siano»).
È spostando il baricentro della letteratura nella periferia che Manganelli sembrerebbe averci appena ricordato che quanto rimane è solo quanto scompare. «Il permanente – aveva scritto il maestro Josho, in epoca Tang – è l’impermanente», è la vita stessa, la sua contraddizione in cui – proprio come in un libro – solo quanto è tolto, resta. È questo, forse, il risultato più straordinario del nostro fraintendere, l’abbandono di quella certezza che era stata immagine e somiglianza del centro.
Così, come per ogni letteratura che non tende al centro, siamo i protagonisti di un racconto che non potremmo credere. Contro ogni letteratura che tende al cuore rivendichiamo – con Manganelli! – le nostre periferie letterarie (i nostri coni d’ombra!); per scoprire in quelle tracce scure che la letteratura conserva, la possibilità umana del contraddirsi, di fraintendere e dimenticare. Esistiamo in queste pagine, proprio perché non ricordiamo, proprio perché non possiamo ricordare. E quell’unica indipendenza che ci era data è nella nostra libertà di poter non compiere un dovere. Quella forma di leggerezza che, come scriveva Pessoa, si ritrovava nel «dover leggere un libro e non farlo». È in questo processo, contraddittorio perché letterario, che si restaura la nostra memoria.
Ci ricordiamo di Montale: la memoria è memoria orale, contraddizione, genere letterario, «la memoria vivente – scriveva perfettamente il poeta – è immemorabile», lontana e proprio in quanto tale, possibile. Proprio perché non ricordiamo, proprio perché non possiamo ricordare, fraintendiamo e viviamo perché dimentichiamo tutto il nostro dolore («Cosa resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza»). E, proprio perché non abbiamo certezze, non potremmo certo trovarle in un testo, finendo – o forse cominciando – con il rivendicare ad una ad una, tutte le nostre menzogne: che ci muovano, allora – queste nostre menzogne – nei segreti vivi della scrittura, che sprofondino con noi, che ci aiutino a cambiare le affollate certezze. Attraverso Manganelli scopriamo un classico letterario.
Il classico, per come lo intenderemo, non sarà uno stupido pappagallo bianco che sembra avere avuto, ininterrottamente, qualcosa da dire; ma sarà adesso, molto più seriamente, quel testo vivo perché continuamente frainteso, quella somma di parole senza forma che non rivendicano proprio niente. Lo scrittore classico non ha vergogna nella sua contraddizione ma emerge in una forma di permanente impermanenza, si costituisce nel suo continuo fraintendimento. Il classico è allora – proprio come Manganelli – tutta la nostra periferia: espressione di una alterità costante, decentrata e compiutamente imperfetta. L’autore di ogni classico – come ogni lettore – è quel personaggio in grado di entrare là dove altri credono impossibile uscire, avendo orgogliosamente frantumato l’idea dell’Io al punto da considerare ogni autobiografia come «un genere plurale».
In questo modo, Manganelli è il nostro autore classico: per essere equivoco, futile e perciò stesso fatale; ora ingannevole perché sorridente, ora leggero perché infinitamente infantile. Ecco il classico quale testo destinale, in cui le pagine pesano per restare sempre al margine; per far emergere – dal margine – la nostra ennesima contraddizione. E proprio quale contraddizione Manganelli ci viene incontro: come l’incalcolabile, come il qui pro quo, come una contrapposizione lasciata aperta – e risolta.
D’altro canto, il segreto di ogni scrittura – come il segreto dell’immortalità – pare in parte conservato nella possibilità di lasciarsi fraintendere, di essere in parte irriducibile al mondo circostante. Manganelli è allora classico per essere inconciliabile, per esistere – ovunque! – sempre al di fuori di sé. Ha il genio reattivo di chi litiga con la realtà ma nevrotico la rappresenta, la sfacciataggine dello scrittore che non avrebbe difficoltà ad essere analista di un sogno e, al tempo stesso, quel sogno; il coraggio di chi si mette di lato, di chi straperde. Manganelli è autore classico per essersi lasciato fraintendere: giudice imparziale (non per senso di giustizia ma per pigrizia); poco importa se savio o impazzito, uccisore o ucciso. Del resto, non è forse vero che ogni scrittore è come non è, come la vita che rimane, in fondo, solo quando scompare? L’autore che riscopriamo tra queste pagine è allora del tutto legittimamente un monarca del re: pieno di dubbi e nevrosi, di pensieri spettinati e frammentari, così dannatamente bugiardi, così deliziosamente umani.
In questa umanità è forse molto dell’aspetto letterario che fece del Manganelli autore il manganelli letterario. Ecco come un autore riuscì a farsi letteratura: non per essere stato dottrinale o pedante ma per essere stato periferico; per essere sempre eventuale, immaginabile quanto l’inimmaginato, contraddittorio come una rivelazione, come una cosa seria: paziente e psichiatra, marinaio e balena, vescovo e ciarlatano. Ipotetico, certo, ma come una costellazione, come una congiunzione azzurra su una pagina bianca.
Riferimenti bibliografici
G. Manganelli, Il rumore sottile della prosa, Adelphi, Milano 1994.
Id., La letteratura come menzogna, Adelphi, Milano 2004.
Giorgio Manganelli, Il vescovo e il ciarlatano. Inconscio e letteratura: l’incontro con Ernst Bernhard, con una conversazione di Giorgio Manganelli con Caterina Cardona, a cura di Emanuele Trevi, Sellerio, Palermo 2024.