Dietro il rilievo mitografico raggiunto in campo estetico dalla figura di Artaud è presente, soprattutto in Italia, un equivoco di notevole entità. Risiede nella sua piena annessione, eccetto sporadiche deroghe, al campo della storia del teatro.

Un campo certo praticato da Artaud con passione e un vibrante impegno sperimentale nell’arco di circa quindici anni, tra il 1921 – quando arrivato a Parigi da un anno inizia il suo apprendistato da attore, ben presto anche cinematografico – e il 1935, fatidica data del deprimente insuccesso incontrato dalle diciassette repliche dei Cenci, l’unica pièce da lui scritta (oltre che diretta e interpretata). Ma è sufficiente solo questo periodo, con qualche rapsodica appendice, perché, dopo la sua triste fine, gli studiosi e gli operatori dello spettacolo dal vivo gli attribuissero all’unanimità un’intangibile aura sacra riposta quasi esclusivamente negli articoli e nei saggi riuniti da Artaud in quel libro dal clamoroso successo postumo che porta il titolo del Teatro e il suo doppioVi confluiscono materiali, dalla differente lunghezza, che, però, letti con attenzione, dimostrano di avere già compreso l’intero spettro semantico del teatro in una costellazione metaforica ben più ampia e problematica di quanto possa essere racchiuso nel perimetro dello spettacolo – non solo tradizionale, ma di qualsiasi spettacolo. Lo conferma senza mezzi termini proprio uno dei suoi scritti dalla celebrità oramai epica, Il teatro della crudeltà (Primo manifesto), pubblicato nel 1932 e poi raccolto nel Teatro e il suo doppio. Ecco alcuni passaggi esemplari:

Se il teatro come i sogni è sanguinario e inumano, lo è, di gran lunga di più, per manifestare e imprimere indelebilmente in noi l’idea di un perpetuo conflitto e di uno spasimo in cui la vita viene troncata ad ogni minuto, in cui ogni elemento della creazione si erge e si contrappone alla nostra condizione di essere definiti. […] Così stando le cose, è evidente che […] il nudo linguaggio del teatro, linguaggio non virtuale ma reale, deve permettere, facendo appello al magnetismo nervoso dell’uomo, di violare i consueti limiti dell’arte e della parola, per realizzare attivamente, cioè magicamente, in termini reali, una sorta di creazione totale in cui all’uomo non rimane che riprendere il proprio posto tra il sogno e gli avvenimenti. 

Accantoniamo, allora, una volta per tutte gli incongrui e infondati accostamenti di  Artaud a Stanislavskij o addirittura a Eugenio Barba per concentrarci piuttosto su interrogativi di ben altra portataUno è impossibile da aggirare: “Il nudo linguaggio del teatro” – anche dell’anti-teatro delineato da Artaud, privo di drammaturgia, di una regia prestabilita, di scenografia e di palcoscenico – come potrà mettere in scena realmente, non metaforicamente, “l’idea di un perpetuo conflitto”, di “uno spasimo in cui la vita viene troncata ad ogni minuto”? Artaud, con questi riferimenti, si è congedato definitivamente da qualsiasi progetto estetico. 

Stravolto dal pellegrinaggio in Irlanda (che segue di poco l’ipnotico e indimenticabile soggiorno in Messico), dalle sanguinose scheggiature che da tempo stanno incrinando la sua integrità psichica, sa bene, oramai, che non esiste scena adeguata in grado di rappresentare “l’idea di un perpetuo conflitto” tra il “magnetismo nervoso dell’uomo” e l’indeterminata gamma delle sue molteplici manifestazioni. Senza richiamare le sue opere più note, da Eliogabalo o l’anarchico incoronato al Viaggio al paese dei Tarahumara, fino a Van Gogh il suicidato della societàArtaud le Mômo e Ci-Gît, questa irriducibile opposizione è confermata da ogni pagina delle lettere e dei testi scritti nell’ospedale psichiatrico di Rodez, dove Artaud è ricoverato dal 1943 al 1946, prima di essere trasferito, negli ultimi due anni di vita, in una casa di cura a Ivry (una parte di questo folto, incandescente, materiale lo si può leggere parzialmente in italiano nei due volumi Scritti di Rodez e Succubi e supplizi). A tali testimonianze, la cui eccentricità non riesce certo a smorzare lo straordinario vigore concettuale, si aggiunge ora una selezione in italiano dei quaderni riempiti da Artaud, con appunti e qualcuno dei suoi tipici schizzi grafici, a Rodez e a Ivry tra il 1945 e il 1948.

Il titolo Questo corpo è un uomo, tratto da un’espressione dello stesso Artaud, non lascia dubbi. Il corpo è l’unica cavità teatrale su cui si concentra la sua attenzione. Due termini diventati un’endiadi, più che semplici sinonimi. Preso in considerazione nei singoli elementi da cui è formato, il corpo perderà la funzionalità meccanica assegnatogli da un ancestrale statuto per trasformarsi in quel “corpo senza organi” (una dicitura che diventerà poi decisiva soprattutto nei Mille piani di Deleuze e Guattari) teorizzato esplicitamente nel radiodramma del 1948, mai trasmesso, Per farla finita con il giudizio di DioLa consueta efficienza di un apparato preposto al compimento dei più vari compiti e azioni si viene a dissolvere in un teatro dall’espansione scenica illimitata. Illimitate si dimostrano, infatti, le metamorfosi che un corpo del genere potrà realizzare, guidato da una fluidità antitetica ad autonome entità spirituali, come Artaud ribadisce senza sosta proprio nella sezione Teatro, intelligentemente isolata, insieme ad altre quattro partizioni tematiche, da Lucia Amara, curatrice dell’edizione italiana. Basta leggere questo frammento per rendersene conto:

Io Antonin Artaud
sono un puro spirito
e faccio il mio corpo dall’alto
guardandolo come lo faccio
come tutti i coglioni del santo spirito di dio
i quali credono che l’uomo è un doppio composto da un peri-spirito e poi da un corpo
un organismo che è il tra dello spirito
che regge dall’alto dell’eternità.

Esiste, dunque, solo il corpo e null’altro. Il corpo in relazione ad altri corpi, ad altre singole individualità altrettanto vittime della censura a cui da millenni le leggi sociali hanno sottoposto la potenza posseduta da un organismo privo di organizzazione interna. Potenza di portare alla luce, liberamente, un’indomabile fisicità che risponde esclusivamente a se stessa, esente da vincoli, obblighi e rapporti programmati. Ma quale linguaggio – verbale, iconico o gestuale – riuscirà mai a esprimere, a rendere tangibile una simile potenza? Un corpo in continua e completa rivolta potrà mai trovare un medium capace di trasmettere tale ribellione senza trasporla nell’astratto sistema di segni a cui necessariamente si conformano tutti i codici linguistici? Sono le domande che non hanno mai smesso di martellare la riflessione di Artaud. Se all’inizio riuscivano a trovare ancora una sistematicità discorsiva, con il passare del tempo il loro deragliamento da ogni ordine linguistico diventa inesorabile. L’alfabeto sensoriale e gli impasti di materia rivendicati da Artaud quali componenti primarie dell’organismo umano si disgregano in una babele di molecole sintattiche, in una sequenza interminabile di collisioni semantiche. Probabilmente sapeva fin dall’inizio che questa sincopata coreografia sarebbe stato l’unico esito della rivoluzione estetica teorizzata negli anni addietro. In uno dei frammenti compresi sempre nella medesima sezione dei Quaderni così intende il teatro:

Perché è proprio per l’abbandono del teatro che l’uomo pecca, per l’abbandono degli irascibili tumori che costituivano lo scheletro primo dell’uomo e si riproducevano ritmicamente e metodicamente,
il teatro era questa forza che impastava l’anatomia umana,
questa forza d’umore esplosa,
questa esuberanza di un fuoco innato
dal quale furono sgranati gli scheletri,
è per l’impastamento ritmico di tutti gli scheletri evocati che la forza innata del teatro cauterizzava
l’umanità.

Per poi concludere:

È così che il vero teatro è questa fornace e questa fucina costituite dall’organismo stesso.

Oltre la “crudeltà” alimentata voracemente da “questa fornace e questa fucina” non ci sono, per Artaud, altri luoghi compatibili con la sua ipotesi di teatro. “Il teatro della crudeltà – avvertiva infatti Derrida in un saggio del lontano 1966, Il teatro della crudeltà e la chiusura della rappresentazione, poi raccolto nella Scrittura e la differenza – non è una rappresentazione. È la vita stessa in ciò che essa ha di irrappresentabile. La vita è l’origine non rappresentabile della rappresentazione”. Allora, secondo un altro frammento dei Quaderni datato 1947, non resta da prendere atto che “se questo corpo è l’ultimo e autentico non ha ancora detto la sua ultima parola né fatto il suo ultimo gesto”. Ma non potrà mai né dirla, né farlo, perché per Artaud non esistono nessuna parola e nessun gesto conclusivi. La sua “pace è un tizzone spinato”.

Antonin Artaud, Questo corpo è un uomo. Quaderni 1945-1948, a cura di Lucia Amara, Neri Pozza, Vicenza 2024.

Tags     Antonin Artaud, teatro
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