È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi, […]
ma lagrime ancora e tripudi suoi. […]
Egli […] accarezza e consola la bambina che è nella donna.
Egli nell’interno dell’uomo serio sta ad ascoltare,
ammirando, le fiabe e le leggende […].
C’è dunque chi non ha sentito mai nulla di tutto questo?
Forse il fanciullo tace in voi, professore,
perché voi avete troppo cipiglio,
e voi non lo udite, o banchiere,
tra il vostro invisibile e assiduo conteggio.
[…] Ma in tutti è, voglio credere
Giovanni Pascoli
Nel ripercorrere, seguendo il filo dei suoi più intimi ricordi, la storia del suo rapporto con il padre Luigi, Francesca Comencini dà forma ne Il tempo che ci vuole ad un’opera densissima, capace di articolare pensieri complessi e stratificati la cui sorprendente profondità non pregiudica mai, però, la linearità e la piena coerenza della narrazione. Attraverso un toccante racconto di ispirazione autobiografica, infatti, la regista configura qui – con rara grazia e insieme severo rigore – un commosso omaggio a suo padre del quale celebra i preziosi insegnamenti sulla vita e, di riflesso, sul cinema.
Come quella di Pinocchio – che il film rievoca continuamente – la storia narrata ne Il tempo che ci vuole racconta, unendo l’incanto della fiaba al più duro realismo, il viaggio di formazione di una figlia che parte alla ricerca della propria identità e si perde, travolta dalle asperità del percorso; ma racconta anche la forza di un padre che non smette mai di darle fiducia e che è disposto a seguirla, per prendersene cura, fin dentro le fauci del “grande Pesce-cane”. Il racconto appare composto da tre blocchi narrativi distinti, corrispondenti ciascuno ad un capitolo preciso della vita della protagonista e a una specifica forma della sua relazione con il padre: dopo una prima fase, quella dell’infanzia di Francesca, di assoluta sintonia tra i due protagonisti che scoprono il mondo mano nella mano con gli occhi ricolmi di un’identica meraviglia, il sopraggiungere dell’adolescenza produce tra loro una dolorosa frattura che si manifesta nel radicale rifiuto da parte della figlia di quel prezioso dialogo con il padre il cui definitivo ripristino costituirà il cuore dell’ultimo movimento del film.
Sebbene affondi inequivocabilmente le sue radici nell’autobiografia, il racconto si distacca in modo marcato dalla cronaca aneddotica della vicenda di Luigi e Francesca Comencini e mira invece ad ottenere un respiro ampio, addirittura universale. Operando una sistematica rastremazione dei personaggi e degli ambienti che risultano ridotti ai loro minimi termini (la vicenda narrata, tutt’altro che corale, non fa cenno alcuno agli altri membri della famiglia Comencini e si sviluppa all’interno di pochi spazi ricorrenti), la regista riesce infatti a contravvenire alle indicazioni del padre – che, come ricorda il suo personaggio in una delle ultime sequenze, rifuggiva nel suo cinema ogni riferimento al suo proprio vissuto – raggiungendo però al tempo stesso l’obiettivo che lui si era sempre prefissato, quello di fare un cinema che sapesse “parlare a tutti”.
C’è dunque a ben vedere un terzo personaggio che abita, insieme al padre e alla figlia, il cuore del racconto: profondamente implicato nel rapporto che li lega, veicolo e insieme soggetto di alcune tra le più feconde riflessioni articolate dal film, è il cinema il terzo protagonista del magnifico rapporto d’amore di cui narra Il tempo che ci vuole. Oltre ad essere continuamente tematizzato dal film che lo mette in immagine nel suo farsi, rappresentandone i momenti più emblematici (dall’intimo raccoglimento della progettazione all’euforia travolgente delle riprese), il cinema risulta qui interpellato anche in una modalità per così dire “archeologica” attraverso il reiterato inserimento, tra le immagini girate ex novo da Francesca Comencini, di frammenti di quei film che il Luigi ragazzo aveva salvato dal macero e che sarebbero poi confluiti nel nucleo originario della raccolta della Cineteca di Milano.
Pressoché onnipresente nella quotidianità dei due protagonisti, il cinema partecipa dunque attivamente del loro legame, facendosi di volta in volta sintomo o catalizzatore dell’evolversi della loro mutevole, per quanto solida, relazione. All’inizio il cinema è ovunque: configurandosi come il luogo privilegiato dell’esprimersi dei loro pensieri e del manifestarsi delle loro emozioni, esso diviene il mondo fatato dove il padre e la bambina possono incontrarsi. Quando però la figlia viene travolta, crescendo, da un dolore cieco che l’allontana violentemente da quel mondo, anche il padre – che ben sa che “prima” viene “la vita, poi il cinema” – se ne distacca, per potersi meglio dedicare a lei e prendersene cura. Sebbene non costituisca più il fulcro delle loro giornate, il cinema continua però anche qui a far sentire la sua indomita presenza: è al cinema che i due si recano insieme nei rari momenti di ritrovata sintonia ed è il cinema a fornire loro un linguaggio tramite cui confidarsi ed affidare così l’uno all’altra le proprie rispettive ferite. Sarà infine proprio il cinema a fornire alla figlia – così come era stato, a suo tempo, per il padre – una via di fuga, la chiave per evadere dalla gabbia di tormento in cui si sentiva costretta: di nuovo uniti, i due ritorneranno allora, nel terzo ed ultimo movimento del film, a respirare insieme – questa volta l’uno accanto all’altra dietro la macchina da presa – quel mondo di sogno e fantasia dal quale mai, a ben vedere, si erano del tutto allontanati.
Il tempo che ci vuole appare anche, pertanto, nel suo complesso, come un palpitante inno al cinema o meglio a quella idea di cinema che Luigi Comencini stesso – ci dice il film – sosteneva e incoraggiava: un cinema inteso come luogo di esplorazione delle sconfinate profondità dell’animo umano, come strumento per rintracciare il proprio più intimo sentire e mantenere attivo un dialogo sincero con le proprie emozioni e con quelle del pubblico. È questo allora che il film intende quando fa riferimento al potere “salvifico” del cinema il quale, proponendosi come mezzo di piena espressione della propria interiorità, consente a chi scelga di abitarlo di dar voce a quel «fanciullino» che sta «dentro di noi», che «accarezza e consola la bambina che è nella donna» e che «nell’interno dell’uomo serio sta ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende».
Tra i molti insegnamenti del padre ricordati in questo film da Francesca Comencini ce n’è dunque uno che sembra costituire il fulcro attorno al quale si impernia l’intero racconto. È quello che Luigi Comencini ripete instancabilmente, in una delle prime sequenze del film, con un tono fermo e combattivo: “Il faut écouter les enfants”, bisogna ascoltare i bambini. Non soltanto i bambini che abbiamo attorno – ai quali pure dobbiamo concedere la nostra piena fiducia – ma anche e soprattutto quelli che abbiamo dentro, quei “fanciullini” interiori che dobbiamo interrogare, fidandoci del loro sentire. È questo che il padre intende quando confessa alla figlia sconsolata di aver provato anche lui un simile dolore, la cui origine risiedeva nella solitudine della sua infanzia, e di essere riuscito ad uscirne proprio “aggrappandosi” a quel bambino ferito e alla sua sete di sogno e di magia.
Ciò che il film sembra allora, in ultima istanza, volerci suggerire è come proprio grazie alla trasfigurazione della realtà operata dall’immaginazione si possa raggiungere il cuore nascosto delle cose, svelarne il più intimo segreto. A dichiararlo icasticamente sono le tre dissolvenze incrociate di cui la regista si serve per sovrapporre alle immagini della realtà quotidiana della vita dei suoi personaggi quelle, dipinte, della fiaba, le illustrazioni di Pinocchio, la cui funzione è quella di rivelare il significato profondo delle scene che apparentemente nascondono. La fantasia e l’immaginazione divengono dunque la chiave per farci accedere agli abissi reconditi del reale, rintracciarne il nucleo celato ma essenziale e portarlo finalmente ad emersione. Ontologicamente definito come il luogo di incontro tra la forma e la realtà, il cinema somiglia allora – ce lo dice, in una delle ultime sequenze del film, Luigi Comencini – a quel bambino che rovistando tra i rifiuti trova una splendida biglia di vetro e tendendo le mani verso suo padre gli grida “guarda papà, guarda cosa ho trovato!”, perché in fondo “il cinema è così: ti mostra quello che trova”. Con Il tempo che ci vuole Francesca Comencini scava con coraggio e tenerezza nei ricordi del suo passato e ci mostra poi, con gli occhi traboccanti di gioia, il prezioso tesoro che ha trovato: la consapevolezza di una filiazione.
Riferimenti bibliografici
G. Pascoli, Il fanciullino, Fagiolari Bottega Editrice, Milano 2015.
Il tempo che ci vuole. Regia, sceneggiatura: Francesca Comencini; montaggio: Francesca Calvelli, Stefano Mariotti; fotografia: Luca Bigazzi; musiche: Fabio Massimo Capogrosso; interpreti: Fabrizio Gifuni, Romana Maggiora Vergano, Anna Mangiocavallo; produzione: Kavac Film, Les films du Worso, IBC Movie, One Art, Rai Cinema; distribuzione: 01 Distribution; origine: Italia; durata: 110’; anno: 2024.