Dio è il sorriso. Questo è il cuore dell’omelia di Lenny Belardo, The Young Pope, salito al soglio pontificio con il nome di Pio XIII, di fronte alla folla di fedeli riunita a Piazza San Marco, a Venezia. Sorrentino, attraverso il suo ultimo alter ego, ci permette di attraversare il problema comune del papato di Roma e del cinema: attrarre un popolo di fedeli, riunirlo, condurlo a credere, fino al fanatismo, alla realtà di ciò che si sottrae alla percezione diretta. Problema al contempo ontologico ed economico, perché implica non soltanto il dubbio sull’esistenza di Dio e sul suo modo di manifestarsi ma anche quello sull’efficacia di tale manifestazione.

Nell’abituale proliferazione di piste narrative e di suggestioni visive del cinema di Sorrentino, che bene si adattano al formato del serial, il cemento che tiene insieme l’architettura barocca di The Young Pope è nelle omelie di Pio XIII. Queste scandiscono le tappe di un’interrogazione solitaria del rapporto tra Dio e mondo di un papa che al contempo deve governare la confusione. La chiusura al mondo in nome di Dio permette alla Chiesa di Pio XIII di proporsi come contraccolpo alle diverse “priorità” che gli sottopone il segretario di Stato Voiello (interpretato da Silvio Orlando): dai casi di pedofilia ai presunti miracoli di probabili impostori, dall’omosessualità di una parte importante del clero alla gestione delle missioni in Africa. Ma questo contraccolpo è a sua volta giudicato non tanto dal punto di vista teologico, quanto nella sua capacità di raccogliere un popolo fedele attorno alle sue risposte; è giudicato dalla sua capacità di essere utile strumento di marketing, da intendersi non come un aspetto deleterio della politica della Chiesa, ma come l’essenza stessa della sua vita: il mistero.

L’insistenza di Pio XIII sul mistero in un primo momento si propone come ricorso a una tecnica consolidata del divismo mediatico: l’assenza come modello di presenza nell’immaginario collettivo. Nel corso del racconto però si rivela più precisamente come azione cultuale, come prassi redentrice proveniente «dal Signore glorioso attraverso i riti sacri da lui istituiti» (Agamben 2011, p. 48). Il mistero, inteso come azione liturgica, altro non è che il dispositivo teologico-politico con cui la Chiesa di Roma opera, mettendo al centro la riattualizzazione incessante del sacrificio di Cristo, dispositivo che a sua volta è stato poi fatto proprio dalle varie forme di organizzazione del consenso, dalla politica all’arte o alla comunicazione pubblicitaria. Nella figura del papa Sorrentino, in modo speculare al Moretti di Habemus Papam (2011), ripete perciò il mistero del sacrificio di Cristo: se con il papa Melville, Moretti rivisitava il concetto di kenosis del Padre, che in questo modo si rifletteva nel sentimento di inadeguatezza di chi era incaricato a gestire il potere, con Pio XIII, Sorrentino insiste sull’abbandono del Figlio. Lenny Belardo, nell’elaborazione psicologica del gesto dei propri genitori hippy, che lo hanno lasciato in custodia alle suore di un orfanotrofio per poter andare a Venezia, ripete l’abbandono ontologico che il Figlio vive rispetto al Padre. Lenny è abbandonato; non è orfano, ossia non è senza Padre, come sarebbe in una chiave più immediatamente nichilistica.

Questa solitudine scandisce la progressione teorica delle quattro omelie. La prima tappa è il nascondimento di Dio riflesso nel papa che si nega alla vista (ep. 2): a questa negazione allo sguardo dei fedeli, corrisponde l’idea della Chiesa come una cittadella assediata, in lotta contro la modernità del mondo, bisognosa quindi di un papa e di un clero in grado di farsi katechon (Seconda Lettera ai Tessalonicesi), presidio contro il dilagare delle forze anticristiche, come Pio XIII rimarca in modo autoritario nella seconda omelia; corpo di un potere che si afferma nello splendore delle sale della Cappella Sistina, nella gloria degli abiti papali, nella ritualità dei gesti, di fronte a un concistoro che deve rinunciare a ogni forma di compromesso e negoziazione, per affermare l’assolutezza della verità, che proprio per questo si nasconde al commercio con il mondo (ep. 5). Ma nella figura del katechon, cuore della teologia politica cattolica, si concentra l’aporia dell’agire di Pio XIII: se questi deve contenere-frenare l’anomia, al contempo ritarda il momento del ritorno di Gesù, ritarda il compimento escatologico. La durezza che Pio XIII chiede ai suoi cardinali è conseguenza diretta dell’autorità di Pietro, ma questa forza finisce per confondersi con le spinte anomiche che vorrebbe combattere, fino a farsi trascinare nel gioco della dissimulazione continua e degli intrighi degli ambienti vaticani.

Se la sua parola combatte la pretesa di qualsiasi potere mondano di farsi autorità, come con evidente divertimento racconta Sorrentino nell’incontro tra il papa e il primo ministro italiano (interpretato da Stefano Accorsi, ep. 6), il papa-katechon però così ripete soltanto parte del simbolo cristico e trasforma la kenosi dell’autorità – il silenzio divino, come condizione della libertà umana – in un’autorità fondata sul silenzio, che non potrebbe mai liberare i credenti. Quell’autorità, che si vorrebbe fondata su pietra, abbandona i fedeli alla loro solitudine, ma non li aiuta a sperare oltre l’abbandono. Quell’autorità è sguardo lucido e disincantato che sgombra il campo dai falsi miracoli, e condivide con il segretario di Stato la necessità della Chiesa di farsi argine di fronte a figure come Tonino Pettola, un pastore che sostiene di compiere guarigioni, grazie all’intercessione della Madonna (ep. 4-6).

La forza dell’intelligenza può finanche condurre a prendere posizioni politiche scomode, richiamando la responsabilità verso la pace, come nell’omelia dell’episodio 8, pronunciata in Africa, di fronte a capi di stato che al contrario sfruttano i conflitti come mezzo di conservazione del proprio potere. Se il negarsi all’immagine della prima omelia a S. Pietro conduceva successivamente all’affermazione dello splendore del proprio potere nei confronti dei cardinali, l’omelia della pace mostra il rovescio di quella decisione anti-iconica: la lotta contro il proprio sé, il riconoscersi strumento di una parola che lo trascende. Rimane però uno iato, che soltanto l’omelia dell’ultimo episodio supera, quando la forza dell’intelligenza si fa da parte, in nome di ciò che agli occhi di Lenny Belardo sembrava soltanto stupidità: la letizia del riso.

«Cristo non rise mai… Non ricordo se mai Cristo sorrise», ricordava Rozanov in un polemico intervento alla Società filosofico-religiosa di Pietroburgo nel 1907. Nella contrapposizione tra Cristo e il mondo, Rozanov riconosceva al riso soltanto la sua forza nichilistica, in grado di contrapporsi a ogni verità mondana, in grado di distruggere qualsiasi principio d’autorità. Se letta soltanto come forza critica, come il negativo in grado di sovvertire ogni realtà positiva, il dualismo di Rozanov, fatto proprio da Pio XIII nella sua prima omelia, sarebbe indiscutibile. E quel sorriso anima l’omelia non pronunciata ma soltanto sognata (ep. 1), un sorriso con cui il papa si rivolge alla macchina da presa, prima di dar scandalo contrapponendo di fronte ai fedeli ciò che si è dimenticato, la felicità del piacere terreno, alla dimensione sacrificale affermata dalla Tradizione. Il sorriso di quell’omelia sognata non si contrapponeva alla dura requisitoria del Dio che si nasconde al mondo, ma ne era il contraltare.

Il percorso che compie Lenny Belardo è quello di trovare una dimensione non sacrificale nel riso, una dimensione che non sia quella della contrapposizione dialettica e della negazione dell’oggetto deriso. Il riso che si dà senza scopo, il riso che esprime la gioia creaturale dell’essere. Per giungere a questa letizia, per mostrarsi, Lenny Belardo deve “lasciar andare” i propri genitori spirituali, suor Mary e il cardinale Spencer, così da ripetere e finalmente rielaborare l’abbandono dei genitori biologici. Nell’ultima omelia, Pio XIII cerca nel sorriso gioioso di superare la condizione di figlio, ossia di qualcuno inchiodato al proprio passato e alla nostalgia dell’assenza di chi lo ha abbandonato. Ma il papa, nell’esprimere la gioia creaturale dell’essere, prepotente rispetto a ogni ragionamento dialettico e ogni imputazione di colpa, può continuare a essere katechon?

Il crollo fisico di Pio XIII, al termine dell’omelia a Piazza San Marco, è soltanto la reazione psicologica all’ennesimo abbandono dei propri genitori biologici che, venuti ad ascoltarlo in piazza, se ne vanno senza cercarlo e neanche sorridere, o è il segno dell’impossibilità di far coesistere nella stessa persona l’esercizio di una forza che deve persuadere e di una letizia che nulla chiede? Quel dolly a salire, vaga reminiscenza del Tarkovskij di Solaris (1972), che giunge fino al punto di vista di Dio, può tenere insieme la forza di uno sguardo che chiede allo spettatore di continuare a seguirlo, motivato dall’attesa e dalla curiosità sull’evoluzione della narrazione, e il gioco del regista demiurgo, che desidera soltanto giocare innocentemente con i segni di quella tradizione che ha costruito il nostro immaginario occidentale?

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Opus Dei. Archeologia dell’ufficio, Bollati Boringhieri, Torino 2011.

M. Cacciari, Il potere che frena, Adelphi, Milano 2013.
A. Melloni, Tutto e niente. I cristiani d’Italia alla prova della storia, Laterza, Roma-Bari 2013.
V. Rozanov, Gesù dolcissimo e gli amari frutti del mondo, in P.C. Bori, P. Bettiolo, a cura di, Movimenti religiosi in Russia prima della rivoluzione (100-1917), Queriniana, Brescia 1978.

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