Si racconta che quando Napoleone Bonaparte fece ritorno dalla campagna militare d’Egitto trovò ad attenderlo in casa due libri freschi di stampa. Erano copie di pregio, ulteriormente impreziosite dalla dedica sul frontespizio, che recitava: “Omaggio dell’autore”. È facile immaginare la reazione del futuro imperatore di Francia, un uomo notoriamente morigerato nonché fanatico studioso del codice civile, quando nell’atto di sfogliarle fu travolto da innumerevoli scene di sodomia, blasfemia, sevizie, omicidi e orge funamboliche. Napoleone ne rimase talmente inorridito da sforzarsi di dimenticare quello spiacevole incidente. Peccato che, non molto tempo dopo, mentre presiedeva il Consiglio di Stato, trovò sotto la sua cartella un’altra di quelle maledette copie. E sempre con la solita ridondante dedica. Senza pensarci due volte, la fece gettare nel fuoco. Ma non era finita lì. Nei giorni successivi, per qualche misterioso motivo, la stessa mano invisibile avrebbe continuato a recapitargli gli stessi libri, che Bonaparte, altrettanto puntualmente, faceva bruciare. L’autore di queste orrende opere era il marchese de Sade. Alla fine, la persecuzione terminò. Ma Bonaparte fissò bene nella memoria ciascuno di quegli spiacevoli episodi. Tanto che, non appena incoronato imperatore, la prima cosa che fece fu di inviare una lettera al prefetto di polizia ordinandogli di rinchiudere quel «pazzo incurabile e pericoloso» del marchese de Sade nel manicomio di Charenton (Janin 2006, pp. 76-77).
Quella che avete appena letto è una storiella. Una leggenda metropolitana che circolava nella Francia del XIX secolo e che, considerate le numerose ambiguità storiografiche, risulta difficile da prendere per vera. Ma se, come dice Jacques Lacan facendo il verso a Jeremy Bentham, la verità ha struttura di finzione, essa può insegnarci qualcosa. Per oltre due secoli, la figura del marchese de Sade è stata demonizzata dalla cultura occidentale e accostata ai più gravi crimini che l’essere umano potesse concepire: oscenità morale, pornografia, empietà, depravazione intellettuale, misoginia, incesto – e l’elenco, vi assicuro, potrebbe andare avanti ancora a lungo. L’opinione più diffusa è che il divin marchese fosse altrettanto sadico degli spietati libertini raffigurati nelle sue opere. Perché nessun uomo sarebbe stato capace di concepire orrori simili, se prima non vi si fosse dedicato anima e corpo. Perché l’immaginazione, da sola, non può di certo arrivare a tanto. Secondo questa tradizione, nel dar voce a personaggi disumani come Dolmancé, il duca di Blangis o il terribile Saint-Fond, Sade “starebbe chiaramente parlando in prima persona”. Sade non era pazzo ma, semmai, l’essere più malvagio mai esistito. Un autore pericoloso, in grado di corrompere la mente umana infondendovi le peggiori inclinazioni possibili.
Una corrente di pensiero minore, ma non meno avventata della precedente, considerava invece Sade uno smidollato masochista, un vigliacco che, proprio perché incapace di dare sfogo alle proprie esecrabili fantasie, sarebbe stato costretto a trasporle nel medium della fiction letteraria. Anziché come seviziatore, Sade figura qui nella posizione di una vittima che gode sessualmente fantasticando sull’esistenza di sadici senza scrupoli e di vittime torturabili all’infinito. Che si propenda per l’una o per l’altra di queste interpretazioni, lo shock che la figura del marchese ha inferto ai suoi posteri rimane. Maurice Blanchot diceva che l’opera di Sade ha spaventato il mondo. Simone de Beauvoir che leggere Sade è peggio che finire nelle mani dei suoi spietati libertini. Jules Janin, il suo primo – scaltrissimo – biografo, che il nome di Sade è un nome che tutti conoscono e nessuno osa pronunciare. E difatti, romanzi come Justine, La filosofia nel boudoir, Storia di Juliette o Le 120 giornate di Sodoma sono stati a lungo irreperibili, accuratamente nascosti nelle biblioteche dietro i saggi teologici di San Tommaso e Pascal, o persino vietati in gran parte del mondo. E non bisogna dimenticare che l’Italia è stato l’ultimo dei Paesi a revocare questo divieto.
Oggi, le cose sembrano andare diversamente. Sade è stato ufficialmente ascritto alla categoria universale dei classici. I suoi libri, ormai disponibili ovunque, hanno ispirato intere generazioni di romanzieri, saggisti e cineasti. Salvo casi eccezionali, nessuno oserebbe negare a una seppur così oscura figura il prestigio dell’immortalità letteraria. Tuttavia, un simile sdoganamento non deve illuderci. La consacrazione di Sade non ci ha reso in nessun modo la sua figura più digeribile. Anzi, non è affatto scorretto dire che, ieri come oggi, il marchese rimanga tutt’ora per noi un “mostro” o un “pazzo”. Laddove non arriva l’indignazione morale (Sade il depravato, Sade il maniaco), troviamo ancora la distanza di sicurezza dell’interpretazione psicopatologica (Sade il paranoico, Sade lo svitato) o, al massimo, quel sentimento di timorosa indulgenza che si può nutrire nei confronti di un genio folle morto e sepolto. Questa serie di pregiudizi ci ha impedito di cogliere in Sade non solo l’uomo di lettere o il profeta dell’erotismo sfrenato, ma anche il filosofo, l’esteta e, per quanto paradossale possa suonare, il moralista e l’illuminista.
Ed è proprio a quest’ultima categoria che Marco Menin, nel suo affascinante Il sole nero dei Lumi. Sade filosofo (Carocci, 2023), si sforza di ascrivere il nome del marchese. Per dare corpo alla sua tesi, Menin parte da una constatazione molto vicina alla nostra: Sade è «non solo l’autore più disturbante del Settecento francese, ma dell’intera storia del pensiero occidentale». Una delle pochissime figure a non essere ancora stata «messa in prospettiva» e che, per questo, «continua a far inorridire le coscienze» con la stessa forza di un tempo (Menin 2023, p. 15). I posteri, nota Menin, hanno letto il marchese, e molto. Si pensi alla riesumazione di Sade a opera dei surrealisti, o alla sua presenza quasi asfissiante nel pensiero del dopoguerra francese, accademico e non. Questa lettura, tuttavia, ha seguito due approcci spesso polarizzanti: o la «svalutazione estrema» o l’«esaltazione senza riserve» (ivi, p. 42). O il Sade dell’emancipazione radicale e dello scandalo, o il Sade post-Olocausto, liberticida e testimone di come il pieno dispiegamento della ragione conduca al totalitarismo prima, alla catastrofe subito dopo.
Con una formula già nota a Nietzsche, Agamben direbbe che Sade è il perfetto contemporaneo: una personalità non del tutto allineata con il proprio tempo che, in virtù di questo stesso sfasamento, riesce a portarne a galla i sintomi e le contraddizioni interne (cfr. Agamben 2008). Sade è stato dunque il contemporaneo dell’illuminismo, «una sorta di meteora insanguinata e folle» che ha solcato per breve tempo la stagione dei Lumi, decretandone il tramonto definitivo (Menin 2023, p. 15). Una volta letto Sade, insomma, gli stessi illuministi appariranno un po’ sospetti. Degli intellettuali di prestigio, sì, ma a cui era sfuggito qualcosa, che non avevano compreso fino in fondo ciò che dicevano. Menin ricostruisce con pregio le vicende biografiche del marchese, dall’infanzia a palazzo Condé agli eccessi parigini, dai festini tramutati in casi e condanne giudiziarie (l’affaire Rose Keller e quello di Marsiglia) alle incarcerazioni e alle evasioni rocambolesche. Il tutto documentando con fine precisione il rapporto con la scrittura: la stesura clandestina delle opere libertine avvenuta nella solitudine più assoluta, ora dietro le diciannove porte di ferro del carcere di Vincennes ora nel pertugio della Bastiglia, con le vittime della ghigliottina ammassate sotto la sua finestra; le opere di prosa, le uniche che Sade si azzardava a firmare con il proprio nome; e infine il teatro, la sua prima e più duratura vocazione, coltivata sino agli ultimi giorni, durante gli spettacoli improvvisati tra i folli di Charenton.
Per quanto di primo acchito ovvia, la domanda rimane aperta: cosa ha reso Sade il più contemporaneo degli illuministi e, allo stesso tempo, il loro sole nero? Per capirlo, Menin ci porta nel vivo della produzione sadiana, passando in rassegna le affinità e i punti di divergenza tra il marchese e l’orizzonte etico e sociopolitico dei Lumi. Ci presenta un Sade attento lettore dei grandi materialisti del suo tempo (La Mettrie, d’Holbach, Helvétius), per poi problematizzare subito questa parentela e guidarci nel suo personale materialismo blasfemo, una dottrina che «non si esaurisce nella banale identificazione con una forma di meccanicismo», ma che si sforza di «prendere in considerazione l’influenza reciproca tra la dimensione fisica e quella morale» (ivi, p. 109).
Il risultato? Un materialismo bizzarro, se non addirittura contorto, in cui l’esistenza umana non si disperde nel sordo ciclo degli eventi naturali, ma spicca come il suo eccesso inconciliabile. La natura sadiana, che dovrebbe supplire al drammatico vuoto metafisico lasciato dall’evaporazione di Dio, non si limita a rimanere in disparte, indifferente alla vita così come alla morte. Piuttosto, essa è animata da una «volontà annichilente» (ivi, p. 118) che brama lo squilibrio e la distruzione delle forme vitali. È un aspetto che porta con sé delle importanti ripercussioni antropologiche, e che pone Sade in tensione diretta con un altro grande referente del pensiero illuminista, Rousseau: l’ordine sociale è un freno inibitorio, costringe l’essere umano a delle rinunce infelici, eppure, una volta spezzate le sue catene, non ci sono la benevolenza e la convivenza reciproca ad attenderlo, bensì il crimine e la competizione mortale. Più che un repressivo momento di passaggio che attende di essere redento dalla virtù umana, per Sade la civiltà è l’esito necessario della «disuguaglianza» e del «dispotismo» tipici della nostra specie (ivi, p. 155). Peggio delle bestie, come ci piaceva dire una volta.
Lo vediamo bene nelle tre distinte versioni del romanzo Justine, in cui l’aspetto narrativo viene progressivamente divorato da quello filosofico, fino a ridursi a un’unica, mostruosa tesi o, meglio ancora, a un aborto dell’intelletto: la virtù è diabolica, fonte di sventure, e laddove non fosse l’uomo a scoraggiare una simile depravazione, ecco intervenire il cielo (dopo aver tollerato indicibili soprusi, la povera Justine viene carbonizzata da un fulmine). Non per nulla, come nota Menin, con Juliette – il rovescio puntuale di Justine – si arriva a un risultato ancor più emblematico: la psicologia e la verosimiglianza lasciano completamente il posto all’idea incarnata a tutto tondo dalla protagonista e dai criminali che la circondano, al fatto che l’ingiustizia sia inscritta nelle stelle prima ancora che nell’animo umano. E se in Justine e Juliette la polarizzazione tra libertino e preda, carnefice e vittima, è ancora netta, in La filosofia nel boudoir assistiamo a una contaminazione tra le due posizioni che ci pone di fronte a uno sconsolante ideale di tolleranza: tutti, nessuno escluso, sono moralmente chiamati a godere dell’altro, a fare di esso uno strumento per coltivare il proprio egoismo. Se la casta Eugénie può essere condotta nel boudoir, una stanza di mezzo collocata non per nulla «tra la camera da letto e il soggiorno», e cioè tra la stanza dell’eros e quella del logos (ivi, p. 65) e uscirne come una criminale, allora non c’è più valore ideale che tenga. Persino la pedagogia e la medicina, pratiche ortodosse per definizione, si rivelano dei mezzi per guidare l’anima alienata nell’ipocrisia morale verso l’erudizione del vizio.
La fine del contratto sociale, resa emblematica tra le pagine distopiche de Le 120 giornate di Sodoma, innesca l’estremizzazione definitiva e irreversibile dell’egoismo e della sete di dominio, riportandoci tra le fauci della natura-coccodrillo, brutale e deliziosa allo stesso tempo. Deliziosa, perché aperta a infinite possibilità di godimento. Perché in grado di legittimare tutte quelle pratiche giudicate perverse dall’ordine sociale (sodomia, ermafroditismo, pederastia, tortura). Brutale, perché colpevole di «aver infuso nell’essere umano un desiderio straziante e irrealizzabile», di averlo illuso che il dilagare del crimine l’avrebbe reso altrettanto onnipotente della natura da cui proviene (ivi, p. 122). La natura oltraggia i valori (limiti) umani, ma non può essere a sua volta oltraggiata. Per di più, essa gode di questo scarto, si compiace della sua stessa crudeltà nell’abbandonare l’essere umano a una perenne insoddisfazione. La ferocia, che ci piaccia oppure no, è il nostro tratto distintivo e, contemporaneamente, il nostro limite invalicabile. E non c’è niente, al di fuori o al di sopra di noi, che giustifichi le conseguenze del nostro operato. Se siamo feroci, allora è di un’etica della ferocia che abbiamo bisogno.
Quando negli anni cinquanta il giovane editore Jean-Jacques Pauvert ebbe la folle idea di ripubblicare l’opera del marchese sfidando la censura, fu subito indetto un processo. Vennero chiamati a testimoniare i più eminenti intellettuali della Francia dell’epoca e, tra questi, a spiccare particolarmente fu la deposizione di Georges Bataille, che per qualche secondo ammutolì l’uditorio ponendolo dinnanzi a una verità sconveniente: «Credo che, per chi voglia indagare sino in fondo ciò che significa l’essere umano, la lettura di Sade sia non solo raccomandabile, ma assolutamente necessaria» (ivi, p. 16). Ecco, il libro di Menin, oggi, meriterebbe di essere letto per gli stessi motivi. Per ricordarci ancora una volta il peso etico della tolleranza. Per tenere a freno l’odio e il disprezzo nei confronti della diversità senza passare necessariamente né per il fanatismo giubilatorio (“diverso è meglio”), né per la condanna morale (“diverso è male”). Ogni volta che la meteora Sade si riaffaccia nel cielo, ci sentiamo tutti un po’ mortificati. Non per il marchese, ma per l’immagine che abbiamo di noi.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, Nottetempo, Milano 2008.
J. Janin, Il marchese de Sade, Salerno Editrice, Roma 2006.
Marco Menin, Il sole nero dei Lumi. Sade filosofo, Carocci, Roma 2023.