Amelio secondo il cinema. Aldo Braibanti torna tra i portici di Fiorenzuola d’Arda per assistere al funerale della madre come Athos Magnani a Tara per scoprire la verità su suo padre. Subito dopo rincontra l’allievo Giovanni nella campagna emiliana mentre si sta allestendo l’Aida di Verdi. Usufruisce di un permesso speciale dal carcere dopo esser stato condannato per “plagio” (ovvero resa di qualcuno in uno stato di soggezione, reato fascista poi estinto nel 1981) dello stesso Giovanni, di cui è stato amante e che a sua volta è stato rinchiuso in manicomio e sottoposto a elettroshock per “guarire” dalla sua omosessualità. Sembrano Francesco Barilli e Morando Morandini a Palazzo Ducale durante la Festa dell’Unità in Prima della rivoluzione (Bertolucci, 1964), o anche Jill Clayburgh e Tomas Milian nell’ultima scena de La luna (Bertolucci, 1969). E ancora i ragazzi del torrione Farnese di Castell’Arquato (dove Braibanti aveva fondato il suo laboratorio artistico prima di fuggire a Roma con Giovanni) vestiti come i contadini e i borghesi di Novecento (Bertolucci, 1976), o Aldo stesso che ha la prossemica e la mimica di Pasolini (rivisitato dal Defoe di Ferrara) nell’intensa interpretazione di Luigi Lo Cascio.

Sequenze da Bertolucci, Pasolini, ma anche Rosi, Petri, Bellocchio, Grifi. Il “caso Braibanti” è certamente un’archè decisivo del cinema (e della Storia) dei primi anni Sessanta in Italia, delle sue contaminazioni con i movimenti reali (sottolineate nel primo piano anacronico di Emma Bonino tra i manifestanti di Piazza Cavour), delle sue spinte iniziali neoavanguardistiche e contestatrici (come nell’intensa scena in cui Aldo chiede alla sua allieva attrice di “performare” invece che recitare). E non solo perché a difesa dell’intellettuale emiliano accusato e condannato per plagio e omosessualità si mossero i più importanti cineasti e intellettuali dell’epoca, quanto perché la figura di Braibanti rappresenta il modello dell’intellettuale italiano di quella generazione nata nel dopoguerra che avrebbe poi precorso molti valori e istanze esplosi nel ’68. Un intellettuale disconosciuto (molto più di Pasolini), eclettico (pittore, musicista, teatrante), lontano dalle élite marxiste e dalle correnti organiche del P.C.I. (che il film rappresenta nella dialettica tra il redattore interpretato da Elio Germano e l’allora direttore dell’Unità Maurizio Ferrara), punito dall’opinione pubblica e dalla giustizia unicamente in quanto “diverso”, omosessuale e politicamente non inquadrato.

Ma al di là dei numerosi referenti metafilmici è lo sguardo empirico, quasi laboratoriale, di Amelio a trasformare la cronaca del “caso Braibanti” in una metafora della narrazione cinematografica stessa e della sua capacità di aderire allo sviluppo oggettivo della realtà di quegli anni, inesorabilmente annichilente per l’uomo che ne è stato vittima. Come in Porte aperte (1990) e ne Il primo uomo (2011), ogni evento (i primi anni in Emilia, l’arrivo a Roma, l’amore con Giovanni, le accuse, il processo e la condanna) si sussegue infatti in un rapporto di inesorabile causalità, senza scarti o soluzioni di continuità, quasi fosse tragicamente inevitabile. A partire dalla drammatica sequenza iniziale in cui Giovanni viene strappato a forza dal letto in cui giace con Aldo e condotto in manicomio per essere “curato”. L’inizio di un lungo e progressivo abisso dell’umano che solo il finale verdiano (come in Bertolucci) è capace in qualche misura di rovesciare.

Ma rispetto ai film precedenti qui la forza del racconto lucido e spietato di Amelio risiede proprio nell’immagine delle formiche che sembra guidare il percorso di Braibanti (che tra le altre cose era anche un mirmecofilo dilettante). Emerge chiaramente in una sequenza decisiva del film in cui i due amanti sono soli nel torrione Farnese e osservano la vasca di vetro dove Aldo conserva le formiche della sua collezione. Gli insetti si aprono varchi attraverso il terreno deposto sulla parte inferiore, sono costantemente in movimento, operano per trovare un rifugio che possa proteggere il loro vivere comune. Hanno persino uno “stomaco sociale”, come afferma a un certo punto Giovanni, che gli permette di conservare il cibo per se stesse e per le altre, alla continua ricerca di uno spazio sotterraneo in cui ripararsi. È ciò che il giornalista dell’Unità (Germano) ricorda a Aldo quando va a trovarlo in carcere dopo la condanna, dicendogli che in fondo il suo destino è stato lo stesso delle formiche, alla ricerca di una prigione in cui nascondersi.

Una vera e propria strategia di vita intellettuale, in cui la condanna politica e esistenziale al sottosuolo è la sola in grado di rendere visibile quell’autenticità che la società ha voluto tragicamente negare (intellettualmente e poi giuridicamente). Una condizione che oltre a Braibanti numerose donne e uomini di cultura in Italia, nel Novecento e non solo, hanno dovuto purtroppo sperimentare.

Il signore delle formiche. Regia: Gianni Amelio; sceneggiatura: Gianni Amelio, Edoardo Petti, Federico Fava; interpreti: Luigi Lo Cascio, Elio Germano, Leonardo Maltese, Sara Serraiocco; produzione: Kavac Film, IBC Movie, Tenderstories con Rai Cinema; origine: Italia; durata: 134′; anno: 2022.

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