Voilà. Je vous quitte
(Jacques Lacan, 11 marzo 1980).

Se c’è qualcosa che l’interminabile vicenda del virus Sars-Cov-2 ci sta, a suo modo, “dicendo”, è proprio quanto sia indicibile il reale. Un reale che è tanto più indicibile quanto più, ovviamente, ne diciamo. Più i discorsi e le parole aumentano meno riescono anche solo a graffiare il reale del virus. In effetti ogni giorno ci viene detto che ne sappiamo di più, sulla sua origine, sulla sua struttura molecolare, sugli effetti che causa, sulle sue mutazioni, e così via. Tuttavia rimane l’insoddisfazione per questo sapere, che ci dà sempre più notizie su come è fatto il virus, ma non aggiunge nulla sul fatto indicibile che c’è il virus. Secondo lo psicoanalista Jacques Lacan nell’irriducibile scarto fra come e che – scarto che è al centro delle ultime vertiginose pagine del Tractatus logico-philosophicus – precipita il disagio umano che la psicoanalisi ha la pretesa non certo di “curare” ma almeno di mostrare.

Ma in che consiste, propriamente, questo scarto? Torniamo al virus, l’oggetto assoluto del nostro tempo. Anche se sapessimo tutto del virus, ma proprio tutto, rimarrebbe senza risposta la domanda su quello che rappresenta il virus nelle nostre vite. Rimarrebbe cioè senza risposta il senso del virus. Ora, è evidente che quel senso non esiste, dal momento che non esiste qualcuno o qualcosa che stabilisce il senso di un evento, tantomeno di un virus: tuttavia l’animale umano è l’animale che, parlando e parlandosi, non fa che interrogarsi sul senso. Per questa ragione per Lacan la struttura mentale umana è tendenzialmente paranoide, perché cerca e vede dovunque un senso possibile. Ma siccome il senso di un virus non esiste nello stesso modo in cui esiste il suo genoma, ecco allora che si apre un intervallo sconfinato – lo scarto fra “come” e “che” – dove si colloca un domandare senza risposta. Ma si può dire che esista il senso di qualcosa? In realtà “esiste” solo nei discorsi che intrecciamo intorno ad esso. Ma questo vuol dire che, propriamente, il senso non è reale. Siamo arrivati al punto, gli umani sono malati di senso, ossia sono malati di irrealtà.

In questa diagnosi lacaniana è implicito un immediato paradosso, dal momento che la psicoanalisi è, secondo la celebre definizione data da una delle prime persone ad essere trattate secondo questo metodo, Bertha Pappenheim (Anna O.), una “talking cure”, cioè una cura parlata, fatta esclusivamente di parole e discorsi. Come può allora il senso curare l’inesausto bisogno di senso? Evidentemente non può. Lacan si scontrò sempre con questa evidenza, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, in cui cercò in molti modi diversi di fare a meno del senso. La storia dettagliata di questi anni decisivi è ora raccontata in modo analitico e perspicuo nel libro di Gioele Cima, Il Seminario Perpetuo. Il tardo e l’ultimo Lacan, Orthotes 2020. Si tratta di un libro davvero importante, sia per il tema che affronta, sia per l’accuratezza della ricostruzione storico-teorica con cui questa vicenda viene ricostruita.

Se ora torniamo al tema del “reale” (come quello del suolo di Marte ripreso da una sonda automatica: forse solo una macchina può sopportare la vista del reale del mondo) e alla sua elusività, già il titolo ci mette sulla giusta strada: il Seminario perpetuo è un seminario che non finisce, che non può finire, perché non c’è modo di fermare la deriva del senso. Tuttavia Lacan non ha cercato altro che un modo per farla finita con il senso. Si coglie così la rilevanza filosofica del lavoro teorico di Lacan, che si estende oltre l’ambito della psicoanalisi, che poi è il motivo per cui la filosofia, in particolare in Italia, è così interessata a Lacan. Nell’ultimo e ultimissimo Lacan, per usare l’espressione di Cima, in questione non è altro che il tema dell’intrinseca elusività del senso. E quindi, rovesciando la prospettiva, il tema non è altro che l’intrinseca inafferrabilità del reale.

Ma in che senso (non si scappa mai dal senso, appunto), infine, quello del senso costituirebbe un problema? Se ci si preoccupa del senso si sta trascurando il reale, cioè la vita effettiva che si sta effettivamente vivendo. La vita qui, ora, la vita che si sta vivendo non quella del come la si sta vivendo (un “come” che non sarà mai davvero come avremmo voluto viverla). Si pensi al tipo di esistenza che il reale del virus ha, almeno momentaneamente, interrotto, la vita al tempo del capitalismo planetario: quella del desiderio, dell’investimento su di sé, del viaggio perpetuo; una vita, appunto, sempre spostata oltre l’istante presente. Vivere nel senso significa non vivere nel reale. Significa vivere nella mente e non nel corpo, nell’aspettativa e non nel momento. Vivere nello scarto.

Scartare lo scarto, si potrebbe dire con un facile gioco di parole. La psicoanalisi non consiste in altro: non provare ad attribuire un senso allo scarto fra “come” e “che”, bensì proprio e soltanto nel provare a uscire da quel buco e cercare di godersi la vita che c’è, non quella che potrebbe esserci. Per questa ragione, come osserva Cima, «la psicoanalisi dunque, pur essendole tanto prossima da “tender[vi] irresistibilmente”, è l’ultimo baluardo contro il trionfo della religione» (ivi, p. 449), cioè contro il trionfo del senso. Può non essere inutile precisare che quando Lacan parla di “religione” non parla tanto di Dio e dell’Inferno, quanto di tutte le manifestazioni del senso ultimo, come il Mercato per un economista, la Scienza per un medico o l’Ambiente per un ecologista. La psicoanalisi, in quanto pratica del reale, non sa che farsene del senso.

Per questo la psicoanalisi è intrinsecamente realista, perché non crede al senso, qualunque esso sia, soprattutto non crede ovviamente che esista un senso psicoanalitico: «Il senso è una componente irriducibile ed essenziale della vita di ogni soggetto: il fatto stesso che si parli, inevitabilmente, presuppone l’ipotesi Dio, e la religione lavorerebbe proprio da industria del senso, una macchina inarrestabile che mette il soggetto al riparo dalla desolante indifferenza del reale» (ivi, pp. 449-450).

Questa ammissione di brutale realismo – e quindi di ateismo – pone l’analista in una posizione molto scomoda, dal momento che tipicamente le persone vanno in analisi proprio per trovare un senso alla propria esistenza. Ma un analista che sia colluso con questo desiderio passa dalla parte della religione in quanto discorso del senso, cioè passa dalla parte della malattia e non della “cura”: mentre invece «Il discorso dell’analista è il rovescio di quello del padrone in virtù del suo costitutivo decentramento dalla posizione dominante: esso è uno scarto senza padronanza che l’analista “deve sostenere da solo sino al momento in cui finalmente l’altro ne riconosca la funzione”» (ivi, p. 78). Si va in analisi per fare esperienza del non avere bisogno di un senso. Si va in analisi per diventare realisti, quindi per non credere né in Dio né nel Mercato: infatti «La psicoanalisi […] [funziona] proprio come operatore di non-senso, perpetuando la demistificazione radicale delle elucubrazioni ideologiche» (ivi, p. 448).

Ma che significa, in definitiva, diventare realisti, o atei che in fondo è la stessa cosa? Alla conclusione della sua accuratissima ricostruzione storica del pensiero dell’ultimissimo pensiero lacaniano, cioè di quel pensiero che si può osare solo da vecchi, quando ci si è liberati di ogni estrinseca sovrastruttura teorica, Cima mostra un Lacan che si sbarazza anche dell’ultimo feticcio della psicoanalisi; di quello stesso “inconscio” che in fondo, come sostiene nel suo ultimo Seminario, il xxvii, Dissolution del 1980, non è altro che un «malinteso». Ma se l’inconscio è un malinteso, che ne è, infine, della psicoanalisi? Se prendiamo sul serio la proposta di Cima, cioè la psicoanalisi come un ateo e materialistico «operatore del non-senso», allora la psicoanalisi non solo non sta né può stare dalla parte della religione (neanche quella mite del dialogo e della misericordia) e dell’etica (qualunque essa sia, da quella fenomenologica dell’empatia a quella dell’intersoggettività ermeneutica); la psicoanalisi diventa una prassi che smonta ogni malinteso ideologico del senso, una prassi che non sembra avere altro scopo che collocare ogni “parlessere” nella sua irriducibile singolarità corporea, quello che Lacan chiama «sinthomo» (cioè «il modo singolare in cui ciascun soggetto “gode” del proprio inconscio»; p. 388). Liberarsi dell’inconscio, vuol dire, allora, liberarsi della stessa psicoanalisi, cioè del bisogno di un sapere che guidi alla ricerca del senso:

L’errore dell’animale parlante allora, la sua debilità mentale, sta nel credere che il linguaggio possa schiudergli un sapere assoluto, ovvero condurlo, come nel Faust, ad uno svelamento totale del sapere. Tutt’al contrario, egli è nel pieno del “malinteso [malentendu]”, perché il linguaggio è, per usare […] un termine del Seminario XXI, un puro troumatisme (gioco di parole tra trou (buco) e traumatisme (trauma)), un’invenzione che subentra proprio per supplire all’incompletezza del reale. Il fatto che si parli è la prova lampante che siamo inchiodati al non-tutto, a “pezzi” di reale. La psicoanalisi ribadisce questa verità d’incompletezza ogni giorno (ivi, p. 450).

             Gioele P. Cima, Il seminario perpetuo: il tardo e l’ultimo Lacan, Orthotes, Nocera Inferiore (Sa) 2020.

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