“Questione meridionale” è forse l’espressione – definitoria, classificatoria e in sé, probabilmente, consolante, pur nella sua apparente desolazione – che può venire più rapidamente associata a un libro che si intitola Il rovescio della nazione. La costruzione coloniale dell’idea di Mezzogiorno (Tamu, 2022). Tuttavia, per quanto si tratti di una vicenda irrisolta, sia dal punto di vista materiale che da quello della costruzione dell’immaginario, non è la “questione meridionale” classicamente intesa a costituire il vero centro di questo saggio di Carmine Conelli. La sua introduzione, del resto, si apre con una serie di avvertenze su ciò che il libro non è: «nessuna verità nascosta sulla storia dell’unificazione», «nessuna narrazione consolatoria sulla rapina e sul saccheggio del sud Italia», «nessun dato sui problemi atavici del Mezzogiorno» (ivi, p. 7), e così via. «Se facesse anche solo una di queste cose», continua Conelli, «conserverebbe in qualche modo le caratteristiche di un discorso che offusca, e che ha offuscato in passato, la realtà delle condizioni di vita nel sud Italia» (ibidem, p. 7).

In effetti, continuare a parlare della “questione meridionale” nei termini divenuti convenzionali ne appiattisce quei contenuti politico-culturali che, invece, sono potenzialmente dirimenti – rendendo inservibile, tra l’altro, il riferimento all’opera di Gramsci che non risulta, così, né approfondita né storicizzata – e che vengono presentati già nella quarta di copertina di questo libro, ossia «un nemico interno che sarebbe rimasto tale: le classi popolari meridionali». Già da queste prime righe, si può osservare come il saggio di Conelli intenda svilupparsi nei termini di un’indagine sulla «costruzione coloniale del Mezzogiorno» che tenta, di continuo, di tenere insieme due tra le anime più forti degli studi postcoloniali – l’ambito di formazione e ricerca di Conelli (sua la curatela, insieme a Eleonora Di Meo, di Genealogie della modernità. Teoria radicale e critica postcoloniale, nel 2017), ma un ambito sempre, a propria volta, sformato, nella sua continua tensione al superamento delle forme, nonché degli steccati, disciplinari.

Si tratta, in altre parole, dell’approccio decostruttivo e di quello marxista: da una parte, c’è il binarismo nord-sud che, come ogni altra dicotomia passata al vaglio di una lente decostruttiva, rivela la prevalenza gerarchica di un termine sull’altro, nonché il loro agonismo interno (“con il sud che non è ancora nord”, come si è sostenuto, ad esempio, in merito alla diversità dei processi di industrializzazione); dall’altra, vi è l’analisi delle circostanze materiali e dei discorsi che continuano a relegare le “classi popolari” in una posizione di alterità immobile e immobilizzante, negando loro quel dinamismo che invece è proprio delle classi subalterne. Quest’ultimissimo riferimento rimanda implicitamente a uno degli assi teorici più importanti nella costruzione del libro: la trasformazione dell’eredità gramsciana nell’ambito degli studi subalterni, nati come scuola storiografica indiana e ultimamente approdati nella ricezione italiana con varie traduzioni importanti, sia in forma antologica (come l’importante Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo, a cura di Ranajit Guha e Gayatri Chakravorty Spivak e, in Italia, di Sandro Mezzadra, del 2002) che a nome di singoli autori. Fra tutti, forse, spicca il nome di Dipesh Chakrabarty, con Provincializzare l’Europa, pubblicato in Italia nel 2004: il riferimento ai Subaltern Studies indiani, dunque,  è anche un modo per decentrare le prospettiva analitiche più marcatamente eurocentriche e, di conseguenza, nel nostro caso, anche una prospettiva “meridionalista” classicamente intesa.

Di conseguenza, se il libro si mantiene distante da ogni apologia manichea del brigantaggio “buono” contro l’imperialismo savoiardo “cattivo”, o dalle varie nostalgie neoborboniche sorte negli ultimi anni – trattando in modo più favorevole, ma tutto sommato prudente, la rivendicazione identitaria “terrona”, ossiache si appropria con orgoglio del noto insulto anti-meridionale – questo lo si deve anche alla sua apertura verso orizzonti globali, particolarmente visibile nel secondo, e assai prezioso, capitolo del libro. L’archivio coloniale è un archivio globale, come sottolinea nella sua prefazione anche Iain Chambers (che, del resto, è stato uno dei pionieri, in Italia, di tale apertura di campo, con una vasta produzione saggistica tra le quali spicca, citato anche da Conelli, il libro Sulla soglia del mondo. L’altrove dell’Occidente, del 2003): «Pensare con i diversi sud del mondo non significa quindi solo indicare l’evidenza storica e culturale dei modi in cui l’Occidente ha “sottosviluppato” il resto del pianeta nel corso di molti secoli di dominio. È anche registrare come l’attuale costituzione delle istituzioni e delle identità europee, la sua democrazia, il suo sapere e la sua capacità di formare un soggetto siano sostenuti e riprodotti attraverso quella storia e quella colonizzazione» (ivi, p. 214).

Oltre a essere un punto di riferimento teorico per Conelli, Chambers ha recentemente visto ripubblicata un’altra delle sue opere, Mediterraneo blues. Musiche, malinconia postcoloniale, pensieri marittimi (2020), per i tipi di Tamu, la realtà editoriale che Conelli ha contribuito a fondare, a Napoli, e che ora propone Il rovescio della nazione, dopo aver portato o riportato in Italia le opere di bell hooks, Saidiya Hartman, Stefano Harney e Fred Moten, Ilan Pappé, Marielle Franco (e la lista, in pochi anni di vita della casa editrice, è ancora molto lunga). Oltre a mettere in pratica i principi teorici enucleati nel proprio libro, la politica editoriale di Tamu ha recentemente consentito di aggiornare una biblioteca globale degli studi postcoloniali in lingua italiana, rimasta per certi versi ancorata alle traduzioni del primo decennio del ventunesimo secolo – opere imprescindibili (come quelle, già citate, di Spivak, Guha e Chakrabarty), di certo, ma che impongono anche, con la loro presenza, di continuare un dialogo e una riflessione che, invece, ampi settori della ricerca accademica, nonché del dibattito culturale, tendono a criticare e, talvolta, a respingere in blocco, assimilando tutto ad alcune categorie – prima il politically correct, poi la cancel culture – che con essa hanno poco a che fare.

Un altro grande pregio del libro risiede nell’approccio, già menzionato, alla storia, cultura e politica delle classi popolari, con un excursus che si mantiene talvolta a volo d’aquila, ma che è in grado di tenere i molteplici fili che legano tra loro vicende diverse. Dal secondo dopoguerra in poi, Conelli attraversa molti episodi: l’eccidio di contadini nel comune crotonese di Melissa, nel 1949; i flussi migratori verso i poli industriali del nord negli anni Cinquanta e Sessanta, con la formazione delle famose “coree” nelle periferie delle città settentrionali (definizione, questa, a sua volta sintomatica della necessità di un pensiero globale del sud); i movimenti di auto-organizzazione politica nelle città del sud, con la citazione di un libro tanto importante quanto ingiustamente dimenticato come Lettere dall’interno del P.C.I. a Louis Althusser (1969) di Maria Antonietta Macciocchi, personaggio assai rilevante in questa vicenda, e così via, arrivando fino ai giorni nostri.

Sorvolando forse un po’ rapidamente su quello che è stato l’impatto dei fenomeni migratori di massa sul sud e non dal sud, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, la ricostruzione termina con l’assassinio di Ugo Russo, avvenuto il 1 marzo 2020, poco prima che l’Italia entrasse in lockdown, come puntualmente ricorda Conelli, evidenziando come il successivo evento abbia contribuito a cancellare la memoria dei fatti di poco precedenti. È soltanto negli ultimissimi mesi che tale vicenda ha conosciuto la chiusura delle indagini preliminari e l’avvio di un procedimento penale, dopo due anni di richieste di “verità e giustizia” da parte dei genitori e dei movimenti sociali napoletani e meridionali. Conelli coglie questa occasione per avviare un importante approfondimento della disamina della situazione culturale e politica delle classi popolari meridionali: «A Napoli, il discorso che addossa ai meridionali la responsabilità dei problemi della nazione sulla scala d’analisi cittadina viene diretto dai quartieri benestanti della città e dalla piccola borghesia verso le classi popolari […] al di qua del velo c’è la civiltà, dall’altro lato ci sono i “selvaggi”» (ivi, p. 195). Di nuovo, e secondo quelle linee di faglia abilmente individuate dal saggio di Conelli all’interno del sud, o meglio dei tanti sud essitenti, «[p]er degradare una larga fetta del proletariato marginale urbano al rango di classe pericolosa, si utilizza spesso un linguaggio di origine coloniale» (ivi, p. 196).

Un certo linguaggio e, con esso, una determinata situazione di “colonialità”, che tendono a ripetersi e riprodursi, ed è anche per questo che contributi come quelli di Conelli sono oggi quanto mai preziosi, allo scopo di «favorire letture nuove e diverse delle questioni che gravitano intorno alla realtà meridionale, lontane dagli angusti recinti in cui essa è continuamente circoscritta» (ivi, p. 16).

Riferimenti bibliografici
I. Chambers, Mediterraneo blues. Musiche, malinconia postcoloniale, pensieri marittimi, Tamu, 2020.
C. Conelli, E. Di Meo, a cura di, Genealogie della modernità. Teoria radicale e critica postcoloniale, Meltemi, 2017.
R. Guha e G. C. Spivak, a cura di S. Mezzadra, Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo, Ombre corte, 2002.
M.A. Macciocchi, Lettere dall’interno del P.C.I. a Louis Althusser, Feltrinelli, 1969.

Carmine Conelli, Il rovescio della nazione. La costruzione coloniale dell’idea di Mezzogiorno, Tamu, Napoli 2022.

*L’immagine presente all’interno dell’articolo e in anteprima è un dettaglio della copertina del libro. 

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