Distesa in spiaggia su un telo da mare, prona e in topless, occhiali da sole e radio accesa, una ragazza sola, all’annuncio del segnale orario, si alza e sbattendo gli zoccoli sull’asfalto attraversa incroci e strade vuote. Si fa prima allacciare il reggiseno da un uomo vicino ad una bancarella, poi bagnare con un getto d’acqua da un altro uomo che annaffia l’asfalto, prima di alzare la saracinesca del negozio di parrucchiere dove lavora: è l’inizio di Io la conoscevo bene (1965) di Antonio Pietrangeli, che contiene già molto del personaggio di Adriana Astarelli (Stefania Sandrelli).
Emerge fin da subito lo stile di vita segnato dai tempi: autonomia (sola sulla spiaggia), essere alla moda (occhiali da sole), attenzione al presente (radio), assenza di pudori (si fa allacciare il reggiseno), voglia di flirtare (con l’uomo che la innaffia). E poi a seguire vediamo Adriana nel negozio che sta acconciando una cliente, ha il camice aperto sul retro e si intravedono schiena nuda e costume. Fa cadere a terra una bottiglia che si rompe: un flashback interviene e ci mostra una bottiglia di latte rompersi scivolando dalle mani di Adriana assalita, in abiti di cameriera, sul pianerottolo di una casa da un focoso garzone. Torniamo al presente. Una macchina sportiva si ferma, scesa la sera, davanti al negozio, ne scende un uomo che alza la saracinesca, entra e la riabbassa. È il proprietario, prende l’incasso, va nel retro del negozio dove Adriana stesa sul letto legge Diabolik. L’accarezza, le tira su il camice fino al ventre, le tocca le spalle, le toglie bruscamente di mano il fumetto. Adriana accende la radio e aumenta il volume, e come assuefatta ed estraniata da tutto si concede.
Adriana non è solo uno dei personaggi più singolari e nuovi del nostro cinema, ma è anche, nell’Italia del boom, il primo grande personaggio femminile la cui originalità è nell’assenza di particolarità. Ed è uno dei grandi personaggi che hanno consentito di portare alla massima potenza il romanzesco cinematografico italiano. La grande invenzione del cinema italiano è stata quella di far accedere il cinema alla potenza del romanzesco. Che è cosa ben diversa dalla forza narrativa del film. La narrazione è ciò che ha animato la forma classica del cinema, la saldatura tra tipologia psico-sociale del personaggio e sue modalità d’azione. Il cinema classico in quanto fondato sull’azione ha dato vita alle forme convenzionali di racconto di quest’azione, e cioè ai generi. E il romanzo – lo sappiamo da Bachtin – non è un genere tra gli altri. È semmai una forma transgenerica capace di modificare i generi stessi, facendo perdere loro una presunta “purezza”, riarticolandone la profonda struttura mitica, rendendoli meticci. È qui, nel meticciato, che identifichiamo uno dei tratti specifici della declinazione italiana dei generi: dalla commedia al western, entrambi all’italiana, per l’appunto.
Se il punto di svolta è stato il neorealismo, quando un «popolo senza uniforme» (Godard) si è liberato dalle forme classiche costruite dal binomio azione-narrazione, per accedere attraverso l’intercessione di personaggi erranti e veggenti, alla potenza dello stile, cioè ad una scrittura capace di rispondere all’urgenza e contingenza del presente senza alcuna mediazione dell’intreccio, è con gli anni sessanta che il cinema italiano raggiunge, senza più l’“alibi”di una realtà tragica e scottante da dover raccontare, la potenza del romanzesco. Qui il personaggio è in un rapporto non-armonico con il mondo, anzi è in un rapporto di profonda crisi, che non è dettato però dal carattere dispersivo delle situazioni che attraversa (le città in macerie del dopoguerra), semmai dall’esplodere di mitologie come quelle circolanti nel boom, che creano una frattura e un malessere profondi, per una esperienza che sembra avere sempre i tratti dell’incompiutezza e della inafferrabilità.
Il malessere del personaggio, il suo deambulare in contesti urbani o in paesaggi naturali (La dolce vita e L’avventura), la sua azione inibita o comunque irrisolta, diventano intercessori dello stile dell’autore che libera la sua visione estetica ed etica del mondo, che può passare per un reale che si fa spettacolo (Fellini) o essere restituita da spazi vuoti e tempi morti (Antonioni). Nessuno meglio di Pasolini ha identificato questo cambiamento radicale che avviene nel cinema italiano con la seconda modernità, attraverso la nozione di soggettiva libera indiretta, corrispettivo del discorso libero indiretto del romanzo. La potenza dello stile e della scrittura, svincolati dall’esigenza di riconsegnarci narrativamente l’azione, risiedono nel liberare la potenza di uno sguardo che, usando il personaggio come intercessore, sappia rispondere all’incontro con una realtà contingente e aleatoria da un lato, e disseminata di cliché dall’altro.
In Io la conoscevo bene abbiamo come protagonista di un film “senza storia”, dove non accade nulla neanche nel finale (il salto nel vuoto non è che un atto tra gli altri, restituzione letterale di un vuoto esistenziale), non la figura di un intellettuale narcisisticamente tormentato, ma quella di una ragazza come tante, precipitata dall’arretratezza di un contesto rurale in una città come Roma. Città che per Adriana non ha un centro, e dunque una gerarchia di interessi e di valori: ma è il luogo di un attraversamento indifferente di contesti e situazioni, appartamenti e agenzie pubblicitarie, negozi e incontri con uomini. Rispetto all’eroe tormentato del romanzesco “nobile”, alla ricerca di una identità che si fa sempre più confusa, più smarrita, in cerca di risposte alla sua domanda di senso, Adriana è segnata da un’assenza di domanda: non cerca nulla, non chiede nulla. La sua assenza di destino (contrassegno dell’età) è accompagnata dall’assenza di ricerca di un destino quale che sia (contrassegno dei tempi).
Adriana non cerca qualcuno che le assegni un destino (sarebbe già qualcosa), non è una ragazza che passa da un uomo ad un altro alla inquieta ricerca dell’occasione giusta. Al massimo si “affeziona” a questi uomini, tende cioè a porsi in una zona simbiotica che annulla alla base la possibilità di una mancanza. Adriana è incapace di fare esperienza: non esce nell’estraneità del mondo per poi tornare a sé. Non avendo esperienze, pur incontrando persone ed attraversando situazioni, non lasciando sedimentare nulla, Adriana si sottrae ad ogni possibile formazione, facendo eclissare ogni segno di vita. Dice Pietrangeli:
Oggi ci sono le ragazze-madri, le lolite, le ragazze all’antica, le ragazze-squillo, le ragazze-milione, le ragazze-diecimila, le taxi-girl, le play-girl, le miss, le reginette, le attrici attricette generiche comparse, le ragazze di famiglia che si uccidono per un cinque in latino, le ragazze insoddisfatte a tredici anni che fuggono da Caserta e telefonano da Milano. E poi ci sono le ragazze come Adriana, che non rientra in alcuna di queste categorie. In più, è difficile metterle addosso un’etichetta che ce la definisca tutta, così com’è, in una parola. Adriana è una ragazza tranquilla, serena, allegra,“spensierata” […]. È una ragazza “riposante”. Le va tutto bene. Dove la mettono resta. Dove la portano, va. È ingenua, è remissiva, è spontanea, dice tutto quello che pensa: forse è per questo che parla così poco. Ha una capacità di immobilità pari a quella di un sasso.
La metafora che viene utilizzata per riconsegnare assenza di umanità (cioè di desiderio) e vitalità del personaggio è quella minerale (un sasso) piuttosto che vegetale o animale. Adriana non commette errori di cui è consapevole, ma col suo sorriso “vacuo” transita tra le cose, non lasciando segni né portando segni. Il presente senza spessore è l’unico tempo che sembra vivere.
*R. De Gaetano, Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, in “Fata Morgana – Italia”, n. 30, 2016, ora in Id., Cinema Italiano: forme, identità, stili di vita, Pellegrini, Cosenza 2018.