Racconti fatti di ombre, apparenze che mutano il reale, visioni che si impongono al di là della luce. Sono questi alcuni dei principali elementi che emergono dal recente studio di Antonio Costa dal titolo Il richiamo dell’ombra. Il cinema e l’altro volto del visibile (Einaudi). Un lavoro che ha innanzitutto il merito di osservare in profondità uno degli aspetti determinanti della storia del cinema, ossia il rapporto dinamico che esiste tra luce e oscurità. Una relazione peculiare che, nelle intense riflessioni di Costa, mette in risalto soprattutto il “potere dell’illusione” dettato dall’immagine dell’ombra. «Perché il richiamo dell’ombra, quando tutti sanno che i momenti di massima fortuna del cinema sono legati al sex appeal degli interpreti, al fascino radioso di corpi e volti?» (Costa 2021). È questa l’interrogazione retorica da cui prende le mosse l’autore. Il ruolo dell’ombra appare in effetti in contrapposizione rispetto all’idea dominante di cinema che si ha. Ma questo solo apparente paradosso permette a Costa di iniziare un lungo percorso di attraversamento che, nelle quattro sezioni che compongono il volume, offre una ricognizione attenta sul valore della forma e sul considerevole ruolo che l’ombra ha avuto all’interno della storia del cinema. Immagine per detrazione, immagine per assenza, immagine che si compie nonostante la luce, l’ombra ritrova ora la propria rilevanza.
Il richiamo dell’ombra è un volume a lungo annunciato dal suo autore e messo in prova attraverso numerose conferenze e lezioni tenute in molti prestigiosi Atenei. Eppure, nonostante si potesse pensare di conoscere in anticipo i contenuti del libro, una volta iniziata la lettura ci si trova immersi in una dimensione imprevista e dotata di continue suggestioni, costanti e puntuali richiami alla tradizione cinematografica, sguardi rivolti alla letteratura e alla storia dell’arte, aperture alla filosofia e all’estetica, assecondando un metodo di analisi che si sviluppa su molteplici livelli, ognuno in egual misura necessario e rivelatorio. I numerosi e determinanti riferimenti iconografici presenti, oltre ad aumentare la raffinatezza e l’accuratezza del volume, creano un dialogo costante con le interpretazioni proposte da Costa, offrendo una lettura ancor più densa dei fenomeni analizzati. Tra le pagine, si possono inoltre cogliere richiami ai precedenti studi di Costa: La morale del giocattolo. Saggio su Georges Méliès (1989), Cinema e pittura (1991), la curatela del trattato di Éric Rohmer dal titolo L’organizzazione dello spazio nel «Faust» di Murnau (1984/2004), e naturalmente l’imprescindibile Il cinema e le arti visive (2002).
Il volume inizia dalla Cape Cod di Edward Hopper, la sottile lingua di terra affacciata sull’Atlantico in cui il pittore ha dato vita a molte delle sue opere lasciando risaltare lo straordinario rapporto tra luce ed ombra offerto dalla natura del luogo. Ci si sposta poi alla rilettura cinematografica dell’opera di Hopper creata da Gustav Deutsch nel suo Shirley: Visions of Reality (2013), mentre sullo sfondo si avverte l’eterno richiamo al mito della caverna esposto da Platone in uno dei passi più noti de La Repubblica. La dinamica tra ombra e immagine cinematografica prosegue scrutando quello che Max Milner chiama «l’envers du visible», un riferimento presente sin dal sottotitolo scelto da Costa: L’altro volto del visibile.
L’ombra ci riporta così ad una condizione di grandezza oggi in parte offuscata dal rapporto con una tecnologia che mitiga e allenta il nostro rapporto con la natura. Basti pensare al fenomeno dell’eclisse e alle parole del filosofo Roberto Casati riportate da Costa in un intenso passaggio del volume dedicato alle opere di Fleischer, Antonioni e Von Trier: «Passare qualche minuto nell’ombra della luna rimette a zero parecchi contatori. Ci riporta a un’epoca dell’evoluzione in cui ci siamo resi conto di essere parte di un mondo molto più maestoso di quelle delle cose che ci accompagnano nella vita di tutti i giorni» (ivi).
Ombra come ripristino di un rapporto con le condizioni di visione imposte dalla natura celeste dunque. Ma anche come elemento di intersezione formale tra cinema, arte, letteratura. Nel terzo capitolo, Costa riflette su opere quali Les 400 farces du Diable (1906) di Georges Méliès, Le avventure del principe Achmed (1926) di Lotte Reiniger, il Faust (1926) di Murnau, il Vampyr (1932) di Dreyer, accostando ad esse puntuali e inattesi riferimenti ad opere letterarie, favole, riflessioni filosofiche. Le piazze deserte di Giorgio de Chirico e le video-installazioni di William Kentridge divengono ulteriori modelli di indagine in cui comprendere le sfumature implicate dalla presenza dell’oscurità. Gli approfondimenti sull’espressionismo tedesco e sul noir americano non fanno che confermare la sensazione, presente lungo l’intero studio, di osservare finalmente l’ombra in tutta la sua complessità, cogliendone sfumature, coloriture, denotazioni. In tal senso i richiami a Paul Leni e a Frank Tuttle sono peculiare per comprendere come il rapporto tra luce e oscurità porti con sé un profondo valore simbolico che solo la forma espressiva delle opere analizzate può avvalorare.
Un volume che fa dell’ombra il proprio centro di riflessione, interrogandosi inoltre sulle ragioni che hanno portato, negli ultimi anni, filosofi, storici, studiosi di arte e di cinema ad osservare da vicino il valore estetico e semantico di quelle zone d’oscurità che si impongono al nostro sguardo all’interno della composizione visiva. Ernst Gombrich, Victor Stoichita, William C. Sharpe, Max Milner, Dominique Païni, Jacques Aumont, solo per richiamarne alcuni, sono tra i riferimenti più in evidenza all’interno del volume. Studiosi dal cui contributo bibliografico Costa coglie riferimenti teorici e distinzioni interpretative, per aggiungere infine una preziosa indicazione, ossia che l’ombra, mai come oggi, trova valore e significato all’interno dell’immagine filmica. Di più: è l’ombra a rappresentare l’inatteso, a dar vita all’eccezione.
Come accade in Cave of Forgotten Dreams (2010), il documentario di Werner Herzog dedicato alla grotta Chauvet e ai dipinti del Paleolitico superiore rinvenuti alle pareti. Non a caso Costa sceglie di concludere la sua esplorazione proprio su questo lavoro. Un film documentario in cui Herzog osserva come a dare movimento ai corpi animali rappresentati non sia la luce, bensì l’ombra: quella racchiusa oscurità prodotta dalle fiaccole degli uomini che abitavano la grotta, quell’«ombra che sfugge al controllo del suo portatore» (ivi). Proprio come accade a Fred Astaire in Follie d’inverno (1936) di George Stevens, nella sequenza scelta da Herzog come contrappunto al suo percorso di scoperta interno alla caverna. L’ombra sorprende, l’ombra muove, l’ombra illumina.
Nel suo precedente e affascinante studio La mela di Cézanne e l’accendino di Hitchcock (2016), Costa presentava una attenta distinzione dei significati che gli oggetti possono assumere all’interno dell’immagine filmica. Il richiamo dell’ombra si sofferma invece sull’ombra prodotta da questi oggetti, sul segno che corpi e materia lasciano alle loro spalle una volta toccati dalla luce. La silhouette come oggetto a sé, come corpo oltre il corpo. Con questo studio, Antonio Costa torna a dare una indicazione precisa e profonda di che cosa possono ancora dirci gli studi sul cinema, di quanta e quale ricchezza espressiva goda ancora oggi l’arte cinematografica. Una forza rivelatrice, misterica, capace di fare dell’oscurità un fattore sintomatico, vitale e prodigo di significati.
Riferimenti bibliografici
R. Casati, La scoperta dell’ombra, Laterza, Roma-Bari 2008.
M. Milner, L’envers du visible, Éditions du Seuil, Paris 2005.
*L’immagine di anteprima dell’articolo è un dettaglio della copertina del libro.
Antonio Costa, Il richiamo dell’ombra. Il cinema e l’altro volto del visibile, Einaudi, Torino 2021.