C’è qualcosa del corpo che viene prima. Prima del genere, del nome, del ruolo, dell’immagine. È una materia che pulsa, che resiste, che non si lascia del tutto leggere. L’enigma non è un velo da sollevare, ma il punto in cui il corpo si sottrae a ogni forma. È il reale del corpo, ciò che eccede, ciò che non torna nei conti. Eppure, senza nessuna attribuzione, il corpo resta muto. Ha bisogno di essere chiamato, riconosciuto, attraversato dal linguaggio. Il corpo c’è – ma per esistere deve anche essere detto. È questa la sua tensione: tra ciò che lo precede e ciò che lo costruisce, tra ciò che resta e ciò che appare. È nel cinema, più che altrove, che questa tensione si fa visibile.

Allo scopo  propongo due film molto diversi – M. Butterfly di David Cronenberg e Conclave di Edward Berger – per mostrare come, in entrambi i casi, il corpo metta in crisi l’ordine simbolico aprendo una ferita nella grammatica del sesso, del potere, dell’identità. Nel cinema, il corpo è sempre presente e sempre sfuggente. Non lo tocchiamo, non lo odoriamo, non lo abitiamo: è un’immagine. Eppure, proprio perché è immagine, il corpo cinematografico può diventare una soglia: tra ciò che si mostra e ciò che resta fuori campo, tra ciò che si rappresenta e ciò che si suggerisce.

In Conclave, non vediamo mai l’organo che scatena il turbamento — non ci serve: è il suo effetto simbolico a scuotere l’istituzione. In M. Butterfly, il corpo di Song si rivela essere una proiezione di Gallimard. Il corpo, allora, non è mai dove crediamo di vederlo, resta infatti nella tensione tra visibile e invisibile. Il cinema, si regge, in quanto arte della visione, su questa assenza centrale. L’enigma non è nel corpo, ma nello sguardo che lo cerca. C’è un momento, in Conclave, in cui il corpo del Papa smette di essere sacro per tornare umano. Non per debolezza, ma per eccesso di verità. È un corpo silenzioso, rivestito di bianco, sorretto da secoli di riti e di silenzi, che custodisce al proprio interno qualcosa che non dovrebbe esserci: un utero. Non c’è scandalo, né isteria. Solo un’impossibilità. Un corpo di uomo che ha al proprio interno gli organi femminili di riproduzione femminile non può essere Papa. Non è previsto. Eppure può accadere. Come una crepa nella pietra. La natura può nella realtà eccedere leggi e regolamenti.

La Chiesa cattolica non è solo una fede: è una coreografia. Ogni gesto è carico di secoli. Ogni parola, ogni abito, ogni silenzio. E al centro, inaccessibile e venerato, c’è il corpo del Papa: un corpo maschile, celibe, scelto tra uomini, consacrato a Dio in quanto padre. Ma cosa accade se quel corpo custodisce, in silenzio, qualcosa che ne contraddice l’essenza? Un segreto biologico. Un paradosso anatomico. Un grembo.

In Conclave, la scoperta non avviene con enfasi drammatica, ma in una sospensione che sfiora il mistico: la rivelazione che il nuovo Papa possiede all’interno del proprio corpo organi riproduttivi femminili genera una domanda che risuona senza trovare risposta: è ancora un uomo? È ancora Papa? O forse – e qui sta il vero terrore – lo è proprio perché ha dentro di sé anche l’altro sesso?

Se in Madame Butterfly era il desiderio a non sapere più dove poggiarsi, in Conclave è il fondamento di ogni certezza  a tremare. Il potere maschile, stabile, ordinatore, si trova a dover fare i conti con l’ambiguità. E non un’ambiguità morale o politica, ma  anatomica. Nel cuore stesso dell’istituzione più normata e normalizzante  si è insinuato un principio di disordine. O meglio: come se un diverso ordine, sempre silenziato e ignorato,  non potesse che emergere in contrasto con la realtà  anatomica dei corpi, divenendo una nuova ineludibile verità. La Chiesa – come Gallimard – si trova davanti a un bivio: negare ciò che vede, oppure cambiare lo sguardo. Ma non si cambia sguardo senza cambiare il mondo.

Allo stesso modo, in M. Butterfly, Gallimard, il protagonista, funzionario dello stato francese di stanza a Pechino, si ostina a considerare Song “la donna perfetta” che serve a confermare il mondo di chi la guarda. È un femminile strategico, imparato, restituito. Sotto il trucco e la voce sottile c’è un altro corpo, un altro sesso, un’altra storia.

Gallimard è l’incarnazione del maschio bianco occidentale che fonda il suo senso di superiorità e di diritto nel possesso dell’“altro” femminile, su stereotipi coloniali: vede in Song l’ideale della donna orientale sottomessa, sensuale e misteriosa. Il corpo di Song  è un simulacro, ma anche uno specchio: riflette l’immagine di un uomo occidentale che desidera essere  amato come solo la Butterfly pucciniana può amare. Quando la verità emerge – svelando che la sua donna perfetta è una costruzione fittizia, anzi è un uomo – il mondo di Gallimard crolla. Non gli resterà che incarnare lui stesso la Butterfly mai esistita e come lei morirne.

C’è qualcosa di deleuziano in queste due storie che ne incarnano il gesto: quello di liberare il corpo dalla sua funzione, dal suo ruolo, dalla sua forma prestabilita. In Madame Butterfly e Conclave, il corpo non garantisce più l’identità – né quella sessuale, né quella istituzionale. È attraversato, contaminato, esposto a un divenire che non si lascia chiudere in una figura. Il sesso non è ciò che si è, ma ciò che si attraversa. E il corpo non è più un sistema organico ordinato, ma una superficie di intensità, di attriti, di possibilità. Come direbbe Deleuze, ciò che conta non è rappresentare il corpo, ma metterlo in movimento. Renderlo capace di altre combinazioni, altri mondi.

Il sesso anatomico è una zona di passaggio, un crocevia: tra corpo e cultura, tra biologia e rappresentazione, tra ciò che siamo e ciò che potremmo essere. È in questa instabilità che l’identità sessuale rivela la sua verità più profonda: essa non è un dato naturale ma una costruzione al pari delle norme e delle leggi.

Due registi, due film, due uomini che mettono in scena i propri fantasmi. Cronemberg e Berger non costruiscono personaggi queer, mettono in scena uomini che non reggono la norma, le cui certezze si incrinano davanti ad una corporeità che contraddice desiderio e norma.

Non sono film sulla femminilità: sono film sulla fragilità del maschile. Cronenberg e Berger, ciascuno a modo suo e a trent’anni di distanza, raccontano il momento in cui l’uomo smette di sapere chi è. E proprio da lì, da quello smarrimento, si apre la possibilità di vedere l’invisibile dei corpi.

Il pensiero di Deleuze fornisce una lente  attraverso cui comprendere come il corpo nel cinema non sia una rappresentazione statica, ma una entità in continua trasformazione, influenzata da forze interne ed esterne.

Il corpo resiste alle assegnazioni innanzitutto perché eccede il linguaggio. Nessun discorso, nessuna parola basta a dire ciò che un corpo vive. Possiamo nominare il dolore, il desiderio, la gioia, ma ciò che accade nella carne resta, in parte, irriducibile al discorso. E proprio qui si gioca una parte del potere: nella pretesa di rendere il corpo trasparente, leggibile, definibile. Ma ogni tentativo di descrivere completamente l’esperienza corporea fallisce. Il linguaggio si infrange contro la materia viva del corpo, che sente, reagisce, cambia, vive. Lo scarto tra ciò che il corpo è e ciò che se ne può dire è quel che rende il corpo politico.

Riferimenti biliografici
G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 1996 (ed. or. 1980).
E. Said, Orientalismo,Feltrinelli, Milano 1980.

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