Conclave non è solo, come è stato scritto in più occasioni, un film di spazi che ritmano ogni inquadratura con la loro ipertrofia claustrofobica, ma è soprattutto un film sulla corporeità e sulla trasfigurazione dei corpi in icone e media. Lo possiamo notare sin dalla specularità tra le sequenze iniziali e quelle finali. La pellicola si apre infatti con due corpi contrapposti. Uno vivo, quello del cardinal Lawrance (Ralph Fiennes), protagonista assoluto e fine dicitore delle mosse del futuro conclave in quanto decano del collegio cardinalizio, inquadrato soltanto sino alle spalle in un primo piano da dietro mentre si sta avviando verso il Vaticano in modo che la nuca azzeri lo spazio circostante (in uno dei pochissimi esterni) e domini tutta l’inquadratura. E uno morto, quello del Pontefice, che prima diventa oggetto di culto dei cardinali che si inginocchiano ai suoi piedi intonando il biblico De profundis, e poi si trasforma in un simulacro del potere senza una guida sballottato su una barella lungo i sampietrini.

Nello stesso modo il film si chiude su altri due corpi. Quello sempre di Lawrance, inquadrato però questa volta frontalmente e dal basso in un sorriso sinestetico che si lascia andare a un ascolto partecipato e liberatorio degli applausi di piazza san Pietro per l’elezione del nuovo Papa, che lo liberano dalla complessa gestione emotiva del conclave che ha appena guidato. E il corpo del nuovo Pontefice Innocenzo XIV (Carlos Diehz), la cui ultima immagine non è, come ci si poteva aspettare, quella con l’abito talare bianco, ma un’immagine da penitente in penombra: perdonato e fiero di fare la volontà di Dio, un Dio che – nel grande colpo di scena che il film mutua direttamente dal romanzo da cui è tratto (Conclave di Robert Harris, 2016), anche se ne riduce sia la durata che l’impatto – lo ha costretto in un corpo dalla doppia sessualità di cui è rimasto ignaro fino ai quarant’anni.

Il corpo nuovo e misto di Benitez si fa così incarnazione della Chiesa del futuro, come ha detto lui stesso nel discorso che ha convinto i confratelli a eleggerlo Papa: una Chiesa che non deve ripiegarsi sul passato, ma incominciare un percorso nuovo, di rottura. Per farlo deve aprirsi al futuro abbandonando il corpo vecchio, quello del Pontefice defunto tirato in causa più volte durante tutto il conclave (e durante tutto il film) come una presenza quasi fantasmatica, eppure intrisa di tanto potere sia nelle parole che nei non detti, tale da condizionare l’esito del conclave stesso e la permanenza del grado di eleggibilità dei futuri cardinali.

L’aspetto più interessante del film del regista tedesco, già premio Oscar con Niente di nuovo sul fronte occidentale (2022), non è tuttavia quello di affrontare tematiche già abusate nelle rappresentazioni della Chiesa o, più genericamente della politica, come il dibattito tra conservatori e progressisti (peraltro piuttosto stereotipato nelle polarità), la dialettica tra l’ermeneutica della continuità e della discontinuità di conciliare memoria, o la necessità di aperture al genere femminile o agli omosessuali (anche queste assegnate più che altro a frasi-slogan piuttosto che essere trattate con profondità di argomentazioni), ma nella trasformazione graduale dei corpi-azione in icone e media. Questo processo è attuato consapevolmente dalla regia di Berger e dalla scrittura di Peter Straughan, che a differenza del romanzo scelgono una strada esplicitamente iconoclastica e mediale, pur muovendosi tra i toni del thriller americano a effetti e a ritmi di colpi di scena.

Icone semoventi, la cui brillantezza inizia a svanire dall’interno, con l’emergere di una serie di scandali, e poi dall’esterno – da cui la scelta di un’estetica cupa e non “brillantinata” e barocca come quella di Sorrentino – con un inverosimile attentato a sfondo religioso – un altro passaggio di trama trattato frettolosamente, che aggiunge carne a un fuoco già molto ricco – che sporca le spalle dei porporati e che mette in pericolo la sopravvivenza dei loro corpi. Eppure Lawrance e gli altri cardinali si rialzano: i loro corpi, con il portato simbolico che incarnano, sono piegati, si incrinano, si tagliano e si coprono di sangue, ferite e detriti, ma non cadono sotto i colpi del mondo esterno, quel mondo a cui loro non possono accedere perché, come ribadisce più volte il decano, sono “segregati”.

Sembra in fondo essere questo uno dei messaggi di Conclave: una pluralità di corpi – i corpi dei cardinali e dei Papi – che sostengono un corpo unico, quello della Chiesa cattolica, attaccato dall’interno e dall’esterno (con echi danbrowneschi piuttosto evidenti, anche se privi dei toni millenaristici), ma che comunque trova sempre un modo per restare in piedi. Corpi umani, còlti mentre fumano sigarette o mangiano per stemperare la tensione, ma che sanno di essere, in quel momento più che mai, un medium della volontà di Dio: un Dio che si fa presente nelle parole di Lawrance, il personaggio più complesso e meglio tratteggiato del film, di cui anzi sarebbe stato interessante sapere di più sulla crisi di fede e sulle modalità con cui sceglie di affrontarla; ma anche nelle tante sequenze del giuramento al momento delle elezioni, e soprattutto nel gioco di sguardi e di campi con gli affreschi del Giudizio Universale di Michelangelo nella Sistina ricreata per le riprese.

Siamo molto lontani, in questo caso, dai cardinali di Nanni Moretti, i cui corpi apparivano svuotati dai loro volti sornioni e confusi, quasi scheletrici, e in cui Dio era completamente assente. I cardinali di Berger sono invece tutti possenti nel loro muoversi, ritagliati in una serie di prossemiche che rispettano pedissequamente le loro posizioni: pensiamo al cardinal Tedesco di Sergio Castellitto, un sornione tradizionalista che dietro all’atteggiamento bonario nasconde (in modo mai celato) l’auspicio di un ritorno all’ordine di Santa Romana Chiesa per combattere l’avanzata islamica. Cardinali che appaiono dunque consapevoli della crucialità del momento che stanno vivendo, e parimenti della responsabilità della loro scelta, per questo si chiedono quale possa essere quella «giusta» per mantenere integro il corpo unico della Chiesa, un corpo che rischia da tempo – il riferimento ai cinquant’anni sembra essere al pontificato di Giovanni Paolo II più che al Concilio Vaticano II – di crollare.

Questa dinamica di esposizione corporea trova la sua estetica più riuscita nel processo di decostruzione del rapporto corpi-ambienti. Su questo versante sono significative almeno due sequenze dell’ultimo atto: quella che ritrae i cardinali che, impossibilitati a stare nella Sistina, si ritrovano nel cinema-teatro dove nelle sere prima si erano incontrati a piccoli gruppi per definire gli accordi sui voti, dunque che appaiono costretti dalle circostante in un spazio che non è per sua natura deputato né al confronto né alla spiritualità, e che vive più di ombre (nella sala) che di luci; e l’immagine dei cardinali che si recano verso san Pietro come delle formichine ciascuno sotto il suo ombrello e al ritmo di una pioggia battente che sembra purificare i peccati di cui si sono macchiati tutti, indistintamente e indipendentemente dalle loro posizioni. Decostruire per ricostruire: usare il dubbio – che agisce nelle voci e nella pioggia purificatrice – come fondamento della fede e come mezzo per costruire una Chiesa nuova (e forse un nuovo mondo).

Il film tuttavia appare poco attento a riprodurre determinati aspetti della ritualità cattolica, come l’errato sigillo della sede vacante, le molte e libere licenze del diritto canonico o l’uso – nella versione in italiano – di termini poco appropriati come “ordine” per “collegio cardinalizio” o “colleghi” per “confratelli”: derive di impatto pop(olare) e finzionale che certamente sono, nelle intenzioni, funzionali per il (grande) pubblico a cui la pellicola si rivolge. La scelta, in generale, non è dunque quella di illustrare i riti del conclave con precisione filologica (ne mancano infatti diversi), ma di mostrare il comportamento delle pedine – ecco che ritornano le dimensioni corporee, iconiche e mediali – in uno scacchiere più ampio.

Il buon funzionamento dei primi due atti del film trova dunque la sua riuscita nella lotta di persistenza di una corporeità ecclesiale unica e al contempo plurale. Certamente tra le righe vi è un discorso rivolto a tutto l’Occidente, che la Chiesa rappresenta metonimicamente con la pluralità di istanze interne, le sue contraddizioni e la necessità di farle collimare in un conteggio dei voti ripreso con ridondanza di piani-sequenza su dettagli, ma che è, comunque, quintessenza della democrazia persino nella versione oligarchica della Chiesa. La soluzione finale del guardare al futuro senza considerare il passato, tuttavia, semplifica in modo frettoloso il percorso del vero protagonista del film, Lawrance, quello attraverso cui lo spettatore percepisce ciò che succede, e che dunque avrebbe meritato un approfondimento maggiore.

Per questo la pellicola appare più riuscita nel processo di decostruzione che nella rapida e abbozzata costruzione dell’ultimo atto: l’apparizione di Benitez infatti è costruita sin da subito come un deus ex machina che non restituisce la complessità delle dinamiche descritte, e non dà neanche credito del percorso interiore complesso che lo ha portato ad accettare la sua corporeità e a continuare a svolgere la sua missione sacerdotale ed ecclesiale. Nonostante questo, Conclave riesce nell’intento di offrire un ritratto autentico non tanto della Chiesa e dell’Occidente, ma delle società di ogni epoca, che si sfidano ai colpi di innovazioni e di cambiamenti cercando di rimanere aderenti a loro stesse. I corpi dei cardinali sono infatti i dispositivi mediali della Chiesa, i quali, cercando di «creare una nevrosi governabile» (Tarzia 2022, p. 31), non devono dimenticare la loro funzione di media-azione tra divino, umano e mondo esterno, anche quando si trovano chiusi tra le mura di un conclave che sembra risucchiare le loro anime.

Riferimenti bibliografici
G. Canova, Divi, duci, guitti, papi, caimani: l’immaginario del potere nel cinema italiano, Bietti, Milano 2021.
F. Casetti, La galassia Lumière: sette parole chiave per il cinema che viene, Bompiani, Milano 2015.
R. Menarini, Il corpo nel cinema: storie, simboli e immaginari, Mondadori, Milano-Torino 2015.
F. Tarzia, Benedetto contro Francesco: una storia dei rapporti tra cristianesimo e media, Meltemi, Milano 2022.
D. E. Viganò, G. Della Maggiore, La storia del cattolicesimo contemporaneo e le memorie del cinema e dell’audiovisivo, Mimesis, Milano-Udine 2024.

Conclave. Regia: Edward Berger; sceneggiatura: Peter Straughan; fotografia: Stéphane Fontaine; montaggio: Nick Emerson; musiche: Volker Bertelmann; interpreti: Ralph Fiennes, Stanley Tucci, John Lithgow, Sergio Castellitto, Isabella Rossellini, Lucian Msamati, Carlos Diehz; produzione: FilmNation Entertainment, House Productions, Access Entertainment, Wildside, Indian Paintbursh; distribuzione: Eagle Pictures; origine: Regno Unito, Stati Uniti d’America; durata: 120’; anno: 2024.

Tags     chiesa, corpo, media
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