La traduzione italiana dell’ultimo film di Xavier Dolan (il primo girato in inglese), La mia vita con John F. Donovan, si discosta dall’originale, che suona The Death and Life of John F. Donovan: letteralmente “La morte e la vita di John F. Donovan”. Questa scelta altera la percezione di un film che a prima vista potrebbe apparire come una “favola triste”: un bambino, Rupert Turner (Jacob Tremblay), aspirante attore, intrattiene segretamente da anni una corrispondenza con il suo idolo, giovane protagonista di una serie televisiva. Il bambino è piuttosto malinconico e solitario: si è di recente trasferito insieme alla madre Sam (Natalie Portman) dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna. La madre spera che il figlio riesca a mantenere un rapporto con il padre, che vive in quel paese. Quando facciamo la sua conoscenza, Rupert è un undicenne solitario e introverso, vessato dai suoi compagni. Il vuoto della sua vita è riempito solo dal rapporto epistolare con l’attore John F. Donovan (Kit Harington, il Jon Snow de Il trono di spade).

John F. Donovan ha a sua volta una vita tutt’altro che felice. Diventato famoso grazie al ruolo di un ragazzo dotato di superpoteri, sta per fare il grande salto nel cinema. Ma anche nella sua vita c’è un’angoscia non risolta: è costretto a fingersi eterosessuale, a presentare al pubblico una finta relazione con un’amica. Questo è il cuore del problema di John, cui si aggiunge il rapporto controverso con una madre, Grace (Susan Sarandon), tanto affettuosa quanto instabile.

Emerge un rapporto di rispecchiamento, forse non del tutto inconsapevole, tra il piccolo Rupert e il giovane John. Ma a complicare il tutto interviene il caso: sarà proprio la scoperta fortuita di questa corrispondenza segreta a far scoppiare uno scandalo, a gettare un’ombra nella vita di John, il quale fino a quel momento era riuscito a mantenere segrete le sue passioni impossibili. Perché quel giovane attore, bello e all’apice del successo, si confida e accoglie le confidenze di un ragazzino di undici anni? Sono insomma i fatti di un caso di bullismo, con uno strascico di un tentativo di furto da parte di Rupert delle lettere sottrattegli da un suo compagno, è in breve un caso di cronaca locale della campagna inglese a rimbalzare come una bomba nei media e nel gossip di New York, portando John al crollo e alla rovina. John perde il ruolo nel film che lo avrebbe consacrato; perde l’amore di Will Jefford Jr. (Chris Zylka); perde l’agente Barbara Haggermaker (Kathy Bates), la quale disapprova il suo tentativo d’insabbiare la storia delle lettere, rinnegandone la paternità. Perde tutto e si ritrova a tornare dalla madre, per poi ritirarsi di nuovo in solitudine e morire d’overdose.

Per Rupert, invece, quel mancato riconoscimento, diventato improvvisamente un fatto di cronaca mondana internazionale è un evento terribile, ma anche un momento di grande crescita interiore; ed è così che si trova a essere di nuovo negli Stati Uniti, a New York, insieme alla madre, finalmente per un provino, ma anche per conoscere il suo idolo John F. Donovan, quando gli arriva dalla televisione del diners dove fa colazione la notizia della sua morte. Tutto questo ce lo racconta lui anni dopo, quando è ormai un giovane attore affermato (Ben Schnetzer). Anzi lo racconta in un caffè di Praga a una giornalista (Thandie Newton) che lo intervista, prima svogliatamente poi con entusiasmo, a proposito del libro che ha appena pubblicato e in cui raccoglie la corrispondenza con John. Alla fine, dopo averla conquistata, Rupert saluta la giornalista, esce e sale su una moto guidata da un bellissimo ragazzo, che dobbiamo presumere essere il suo compagno. Rupert, celebre, libero e felice, ha realizzato il sogno del suo amico di penna John e in qualche modo lo ha vendicato del suo destino infelice, al cui compimento lui, inconsapevole undicenne infelice della vita, aveva in qualche modo contribuito.

Verrebbe da chiedersi se siamo di fronte a una favola che lascia aleggiare sul suo sfondo il sentimento di una tragedia, oppure se si tratti di una tragedia che compie nel finale una negazione della sua naturale conclusione catastrofica in un esito positivo, quasi da commedia sentimentale; esito che tuttavia ha silenziosamente preparato, contrapponendo – e non confrontando, come invece sembrerebbe all’inizio – la vicenda di una vita che rovina a quella di una vita che fiorisce. Mi sembra che gran parte degli sforzi del regista – il quale ha realizzato un film singolare, stilisticamente poco in linea con i suoi film precedenti – vada proprio in questa direzione: quella, cioè, di progettare, con l’esattezza di uno stile a tratti fin troppo classico, un nuovo modo, un modo ibrido, di raccontare il mito del e nel cinema. Perché, che sia commedia o (soprattutto) tragedia, si tratta pur sempre del racconto di un mito, come ci ha insegnato Aristotele nella Poetica. E il cinema a sua volta, in ispecie il cinema hollywoodiano che racconta Dolan, è il regno dei nuovi miti e dei nuovi divi, come ci hanno insegnato schiere di intellettuali, da Adorno e Horkheimer fino a Edgar Morin.

Eppure non diremmo tutto, se ci limitassimo ad affermare quanto detto fin qui. Perché l’ultimo film di Dolan non è solo la riproposizione della favola, o della tragedia: è anche il racconto del reale. E il reale qui è rappresentato dalle figure femminili, in particolare dalle figure materne: la madre di Rupert, la madre di John e la sua agente, che ne è in qualche modo la madre professionale. Ma in fondo, a ben vedere, tutti i personaggi femminili di questo film sono figure materne, di accudimento, di accoglienza, di cura. E sono figure che giganteggiano, non solo per le prove attoriali strepitose sia di Portman che di Sarandon come di Bates: è il significato del materno e il suo rapporto con il reale a renderle grandi in questo film. La cosa è tanto più significativa in quanto si potrebbe facilmente argomentare che tutto il cinema girato fin qui dall’ancora giovane Xavier Dolan ruota intorno alla questione del “materno”.

Le tre figure di Sam, Grace e Barbara mostrano ciò che resta dopo e al di là dell’immenso lavoro che è la maternità. E questo oltre è il reale; o meglio ne è la misura, la pietra di paragone. Per Sam è il sentimento per cui aver rinunciato alla carriera d’attrice ed essere una madre single non è un fallimento. Per Grace è l’alcolismo, la disperazione, ma anche un’enorme vitalità. Per Barbara è la capacità di saper conservare un’autenticità, pur avendo a che fare con il mondo dello spettacolo. E, cosa ancora più sorprendente, questa forza del reale che le attraversa è ciò che permette loro di non cedere, nell’assenza di qualsiasi figura paterna, di fronte al “delirio” dei loro figli maschi geniali e infelici; di saper opporre loro uno strano misto di dedizione e rifiuto. Capiamo solo dopo che forse è questo il luogo in cui si sono veramente svolti i fatti.

Riferimenti bibliografici
T.W. Adorno e M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966.
Aristotele, Poetica, a cura di D. Guastini, Carocci, Roma 2010.
E. Morin, Lo spirito del tempo, a cura di A. Rabbito, Meltemi, Roma 2017. 

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