Sette attivisti dei movimenti della sinistra radicale furono processati a Chicago tra il 1969 e il 1970 per aver organizzato azioni di protesta, sfociate in sanguinosi scontri con la polizia, nell’estate del 1968; il processo era stato preparato ad arte dagli uomini di Nixon, appena subentrato a Lyndon Johnson alla presidenza degli Stati Uniti. L’obiettivo legale era quello di condannare gli imputati per cospirazione, ma il vero scopo era politico: mettere alla sbarra tutti i leader riconosciuti della controcultura e screditarli, facendoli apparire come cattivi maestri e violenti sobillatori dei ragazzi americani. Il film di Aaron Sorkin, di conseguenza, lavora su entrambi i piani, come se si rivolgesse agli accusatori dell’epoca: in parte ricostruisce il processo di Chicago spiegandone in dettaglio le malizie e le fallacie legali; in parte restituisce agli imputati di allora la dignità politica. C’è un terzo livello, meno esplicito, al quale il film si colloca per interpretare il presente e prendere posizione in merito alla campagna elettorale americana; come ha spiegato Sorkin in varie interviste, Il processo ai Chicago 7 non è soltanto un film sul 1968, ma un accorato appello a mettere da parte le divisioni interne della sinistra e a rimandare dibattiti e istanze specifiche a dopo le elezioni presidenziali del 3 novembre.

Il duro confronto tra Abbie Hoffman, apocalittica icona hippie, e Tom Hayden, ispiratore della New Left americana destinato a una carriera politica, attraversa tutto il film e si conclude con uno scambio di stima: questo è dunque l’obiettivo ideologico di Sorkin, che non intinge mai la penna nell’inchiostro nostalgico; prova ne sia l’assenza pressochè totale delle canzoni dell’epoca, scelta molto forte per un film ambientato nello stesso periodo del festival di Woodstock (a cui peraltro Hoffman partecipò, interrompendo l’esibizione degli Who).

Un film concentrato sulla politica in senso stretto, con lo sguardo fisso sul presente. Non potrebbe essere altrimenti, considerato che la verità storica sui fatti di Chicago è stata ampiamente ristabilita non soltanto nelle aule dei tribunali e corroborata dalle sentenze successive al 1970; ma anche raccontata da film e documentari (per esempio Conspiracy: The Trial of the Chicago 8 prodotto e distribuito nel 1987 dalla HBO). Il progetto di un courtroom drama hollywoodiano e democratico nasce in realtà come gesto politico nella mente di Steven Spielberg intorno al 2007, durante l’amministrazione Bush Jr., ma si arena durante i cento giorni di sciopero degli sceneggiatori. In quella fase, Aaron Sorkin è già a bordo come autore dello script, anche perché negli anni novanta ha sceneggiato l’ultimo grande courtroom drama hollywoodiano, Codice d’onore (1992). Spielberg ha già chiuso accordi con alcuni attori, fra i quali c’è anche Sacha Baron Cohen, il dissacrante performer del Saturday Night Live che ha appena esordito alla regia con il controverso Borat (2006).

Nonostante le premesse incoraggianti, non se ne fa nulla per un decennio; nel frattempo l’America elegge per due volte consecutive il primo presidente afroamericano della propria storia e poi, con una sterzata che disorienta una buona metà del pianeta, manda a Washington l’imprenditore Donald Trump, che dopo un mandato si appresta oggi a farsi rieleggere dal popolo americano. Torna d’attualità il progetto chicagoano di Spielberg, che però affida la regia allo stesso Sorkin, con un cast di eccellenti solisti che devono provare a diventare un gruppo, proprio come i personaggi del film.

L’arco di trasformazione dei personaggi procede dunque dall’individualità dei giovani leader (stato iniziale) verso la coscienza sociale, il senso di appartenenza che si cementa durante il processo e si manifesta materialmente nel climax, quando Tom Hayden a nome di tutti gli imputati legge i cinquemila nomi dei soldati americani morti insensatamente in Vietnam mentre a Chicago si svolgeva il lungo, estenuante e insensato processo. È la struttura profonda del cinema hollywoodiano: il climax è la scena in cui si afferma definitivamente il valore in gioco nella frase tematica, e questa affermazione deve essere affidata a un atto di segno opposto a quello dello stato inizialeIl cacciatore (1978) di Michael Cimino: prima uccidere il cervo e poi, dopo l’esperienza del Vietnam, non ucciderlo; Witness – Il testimone (1985) di Peter Weir: prima praticare la violenza e poi, dopo aver vissuto nella comunità degli Amish, rifiutarla.

Tale trasformazione ha bisogno di un mentore, incarnato nel film dall’avvocato difensore (il grande attore shakespeariano Mark Rylance), e di antagonisti nitidamente negativi, come il giudice manipolatore che fino all’ultimo resta uno strumento della repressione. Tuttavia Sorkin è scrittore abile e sfrutta la quantità di caratteri a disposizione per introdurre in questa struttura manichea alcune interessanti sfumature: per esempio il giovane procuratore che guida l’accusa è integrato nel sistema repressivo ma Sorkin lo fa convivere fin dall’inizio con il senso del dubbio sulla legittimità del mandato politico e drammaturgico (distruggere gli imputati), e dunque il suo arco può concludersi con una parziale redenzione. Molto interessante è anche il disegno dell’ottavo imputato, il leader delle Black Panthers, Bobby Seale, che non aveva svolto nessun tipo di attività di organizzazione della protesta a Chicago, ma che fu inserito in quel processo per fare (ad uso dei benpensanti) un solo, terrorizzante fascio di tutta l’erba rivoluzionaria. In questa gestione delle aggregazioni, Sorkin fa tesoro della propria immensa competenza nello storytelling televisivo; l’autore di West Wing (1999 – 2006) e di Newsroom (2012) sa perfettamente come muovere tante pedine avanti e indietro, nello spazio e nel tempo.

Si osservino in tal senso i blocchi della struttura sintagmatica del film. La velocissima introduzione in flashback, ritmata da una strumentale uptempo di Daniel Pemberton, presenta singolarmente i personaggi in procinto di andare a Chicago per la protesta: le istanze di ciascuno sono differenti, e i raccordi di montaggio servono formalmente a connettere ma simbolicamente a disgiungere le istanze stesse. Si guardi la transizione dalla presentazione di Abbie Hoffman a quella di David Dellinger. Hoffman è su un palcoscenico, dove ha sempre amato collocarsi, e arringa il pubblico così: “Noi andremo a Chicago con intenzioni pacifiche. Ma se dovessero ricorrere alla violenza, risponderemo a quella violenza con…”. Stacco sul tranquillo family man Dellinger che nel giardino di casa sta parlando a moglie e figlio: “… La nonviolenza. Sempre e solo con la nonviolenza”. Dopo questo fulminante fuoco di fila, Sorkin cambia completamente stile e costruisce una sola lunga scena per portarci dal passato al presente e dalla sinistra radicale alla destra governativa, nelle stanze dove si affilano le armi per il processo di Chicago. La protesta c’è già stata e per ora resta fuori campo: siamo passati dalle intenzioni alle conseguenze senza mostrare le azioni.

Da qui in poi comincia il processo; Sorkin rompe l’unità di luogo e di tempo interpolando le udienze con flashback dei fatti contestati agli imputati ma anche creando alternative nel presente all’aula di tribunale: l’ufficio della difesa, dove i solisti entrano in conflitto sulle strategie; e un locale nel quale Hoffman, interpretato magistralmente da Cohen, trasforma la cronaca del processo in una fenomenale stand-up comedy. Tutto porta allo scioglimento che è positivo in termini tematici: i leader divisi della sinistra radicale, processati per una cospirazione di gruppo che non avevano in alcun modo ordito, hanno trovato dialetticamente il modo per realizzare una sintesi della loro azione politica comune, e hanno fatto la Storia.

Riferimenti bibliografici
T. Fahy, a cura di, Considering Aaron Sorkin: Essays on the politics, poetics and sleight of hand in the films and television series, McFarland, Jefferson 2005.
S. Machura, S. Ulbrich, Law in film: Globalizing the Hollywood courtroom drama, in “Journal of Law and Society”, 28/01/2001.
J. Truby, Anatomia di una storia, Dino Audino, Roma 2009.

Il processo ai Chicago 7. Regia: Aaron Sorkin; fotografia: Phedon Papamichael; montaggio: Alan Baumgarten; sceneggiatura: Aaron Sorkin; interpreti: Yahya Abdul-Mateen II, Sacha Baron Cohen, Joseph Gordon-Levitt, Michael Keaton, Frank Langella; produzione: Marc Platt Productions, Dreamworks Pictures; origine: USA; anno: 2020; durata: 129′.

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