«L’umanità si attarda, non rigenerata, nella grotta di Platone, continuando a dilettarsi, per abitudine secolare, di mere immagini della verità» (2004, p. 3). Così Susan Sontag, facendo riferimento al mito della caverna, apre il suo testo Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società. La grande dualità platonica tra l‘Idea e la sua copia-icona, che è da sempre stata l’essenza del dibattito sullo statuto ontologico dell’immagine, continua ancora oggi, acutizzandosi nella paura della dissoluzione del reale nella virtualità, a far interrogare la teoria dell’immagine tout court. È da questa antica questione di soglia, come e quanto l’immagine sia o non sia reale, come modifichi o intensifichi la nostra esperienza, che l’opera di Andrea Pinotti, Il primo libro di teoria dell’immagine (Einaudi, 2024), prende le mosse per indagare lo stato dell’iconosfera contemporanea.
Potremmo riconoscere in quest’ultimo lavoro di Pinotti lo stesso intento iniziale della sua opera Alla soglia dell’immagine. Da Narciso alla realtà virtuale (2021), cioè la necessità «di indugiare sulla soglia che separa e al contempo congiunge l’immagine e la realtà», con lo scopo «di riflettere su quel che le accomuna e su quel che le divide» (Pinotti 2021, pp. 15-16). Se nell’opera sopracitata Pinotti si concentrava specificatamente sugli ambienti immersivi, coniando il concetto di an-iconologia per riferirsi alle immagini virtuali e alla loro autonegazione iconica, ne Il primo libro di teoria dell’immagine l’autore propone un ampliamento del suo studio precedente sollecitando nuove prospettive metodologiche.
Sondato da più angolazioni – fenomenologiche, gestaltiche, neuroestetiche, psicoanalitiche, semiotiche ecc. – l’eterogeneo campo delle immagini non è mai sottoposto a un mero esercizio di catalogazione: Pinotti mantiene invece una posizione multilaterale, evitando di ridurre la complessità dell’argomento a una infeconda sistematizzazione teorica. È necessario sottolineare come al centro della ricerca, dunque, non sia solo l’immagine come oggetto di contemplazione estetica, ma si sostenga invece «un atteggiamento che [impieghi] l’immagine come mezzo di intervento diretto sul mondo» (Pinotti 2024, p. 263): data la nostra prossimità alle immagini e il potere operativo che possediamo su di esse (le produciamo, le manipoliamo, le distruggiamo), si ritiene indispensabile acquisire una consapevolezza critica dell’iconico, vagliando i suoi limiti e le sue possibilità.
Il primo passo da compiere nella critica dell’esperienza iconica è quello di riconoscere il punto di vista umano dal quale le immagini vengono esperite: gli studi di cultura visuale «concepiscono il fenomeno della visione come processo sempre inaggirabilmente situato» (ivi, p. 257) e perciò legato all’uomo, alle sue zone di visibilità e invisibilità. Come chiarisce lo storico dell’arte Hans Belting in Antropologia delle immagini (2013):
Il luogo delle immagini, naturalmente, è l'uomo. Perché naturalmente? Perché l'uomo è un luogo naturale delle immagini, in un certo senso un loro organo vivente. Nonostante tutte le apparecchiature con le quali oggi siamo in grado di immagazzinare le immagini, è soltanto l'uomo il luogo in cui le immagini trovano una spiegazione e un significato naturale (p. 73).
Pertanto, essendo l’uomo il luogo naturale delle immagini, quest’ultime, lungi dal generarsi solo in un momento figurativo e rappresentazionale come copia e ricalco, assumono invece una funzione biologica, operando attivamente sul bios degli esseri umani. «L’immagine carica di energia diviene uno strumento fondamentale per la sopravvivenza dell’essere umano» (Pinotti 2024, p. 111) esplicando la sua funzione biologica nella costituzione di una distanza, «di un intervallo fra lo stimolo e la risposta, tratto precipuamente antropologico che ci distingue dal regno animale» (ibidem). Infatti l’esposizione di ciascuna prospettiva, avviandosi sempre con un caso di studio, analizza l’immagine «come soggetto che opera in una dinamica di azione/reazione con produttori e fruitori» (ivi, p. 113) e, di conseguenza, come un campo cangiante e multiforme, malleabilmente modificabile nel suo statuto: talvolta si costituisce come segno, problema percettivo, questione di stile, altre come veicolo di raffigurabilità psichica, di visione immersiva o come parte di un’operazione tecnica.
Seguendo questa linea si afferma così «l’idea di una generazione d’immagine come visualizzazione in senso forte, come evento, cioè, di un senso che solo in quell’immagine viene al mondo e non può essere altrimenti espresso» (ivi, p. 296-297). L’intera storia dell’immagine può essere riletta in una direzione che non la concepisca più come immagine di qualcosa o qualcuno, come seconda cosa di una prima più importante, ma che riesca invece a coglierla nella sua piena autonomia, restituendole una centralità che la sottragga dal suo essere un’ immagine di.
Nel testo sono infatti molti gli esempi, distribuiti per ogni capitolo e rappresentativi di ogni angolazione, ad evocare l’indipendente integrità del mondo iconico. Si prenda il caso delle configurazioni gestaltiche, come il triangolo Kanizsa, e la visualizzazione di margini virtuali percepiti come presenti sebbene siano solamente soggettivamente immaginati; oppure il caso della confusione tra le due figure di Giuditta e Salomé, sintomatico della nostra strabiliante capacità immaginativa di “farci dei film”, anche se sbagliati; e ancora il celebre dipinto anamorfico Gli Ambasciatori (1533) di Holbein il Giovane, un esempio del patto ludico che l’immagine può ingaggiare col suo fruitore; e infine la visione sovraumana dell’immagine a 360° che, a partire dalla Camera dei Giganti (1532) progettata dall’architetto Giulio Romano fino ad arrivare alla realtà virtuale e alla realtà aumentata, ambisce all’esperienza dell’immagine come totalmente immersiva, annullandone qualunque fuori campo.
Già solamente da questi pochi esempi citati emerge come Pinotti, nonostante dedichi l’opera alle principali teorie delle “immagini statiche”, non escluda minimante la componente motoria, anzi rovesci radicalmente la questione arrivando a domandarsi: «È mai esistita (prima dell’invenzione del cinema), un’immagine statica?» (ivi, p. 97). A partire dalle analisi gestaltiche dei dipinti di Cézanne condotte da Rudolf Arnheim e dalla via del figurale percorsa da Francis Bacon e indagata da Deleuze in Francis Bacon. Logica della sensazione (2008), Pinotti conclude che l’immagine statica in realtà non è mai fissa, ma sempre un campo di forze: distensione e contrazione, salita e discesa, aumento e diminuzione, accelerazione e rallentamento, sono solo alcune delle tensioni oppositive che si instaurano tra i diversi elementi che compongono il campo. Ecco come scopriamo il posto che l’autore riserva al cinema: se le immagini “fisse” possiedono un’inaudita potenzialità energetica, innescando nella mente del loro fruitore animati processi cinematici, il cinema si configura nell’opera di Pinotti come un’antica caratteristica umana, un movimento psichico primordiale, «una sorta di apriori mediale, una lente attraverso la quale guardiamo al mondo e agli eventi che lo costituiscono» (ibidem).
Come guardare un’immagine? Secondo l’autore, che sia un dipinto, una fotografia o un frame di un film, un’immagine va brucata. Riprendendo l’espressione del pittore Paul Klee, Pinotti suggerisce un preciso modo per osservare le immagini del mondo: sondare la superfice dell’immagine, alimentare il suo campo energetico col nostro sguardo, in modo da sovrapporre il movimento analizzante dei nostri occhi alle forze dinamiche che la costituiscono. Così Klee descrive l’osservazione brucante:
In tal modo, simile a un animale intento a brucare, l'occhio va tentando la superficie, non solo dall'alto al basso, ma anche da sinistra a destra e in qualunque direzione sia attratto. Esso percorre le vie che gli sono state predisposte nell'opera, la quale è essa stessa sorta in movimento ed è divenuta concretato movimento (Klee 1984, p. 356).
Non smettendo mai di confrontarsi con il vano sforzo umano di varcare la soglia dell’immagine, l’opera di Pinotti ha il merito di essere riuscita a pungolare le maggiori prospettive dell’iconosfera contemporanea senza distogliere lo sguardo dalla centralità che l’uomo occupa nel mondo iconico, sia come creatore che come fruitore. L’uomo torna inevitabilmente all’uomo, lo sguardo del creatore allo sguardo del fruitore.
Riferimenti bibliografici
H. Belting, Antropologia delle immagini, Carocci, Roma 2013.
P. Klee, Teoria della forma e della figurazione, Feltrinelli, Milano 1984.
A. Pinotti, Alla soglia dell’immagine. Da Narciso alla realtà virtuale, Einaudi, Torino 2021.
S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino 2004.
Andrea Pinotti, Il primo libro di teoria dell’immagine, Einaudi, Torino 2024.