“Datemi del possibile altrimenti soffoco” diceva Michel Foucault. Il “possibile” è lo spazio di movimento minimo senza il quale, appunto, non si riesce più a respirare, e si finisce per soffocare. E l’abbiamo compreso in questi mesi, quanto sia necessario avere aria da respirare, in tanti sensi uno più drammatico dell’altro. Ma che cos’è, propriamente, il possibile? Immaginiamo di trovarci di fronte ad un bivio, una strada a destra e una a sinistra. Il possibile, qui, non consiste né nell’imboccare la strada di destra né quella di sinistra. Il possibile è una «terza» strada che nel bivio non c’è, ma che prendiamo lo stesso. Il possibile è la «libertà» non solo di poter seguire un tracciato preesistente, ma anche e soprattutto quella di “aprire” una strada che non c’era. In questo senso il possibile è “creativo”. Con una precisazione: la creatività della libertà non ha niente di speciale, è quella terra terra di un gatto, ad esempio, che non riuscendo ad uscire da una stanza si mette a miagolare davanti alla porta chiusa finché non arriva qualcuno che gliela apre. In questo senso elementare non si può vivere senza libertà, non ci riesce nemmeno un gatto. E questa non è un’affermazione metafisica, ma semplice, quotidiana. Se davvero pensassimo di non essere liberi crollerebbe il fondamento delle nostre esistenze: per non fare che l’esempio più scontato, come farebbe un giudice a condannare un assassino se non pensasse che avrebbe potuto non uccidere?

Tuttavia per la scienza (ci sia permessa questa generalizzazione molto imprecisa) la libertà, sostanzialmente, non solo non esiste, ma non può esistere. Punto. Non esiste proprio perché per la scienza non può esistere nulla di creativo nel senso un po’ vago in cui ne abbiamo appena parlato. Per la scienza tutto ciò che accade ha una causa determinata, ma se ha una causa allora non avrebbe potuto essere diverso da com’è stato. E senza questa possibilità alternativa non c’è alcun margine (libero, appunto) per poter parlare di libertà. Eppure per ciascuno di noi la “sensazione” di essere liberi è affatto indubitabile.

Il prigioniero libero (Adelphi, 2020) dello scienziato (fisico e informatico) Giuseppe Trautteur prova a ragionare a partire da queste due tesi apparentemente del tutto contrarie: la libertà non può esserci da un lato, noi siamo liberi dall’altro. «Nell’atto di scegliere provo un’esperienza di appartenenza: la scelta è mia, mi appartiene, sono io il libero autore della scelta e ne sento la certezza. Comunque, anche se non avessi avuto dubbi, anche se ex post fossi insoddisfatto, avrei operato una libera scelta. Ma, nonostante la certezza che sento di essere stato io a decidere, sono stato veramente io a farlo?» (Trautteur 2020, p. 11). In effetti se non sono stato “io” a decidere, se fosse stato qualcun altro, o qualcos’altro, a decidere, è evidente che non avrebbe più senso parlare di libertà.

Sembrano darsi, allora, due alternative che si escludono a vicenda: la libertà non esiste, la libertà esiste. Questa situazione è rappresentata dal connettivo logico della disgiunzione esclusiva. Prendiamo appunto le due tesi: “Esiste la libertà” e “non esiste la libertà”. Si danno due e solo due casi: o è vera la prima (e quindi la seconda è falsa), oppure è vera la seconda (pertanto sarà falsa la prima): non ci sono altre possibilità, cioè non possono né essere contemporaneamente vere entrambe né essere tutte e due false. O l’una o l’altra. Tuttavia, Trautteur sa che la filosofia, e il pensiero in generale, avanza solo quando trasforma una disgiunzione in una congiunzione (che infatti è vera solo se le affermazioni che congiunge sono entrambe vere; in tutti gli altri casi la congiunzione è falsa). Pensare, cioè, significa trasformare la necessità in possibilità:

Consideriamo congiuntamente gli enunciati: “Il libero arbitrio non esiste” e “il soggetto ha l’esperienza di aver scelto liberamente”. Fa parte della comune opinione che il soggetto, nell’effettuare la scelta, avverta un’esperienza di autonomia. Egli ha l’incorreggibile esperienza cosciente di scegliere autonomamente il corso delle proprie azioni e pensieri. Ma non c’è contraddizione perché entrambi gli enunciati possono essere veri. Nel secondo enunciato occorre distinguere tra “avere l’esperienza” e il contenuto dell’esperienza cioè: “agire liberamente”. Mentre “avere l’esperienza” è incontrovertibilmente vero, se espresso dal soggetto stesso, il contenuto della sua esperienza, cioè “agire liberamente”, potrebbe essere falso. Il soggetto non avrebbe scelto: l’enunciato “il libero arbitrio non esiste” potrebbe anch’esso essere vero (ivi, p. 32).

Per cercare di capire che cosa possa significare, in pratica, che entrambe le tesi sono vere, proviamo a metterci nei panni di uno dei soldati che compongono il plotone d’esecuzione che spara ai «ribelli» della celebre tela (Il 3 maggio 1808) di Francisco Goya. Immaginiamo due ipotesi: nella prima il soldato (per rendere l’esperimento mentale più vivido immaginiamo che sia il primo della fila, quello più vicino al nostro punto di vista) creda nel libero arbitrio. È fermamente convinto di quello che sta facendo, ubbidisce volontariamente agli ordini che ha ricevuto. Nella seconda ipotesi il nostro soldato, invece, non crede nel libero arbitrio, e quindi mentre preme il grilletto pensa (un pensiero che sembra piuttosto un alibi) che quello che sta facendo in realtà non è che l’effetto di una causa antecedente, e così via all’indietro.

La diversità dei due casi non toglie che sia nel primo che nell’altro il soldato possa tanto essere fiero della propria azione quanto vergognarsene. Rimane il fatto che un «ribelle» viene fucilato. E questo significa che quello che uno pensa del libero arbitrio non cambia davvero il corso delle cose. Possiamo sperare che un ribelle sia riuscito un giorno a vendicarsi, e riservare al soldato fucilatore lo stesso trattamento da lui riservato ai suoi più sfortunati compagni. Che questo soldato credesse o no nel libero arbitrio la sua sorte sarà stata la stessa. E questo non vuol dire altro che, come appunto osserva con saggezza Trautteur, a proposito dell’esistenza del libero arbitrio la si può pensare come la si vuole ma le nostre vite si basano comunque sulla presupposizione della sua esistenza. Forse non siamo liberi, chissà, ma viviamo come se lo fossimo. E questo ci basta.

Il libro di Trautteur ci serve anche per un’altra ragione, perché ci aiuta a capire che il pensiero si basa sulla congiunzione, non sulla disgiunzione. Si basa cioè sulla possibilità di ammettere che entrambe le alternative (ma non sempre ci sono solo due alternative, anzi quasi mai) possono essere contemporaneamente vere. Anche se sembrano escludersi. Pensare, allora, come dimostra proprio il caso del pensiero della libertà, richiede di pensare l’impensabile. Ma questo significa che per pensare deve esserci libertà; pensare vuol dire essere liberi di pensare anche e soprattutto quello che si ritiene non possa essere pensato, quello che pensiamo di non avere la libertà di pensare. Ma questo significa che è necessario che non sia una necessità (che è il contrario della possibilità), altrimenti non sarebbe possibile pensare. Ma questo vuol dire, ancora, che la necessità a cui la scienza sembra (talvolta) voler ricondurre il pensiero in realtà non esclude affatto il possibile. Ossia appunto la libertà.

La conclusione del libro di Trautteur è così perfettamente racchiusa nell’ossimoro del titolo: l’essere umano è un prigioniero, sì, ma è un prigioniero libero. È un prigioniero, quindi non è libero, ma se è libero allora non è davvero un prigioniero. Il libro si chiude con quella che Trautteur definisce «l’impasse del libero arbitrio» (ivi, p. 131):

Il contrasto tra l’esperienza di libertà e il completo affidamento alle leggi della fisica fin nei nostri cervelli si risolve nel vissuto di coloro, forse non molti, che sentono fortemente il problema, con una obliterazione transitoria dell’accettazione del determinismo durante l’attivazione delle aree corticali che elaborano la decisione. L’esperienza consapevole di costoro, tra cui chi scrive, è una continua alternanza tra esperienze raziocinanti ed esperienze decisionali. Perdono la possibilità di sussistere continuativamente come soggetti unitari e coerenti: il soggetto non può conciliare in una visione unitaria la sua esperienza incorreggibile di autonomia con la sua esperienza conoscitiva della determinazione (ivi, p. 130).

Forse però fra «quei non molti» che, come Trautteur, riflettono sul tema della libertà ci sono i filosofi, fra cui uno spesso citato nel libro, Baruch Spinoza: «Gli uomini ritengono di essere liberi, dal momento che sono consapevoli di ciò che vogliono e di ciò che ricercano e non pensano […] alle cause che li dispongono a ricercare e a volere, poiché le ignorano» (Etica, parte I, Appendice). Ma c’è, soprattutto, quella psicoanalisi che invece per Trautteur presupporrebbe «a priori la libertà del soggetto» (Trautteur 2020, p. 73). Che cos’è infatti quel «soggetto [che] non può conciliare in una visione unitaria la sua esperienza» se non una parafrasi dell’«Io non è padrone a casa propria» di cui scrive Sigmund Freud nel 1917 in Una difficoltà della psicoanalisi? Per non parlare di quel «soggetto barrato» di cui parla Jacques Lacan? Trautteur ci aiuta a capire che Foucault aveva proprio ragione, viviamo in tempi in cui abbiamo bisogno di molti possibili.

Giuseppe Trautteur, Il prigioniero libero, Adelphi, Milano 2020.

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