Luigi M. Lombardi Satriani aveva una indomabile insofferenza per le regole e una curiosità sconfinata, componenti che ne hanno determinato un cammino intellettuale erratico, eterodosso, sempre volto verso un confine da varcare. Eppure, valutata nel suo insieme, la sua produzione scientifica appare non solo organica, ma anche eticamente improntata a un rigido e articolato sistema di fedeltà culturali. In uno dei suoi ultimi lavori, nel quale ripercorreva alcune tappe importanti del suo cammino di studioso, scriveva: «Tutti i gruppi umani hanno dato corso – pur nella variabilità storica, ma con uguale impegno radicale – all’operazione che tende a fissare i segni di una mappa che possa orientare e sostenere la fatica di vivere».

Che abitino le case dirute della Calabria degli anni cinquanta o i labirinti delle città postmoderne, sostiene Lombardi Satriani, il compito primo e ineludibile degli uomini è quello di conferire senso alle cose, di trascenderle in sistemi di coerenze culturali, di costruirle in un linguaggio. La fatica, diuturna, dell’uomo è quella che ognuno deve compiere per proteggersi dalla crisi possibile, dal rischio che le cose non abbiano un senso, dal pericolo che il mondo diventi incoerente e senza un orizzonte di comprensibilità. Questa tensione di fondo attraversa e rende coerenti gli argomenti plurali della sua ricerca, tra i quali i più ricorsivi sono il rapporto voce/silenzio nelle culture folkloriche, le dinamiche dello sguardo che viene declinato sul mondo popolare, la gestione culturale del dolore quando questo rischia di essere sconvolgente, di rimanere senza interpretazione.

Si era formato nel vivace ambiente culturale napoletano, a metà dello scorso secolo, contraendo debito con le filosofie idealistiche e, poi, con l’esistenzialismo. Giovanissimo, aveva fondato, insieme a Mariano Meligrana, una rivista che, significativamente, si chiamava “Spirito e tempo”, dove con la parola “Spirito” s’intendeva la tensione all’assoluto, l’“angelo della Storia”, mentre il “tempo” era la congiuntura della vita reale, era il tempo del giorno, quello in cui si dipana incessante la vicenda quotidiana dell’uomo. Lombardi Satriani al tempo scriveva: «La tensione era di tipo ‘universale’; ma il quadro di riferimento era […] la Calabria, i nostri paesi, in quanto vi eravamo nati, ma anche in quanto li avevamo scelti, vi eravamo ritornati, punti di una topografia realistica e di una geografia della memoria, e in essi – pur con interruzioni, partenze e continui ritorni – intendevamo vivere, anche se nei nostri paesi la vita è più aspra e tutto è più faticoso». Era un ritorno a una casa dell’anima, ma anche a una casa fisica che era il punto della mappa che avrebbe consentito di ricondurre sempre a un senso la “fatica di vivere” dell’antropologo calabrese.

La casa in cui Lombardi Satriani torna è quella in cui vive suo zio Raffaele, demologo appassionato, che per oltre mezzo secolo si era dedicato allo studio delle tradizioni popolari. Questo palazzo, prima ancora che un deposito fisico di reperti della cultura contadina – così come di blasoni nobiliari –, era punto d’incontro per studiosi italiani ed europei; era soprattutto un laboratorio nel quale si provava a dare voce a una storia di fatto silente, a una cultura negata, ai saperi del mondo folklorico. Negli anni, Lombardi Satriani sceglierà come temi della sua ricerca quegli argomenti ai quali in quella casa era stato costantemente esposto, che aveva respirato da sempre e che, tuttavia, affronterà con strumenti metodologici nuovi. Non cambierà, invece, la vocazione di fondo della ricerca, che resta quella dichiarata esplicitamente dallo zio Raffaele, che indicava come obbiettivo del proprio impegno quello di “dare voce ai muti della storia”.

Occorre contestualizzare i primi scritti di Lombardi Satriani nella temperie culturale degli anni ’50-’60 dello scorso secolo, un momento in cui mutano i paradigmi scientifici delle scienze sociali. In particolare, la ricezione nel dibattito culturale delle “osservazioni sul folklore” di Gramsci aveva avuto un impatto dirompente. Nell’ottica gramsciana, ciò che qualifica un tratto culturale come folklorico non è l’arcaicità o la semplicità, ma la sua collocazione nelle dinamiche dei rapporti di potere. Non più, quindi, ammasso di elementi decontestualizzati o mera superstizione, la tradizione deve essere studiata come visione del mondo e della vita di un determinato strato della popolazione.

In questo dibattito è forte la voce di Ernesto De Martino, il fondatore dell’etnologia italiana, il quale aveva sostenuto che i saperi che una cultura popolare fonda e che una tradizione conserva costituivano una modalità possibile per proteggere la propria presenza nel mondo. In questa prospettiva, i complessi rituali folklorici potevano essere letti come un articolato sistema tramite il quale un uomo può affrontare il negativo che incombe, oggettivarlo in una forma, quindi domesticarlo con gli strumenti culturali di cui è dotato, in quanto appartenente a un mondo. La nuova idea critica di folklore sarà dunque fondata sulla contrapposizione tra cultura egemone e cultura subalterna, paradigma che sarà lungamente cogente negli studi demo-antropologici italiani.

È in questo quadro culturale che vanno collocati i primi lavori di Lombardi Satriani, che, con i suoi volumi Il folklore come cultura di contestazione, del 1967, e Antropologia culturale e analisi della cultura subalterna, 1968, si inserisce in un dibattito che va al di là dello specifico delle discipline demo-antropologiche. Nuovo fu il suo modo di guardare al folklore come a una cultura di contestazione; a quei saperi del popolo che, per il solo fatto di esistere, potevano essere letti come contestazione dei valori delle “classi egemoni”. Al contempo, Lombardi Satriani rifletteva sulla potenziale funzione narcotizzante del folklore che, in determinate condizioni, sembrava favorire l’accettazione dei saperi dominanti. In anticipo sui tempi, lo studioso avvertiva il rischio che il folklore, mitizzato, non affrontato criticamente, divenisse terreno di incursione per neoromantici. Il dibattito attuale conferma la sua capacità di antivedere i processi sociali.

In quel periodo il Sud entrava nel dibattito nazionale solo tramite le inchieste socio-economiche relative alla “questione meridionale” o tramite le raccolte di tradizioni popolari a cui insigni demologi avevano lavorato a volte per l’intera vita. L’incapacità di far convergere queste due prospettive, la divisione tra l’economia, la cultura e la vita, comportava che le persone reali diventassero nella narrazione figure stereotipe, determinate nel loro comportamento da una tradizione senza tempo. Rimanevano inindagate le strategie per l’esistenza all’interno del mondo folklorico, i saperi dispiegati per far fronte a quella precarietà esistenziale a cui si è maggiormente esposti quando ci si trova in condizione di precarietà materiale.

In questo contesto appare esemplare l’analisi della costruzione culturale dell’ambivalenza della morte nel libro Il Ponte di San Giacomo, vincitore del Premio Viareggio nel 1983, scritto insieme a Mariano Meligrana, nel quale vengono esplorate le modalità possibili dell’interazione tra il mondo dei vivi e quello dei morti. In questo, ma anche in volumi successivi, Lombardi Satriani ci ha spiegato come le forme rituali, anche quando bizzarre, siano un modo di sovrascrivere il dolore con un linguaggio di senso, di arginare l’assurdo, di proteggersi dal rischio di sradicamento. Si tratta di un libro etnograficamente documentato, metodologicamente corretto, la cui lettura è di un fascino assoluto. È un altro dei suoi lavori su un limite dell’umano, nel quale l’aldilà viene analizzato in quanto provincia di questo mondo, come uno spazio ordinato, in cui la memoria continua a essere una forma di vita residua, mentre il dialogo tra i due mondi – anche quando è un monologo mascherato – diventa protezione rituale contro i pericoli insiti nella devastante nostalgia dei superstiti.

Altri temi avrebbe poi affrontato Lombardi Satriani nel suo percorso, la città, la malattia, le forme del nuovo folklore, ma di fatto resterà costante il suo interesse nell’affrontare la dimensione della straordinarietà della vita ordinaria delle persone; resterà costante, quindi, la sua necessità di misurarsi con i diversi modi, culturalmente connotati, di declinare lo sguardo. Quello di Lombardi Satriani si configura come un mondo, come un polo che ha attratto studiosi diversi, che in modi diversi hanno condiviso una prospettiva, un lessico, un ethos; hanno condiviso alcuni precetti impliciti della sua lezione, ovvero che la strada migliore è quella più accidentata, che in nessun caso si abdica all’esercizio del pensiero critico, che vivere viene prima dello studio della vita, che “guardare” è in sé un fare e, quindi, una responsabilità.

Riferimenti bibliografici
L.M. Lombardi Satriani, Il folklore come cultura di contestazione, Peloritana Editrice, Palermo 1967.
Id., Antropologia culturale e analisi della cultura subalterna, Guaraldi, Rimini 1974.
Id., Il silenzio, la memoria e lo sguardo, Sellerio, Palermo 1979.
Id., Il ponte di San Giacomo, Sellerio, Palermo 1996.

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