Le immagini passano, nel senso che sono in continuo transito, trascorrono intorno a noi, amplificate e diffuse dal medium. Ma per cogliere il presente di questo passaggio, quell’attimo che si presenta, appare, nello Jetz, come lo chiama Benjamin, bisogna porsi in ascolto e visione, altrettanto veggente ed errante, come le immagini stesse che errano e ci ri-guardano (erranza e veggenza che sono del cinema moderno e del moderno tout-court, accordando ciò che Deleuze ci dice nell’Immagine-tempo alla figura benjaminiana del flâneur-voyeur).
Il passaggio delle immagini pone uno stato di passato che fluisce nell’attimo sospingendoci verso un avvenire, un avvento, un futuro (è l’Angelus Novus benjaminiano), il movimento-tempo della Storia. «Bisognerà dunque, ogni volta, reinserire la storia nei nostri desideri. Come farlo, se non cominciando da un atto modesto, citare il passato. O, più esattamente, citare i passati – eterogenei, prossimi e distanti insieme, anacronici ma coesistenti – che si intersecano e si implicano in ogni momento delle nostre coscienze politiche di fronte al presente?» (esortazione con cui si apre un libro di Georges Didi-Huberman, Passés cités par JLG).
Lo stato di ascolto e visione del passaggio è dello sguardo dell’Angelo della Storia, che si pone di fronte al passato che “rovina” sospinto dal vento del futuro, stato paradossale che interpone l’avanti e il dietro, l’avanzare e l’indietreggiare, faccia a faccia con un presente che a ogni istante passa, un passato che si fa presente nell’immagine ogni volta, come accade per il cinema. Le immagini passano, come le nuvole, in questo tempo anacronico, dove i passi della Storia si riattualizzano, e si sottopongono a un prelievo, a falde temporali che danno luogo ai passés cités (e Benjamin vagheggiava un libro fatto solo di citazioni, rese nel loro riapparire nuove e attuali, con un atto di montaggio). E le nuvole che passano come, e con, le immagini sono visioni ricorrenti in Godard, in Straub, e ritornano in un film come Gli indesiderati d’Europa che Fabrizio Ferraro dedica a Walter Benjamin, al passaggio, al cammino lungo i Pirenei, lungo la linea di frontiera franco-catalana, nell’Europa tra 1939 e 1940 (e su cui è appena uscito un libro di Valerio Carando per DeriveApprodi). I sentieri, fisici e immaginari a un tempo, si dipanano lungo quella “Route Lister” dove transitavano i profughi Catalani della Guerra di Spagna e lungo i cui sentieri, nella direzione inversa, un gruppo di antifascisti, di stranieri, di ebrei si pongono in fuga dalla Francia collaborazionista.
Su quei sentieri cammina Walter Benjamin (Euplemio Macri dall’impressionante somiglianza), e lungo quella linea di fuga, quel passaggio, il filosofo sparirà. Gli ultimi, estremi passi di Benjamin, con accanto Lisa Fittko (la Catarina Wallenstein di Singularidades de uma rapariga loura di Manoel de Oliveira), vengono appunto ascoltati e tra-guardati da Ferraro su una doppia linea, prossima e lontana, compresente nell’avanzare su due direzioni in cui il “va e vieni” delle immagini, la loro “fuga”, moto benjaminiano per eccellenza, si interseca con un atto concreto e politico del filmare, che divarica la durata, il depositarsi di un tempo del pensiero. Quel passato e quel passaggio si rende attuale e inciso nel bianconero materico e insieme nebuloso del film. Un paesaggio che si incarna nel passaggio, che enuclea un lavoro faticoso, lucido, persistente della macchina da presa che, come spesso nel cinema di Ferraro, assume la valenza e la corporeità paradossalmente fantasmatica delle linee spaziali, e del sentire fisico degli attori-presenze che stanziano e insieme vengono come sospinti dalla camera.
Il regista aveva già, con una rigorosa intransigenza che riversava la forma nella forza delle immagini capaci di tradurre, ritraendosi, filmato personaggi come Simone Weil (Je suis Simone-La condition ouvrière, 2009), oppure “luoghi” della filosofia politica come quelli di Guattari (Piano sul pianeta, 2010). Questa volta, con questo film, che ci appare come la sua più tersa e potente opera, interroga le immagini e la Storia, agisce politicamente la messa in forma, assume (come in Straub, come in Godard) una autocoscienza delle immagini che non cessano di parlare, anche nei silenzi, nei rumori degli elementi naturali, nell’assorto trascinamento dell’accadere e del vedere. Il combattente repubblicano e i due miliziani delle brigate Internazionali, nel film fanno eco e accompagnano nel loro divergere i passi che portano Benjamin a solcare il proprio passato, gli incontri, il proprio sguardo desiderante e a sua volta divergente rispetto a ciò che gli si contrappone, come il vento del tempo, in moto contrario, come inciampo, come caduta, come necessaria lotta che suscita un resistere che si dissolve nel puro esistere.
È ciò che ci si squaderna davanti agli occhi in quel lasciarsi cadere di Benjamin, sull’erba, tra le rocce, che è anche un moto di ascesa e di liberazione nello sguardo assolvente sulle nuvole che, dal giorno alla notte, segnano il passaggio lungo il quale il desiderio si oppone e si deposita, si sospende e si rilancia, ponendo una differenza come resto inconsumabile dell’eterna ripetizione, e perciò facendone saltare la “rappresentazione”. E tornano in mente le parole con cui si conclude L’éternité par les astres di Auguste Blanqui: «Sempre e ovunque sulla terra, lo stesso scenario: sulla stessa scena angusta un’umanità vociante, innamorata della sua grandezza, che si crede l’universo e vive nella sua prigione come in un’immensità […]. L’universo si ripete senza fine e scalpita senza spostarsi. L’eternità recita imperturbabile nell’infinito le stesse rappresentazioni».
Riferimenti bibliografici
A. Blanqui, L’eternità attraverso gli astri, Se, Milano 2012.
V. Carando, Gli indesiderati. I sentieri di Walter Benjamin in un film di Fabrizio Ferraro, DeriveApprodi, Roma 2018.
G. Didi-Huberman, Passés cités par JLG. L’oeil de l’histoire, 5 , Les Éditions de Minuit, Paris 2015.