C’è qualcosa che colpisce in Il paradiso probabilmente, l’ultimo lungometraggio di Elia Suleiman, ed è qualcosa che va al di là della forma e delle strategie narrative del regista palestinese. Il film, menzione speciale al festival di Cannes 2019, giunge dopo dieci anni dal suo ultimo, folgorante lungometraggio, Il tempo che ci rimane del 2009 (in mezzo solo un cortometraggio girato a Cuba e inserito nel film a episodi 7 giorni a l’Avana, 2012). Quello che colpisce è lì, di fronte a noi lungo tutto il film, ed è il corpo-sguardo di Suleiman stesso che, da sempre, interpreta i suoi film secondo la stessa modalità: quasi annullando la pratica attoriale e ponendosi come corpo che guarda appunto; ergendosi a incarnazione contemporanea del testimone che riporta immagini e situazioni, gesti e atti che disegnano l’immaginario di un territorio contemporaneo come la Palestina (contemporaneo proprio perché in fondo rappresenta l’emblema della crisi, o della fine dello stato-nazione ottocentesco e novecentesco, l’interdetto  non accettato dall’Occidente).

Recitare all’interno dei suoi film significa per Suleiman (non) essere attore, in più di un senso: riducendo al minimo le espressioni facciali, scegliendo coerentemente e ossessivamente inquadrature frontali, campi-controcampi geometrici, ponendo il corpo quasi sempre al centro dell’inquadratura, il regista palestinese (ma con passaporto israeliano) gioca da sempre sul paradosso del corpo cinematografico, al tempo stesso materiale e immateriale. Nel corso degli anni, dal lungometraggio d’esordio del 1996, Cronaca di una scomparsa, fino al film presentato a Cannes, Suleiman ha costruito un percorso in cui il corpo-sguardo si pone come dispositivo del racconto. Lungi dall’essere testimone passivo delle situazioni che incontra, Suleiman reimmagina in forma surreale e onirica uno spazio politico e i suoi abitanti.

È in fondo la pratica dei corpi di Jacques Tati e Buster Keaton, attori/autori spesso accostati al cinema di Suleiman. Ma il suo cinema non si riduce ad una imitazione del modello del burlesque, tutt’altro. Nella scelta di essere in campo (scelta consapevole, lo si è detto), sta anche la consapevolezza che è il proprio sguardo ad essere messo in gioco cinematograficamente. Il proprio sguardo, cioè la propria storia, riscritta oniricamente e in forma surreale. Il personaggio del film è raffigurato con il corpo del regista (trasfigurato in un pierrot onirico), perché il film è disseminato di tracce autobiografiche (il regista apolide di Cronaca di una scomparsa o di Intervento divino, la storia della propria famiglia ne Il tempo che rimane). Il corpo è reale e astratto al tempo stesso.

Ma è proprio questa particolarità del corpo (non) attoriale (o meglio, il suo cambiamento, la sua mutazione) a colpire sin dalle prime immagini de Il paradiso probabilmente. Il regista è invecchiato, porta gli occhiali e una barba bianca, il corpo è minuto e incurvato dal peso degli anni. Più che essere corpo produttore di cinema (come nella grande tradizione del burlesque, in cui è il corpo a farsi set), il personaggio del film è un corpo fisicamente malinconico, travolto da un mondo che ha perso qualsiasi comprensibilità.

I tre luoghi del film (Nazareth, Parigi, New York) sono luoghi scelti non a caso, perché legati ad un percorso autobiografico (Suleiman è vissuto in ognuna di queste città), eppure ogni spazio del film, dalle strade deserte di Parigi ai supermercati di New York, dove uomini e donne vanno a fare compere armate di tutto punto, si presentano come spazi inquietanti, svuotati appunto, in cui non è più possibile conoscere o riconoscersi e tantomeno agire, affermare una identità.

Ancora in Intervento divino, un supereroe palestinese faceva piazza pulita degli oltranzisti israeliani e un nocciolo di albicocca poteva far esplodere un carro armato; in Il tempo che rimane la memoria del passato (del padre del regista), costruiva un legame tra passato e presente, mentre in Cronaca di una scomparsa era la scrittura a porsi come resistenza ad un mondo impazzito. Nell’ultimo film, invece, ogni gesto sembra svuotarsi di ogni capacità di agire nel mondo. Ai controlli di sicurezza dell’aeroporto, Suleiman gioca con il metal detector portatile dell’addetto ai controlli facendolo roteare come un’arma, come un maestro di arti marziali, ma il gioco rimane tutto all’interno di questo piccolo gesto, così come il gioco degli inseguimenti tra ladri e poliziotti a Parigi, costruito come un musical senza euforia.

Costruito come un insieme di gag (come anche gli altri film del regista), Il paradiso probabilmente finisce per svuotare di ogni afflato comico le situazioni in cui il protagonista si trova ad essere presente. La forma si svuota, come la città, e ciò che rimane sono i fantasmi, di un cinema che ormai non vuole (e non può) cercare una catarsi o un riscatto nel comico.

Man mano che il film prosegue, la trasformazione del corpo mostra con sempre maggiore evidenza l’esito del corpo soggetto al tempo incarnato da Suleiman. Ciò che rimane in questa forma vuota non è né il comico né il tragico, ma la disperazione, la forma che giustamente Kierkegaard associava all’ironia consapevole: la disperazione di fronte a se stessi, alla propria mancanza di una identità riconosciuta e riconoscibile: la disperazione di non poter essere se stessi. In un film meno conosciuto ma geniale, War and Peace in Vesoul, girato e interpretato da Suleiman e Amos Gitai nel 1997, i due registi vengono invitati in un piccolo festival a Vesoul appunto, come rappresentanti di due “luoghi” in conflitto nello stesso luogo, Israele e Palestina.

Nonostante le resistenze, nonostante i tentativi di mostrare la complessità dei loro sguardi e del loro cinema, Gitai e Suleiman sono invitati al festival come “simboli” sia del conflitto mediorientale che della possibilità di una pace. È questa simbolizzazione, questa riduzione dei due registi ad “emblemi” a mettere in crisi il senso stesso del cinema dei due autori e, nel caso di Suleiman, a porsi coscientemente dalla parte di una immagine che non può più rovesciare comicamente il mondo, perché non può più avere un’identità da cui guardarlo.

Se Gitai infatti lavora ancora oggi ossessivamente con forme e linguaggi differenti, alla ricerca spasmodica di un’immagine in grado di dire la contemporaneità, Suleiman con Il paradiso probabilmente sceglie, lacerandosi, di mostrare come la forma ultima del comico sia la disperazione, la perdita di ogni capacità dello sguardo di ricongiungersi con se stesso e con un mondo ormai vuoto, al di là di un finale che forse lascia intendere una diversa lacerazione, un diverso percorso, di cui magari saremo noi i testimoni, ma che per ora si lascia solo intravedere.

Il paradiso probabilmente (It Must Be Heaven). Regia di Elia Suleiman; sceneggiatura: Elia Suleiman; fotografia: Sofian El Fani; montaggio: Véronique Lange; interpreti: Elia Suleiman, Gael García Bernal, Holden Wong, Robert Higden, Sebastien Beaulac; musiche: Johannes Doberenz, Olivier Touche; produzione: Rectangle Productions, Pallas Film, Nazira Films, Possibles Media, Zeynofilm; distribuzione: Academy Two; origine: Francia, Canada; durata: 97′.

Share