
Se si deve parlare di un anniversario, si può correre il rischio di scivolare in una rappresentazione agiografica. Tale rischio diventa molto concreto quando si tratta della celebrazione dei 100 anni della nascita di una grande forza politica, del più grande partito comunista d’Occidente. Nell’ultimo libro di Fabrizio Rondolino, Il nostro P.C.I. 1921-1991. Un racconto per immagini, invece, non c’è tutta quella retorica che magari uno si aspetta. Ovviamente, trattandosi della storia del P.C.I., il collegamento iconografico alla produzione di partito, alle grandi coreografie del socialismo reale, fatte di ostentazioni di sistemi economici solidi, di donne e uomini sempre sorridenti all’orizzonte del Sole dell’Avvenire è cosa scontata. Ma questo, nel libro, è più il prezzo da pagare alla necessità di una completezza enciclopedica che non una enfasi celebrativa. La storia del P.C.I. che Rondolino racconta è innanzitutto una storia italiana, fatta da italiani, convintamente italiani.
Il Partito Comunista d’Italia nasce con le squadracce fasciste per strada, con una borghesia cialtrona già compromessa ed incapace di fare i conti con la modernizzazione e con una Monarchia che non vedeva l’ora di subire il fascino dell’ordine imposto dai manganelli. Quel partito viene subito fatto oggetto delle attenzioni particolari del regime, e la violenza, i soprusi, la clandestinità, il carcere dei militanti, furono solo il preludio al dramma della guerra in cui la follia fascista avrebbe trascinato da lì a poco l’Italia.
Ma è nella lotta al fascismo, ancora durante il fascismo, che si pongono le basi perché nasca una risposta politica capace innanzi tutto di pensare l’Italia già oltre la guerra; una risposta in cui si sviluppi una capacità di vedere la storia come una costante ricerca di comprensione e di indirizzo. È da lì che nasce un “Partito Nuovo”. Un Partito che si fa interprete di una via italiana di elaborazione della società in senso comunista. Nelle parole del suo segretario, Palmiro Togliatti, il Partito dovrà fare in modo che maturino le condizioni perché in Italia si instauri una «Democrazia Progressiva», una forma di governo fortemente centrata sui valori antifascisti, attraverso il coinvolgimento delle masse popolari nella gestione della società e la centralità culturale, oltre che economica, del lavoro. Con l’Italia ancora in guerra (Togliatti parla a Napoli nell’aprile del 1944) il fine smette di essere il “fare come in Russia” e – come scrive Emanuele Macaluso – il perimetro operativo diventa il sistema politico-parlamentare (cfr. Macaluso 2013). Quel discorso contiene in nuce diversi elementi fondativi del nuovo Stato che nascerà dall’Assemblea Costituente.
Fu un passaggio particolarmente importante e non fu né un’abdicazione e né un’abiura rispetto ad un progetto comunista della società. Togliatti era e rimase profondamente comunista, ma capì la specificità e la necessità di una via italiana che fosse in grado di governare le trasformazioni che, finendo la guerra, sarebbero emerse. L’Italia distrutta non sarebbe più stata quella di prima dell’avvento fascista: si imponevano risposte nuove per problemi che nascevano in contesti altrettanto inediti. La necessità di dovere ricostruire una nazione ed il suo popolo, richiedeva uno sforzo interpretativo originale che coniugasse la capacità di tirare fuori dalla miseria la stragrande maggioranza della popolazione e la possibilità che da questo nascessero forme di consapevolezza, di autocoscienza e di inclusione sociale. La ricostruzione avrebbe dovuto realizzare la modernizzazione del Paese ed un contestuale superamento di quegli «ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
È importante partire da quel discorso perché fu ciò che diede il via alla rivoluzione italiana, alla parte più interessante ed attuale di quella storia di cui oggi si celebra il centenario. Una rivoluzione non combattuta con le armi per la presa di un palazzo, ma una trasformazione che chiamasse a raccolta milioni di persone, di uomini e di donne, con la consapevolezza concreta di riuscire a trasformare, in modo comunista, una intera società. La presa del potere passava attraverso un progetto molto più ambizioso: piuttosto che adeguare la società alle esigenze del popolo, bisognava costruire dal basso un popolo capace di governare le sfide che la società avrebbe posto di continuo. Era un progetto riconducibile alla lettura che Gramsci, durante la prigionia, aveva dato del rapporto tra potere e trasformazioni sociali, alla necessità di passare attraverso la costruzione nella società di una egemonia culturale ancor prima che politica.
Quella era la rivoluzione che il P.C.I. offriva alla società italiana. Una rivoluzione serena che accompagnasse l’affermazione del ruolo storico di cui si faceva carico il proletariato, ponendosi come soggetto del cambiamento. L’egemonia nella cultura del Paese era lo strumento concettuale pensato da Gramsci nei Quaderni e la Democrazia Progressiva l’incessante ricerca di interpretazione e di governo prodotta da una classe sociale che ambiva a diventare la guida nello Stato. Togliatti stesso fu molto chiaro: l’idea di un solo partito che schiacciasse e comprimesse il pensiero, annullando la necessità che esso ha di manifestarsi come plurale all’interno della società, era fuori dall’orizzonte del comunismo italiano (cfr. Spriano 1977). Questo è stato l’atto di nascita del Partito. La storia per immagini che Rondolino racconta, di questo parla. Ed è la storia dei militanti, dei simpatizzanti: dei comunisti italiani. La storia che si sviluppa attraverso le vite di milioni di persone, di uomini e di donne, che sperimentano la possibilità di affrancarsi da ataviche condizioni di subalternità.
Cosa aveva a che spartire con noi tutto quel mondo che ci arrivava in casa e che ci dipingeva tra le schiere dei cattivi? Tra i mangiatori di preti e di bambini, tra gli incapaci che non credevano né in Dio, né nella famiglia? Ma noi non eravamo, forse, quelli della solidarietà perché tutti gli uomini e le donne fossero parte di uno stesso destino? Quelli del lavoro basato sulla cooperazione affinché nessuno venisse lasciato indietro? Quelli della funzione sociale del lavoro per cui esso fosse uno strumento e non il fine dell’azione dell’uomo?
Il Partito è stato una scuola, innanzitutto di valori. Ogni uomo aveva dentro di sé tutta la magnificenza dell’appartenere al genere umano, tutta la potenza di riuscire a pretendere la felicità ed un mondo migliore in cui vivere. «Noi siamo convinti che il mondo, anche questo terribile, intricato mondo di oggi può essere conosciuto, interpretato, trasformato, e messo al servizio dell’uomo, del suo benessere, della sua felicità. La lotta per questo obiettivo è una prova che può riempire degnamente una vita». Così diceva Enrico Berlinguer. Ed era vero: in ogni comunista c’era una pulsione che lo proiettava, cooperando, a rendere il mondo migliore e più solidale. Il mondo lo si rendeva migliore studiando e capendolo; anticipando le mosse dei nemici di classe per smascherarle, per smontarle.
Bisognava che tutti partecipassero. Che tutti fossero messi, attraverso lo studio e la discussione, nelle condizioni di partecipare. Dal segretario generale al più remoto iscritto della più piccola sezione, non esistevano differenze. Non ho mai sentito un compagno dare del lei e chiamare “onorevole” chi per il Partito si trovava ad occupare un posto in Parlamento. E non era un discorso populista. Non era che uno valesse l’altro. Ma chi lo ha detto? Il Partito doveva selezionare la classe dirigente migliore, il traino per quelle trasformazioni che il compagno Segretario Berlinguer diceva essere alla base dell’identità comunista, ne costituiva l’ontologia stessa. Eravamo un partito diverso, immune da qualsiasi questione morale, mentre toccava ad altri «gestire interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune».
E poi arriva Occhetto. Il nuovo compagno Segretario dice che le macerie del muro stavano per travolgere tutto. “Compagni, ci siamo sbagliati!”. “E no! Ma scusa, compagno, ma cosa c’entriamo noi con quella storia lì?”. “Noi siamo nati dalla Resistenza, abbiamo fondato la democrazia di questo Paese, abbiamo firmato la Costituzione e tu ci dici che ci siamo sbagliati?”. Di questo si parlava nelle sezioni: possibile davvero che non ci fosse nulla da salvare?
L’errore fu quello di credere che il Partito fosse e funzionasse come una Chiesa, una grande chiesa alternativa. «O con Dio o con Stalìn». Questa lettura è chiaramente fuorviante. Il folklore ed i suoi aspetti identitari non erano la prassi politica. Il Partito, come senso profondo, non serviva a custodire una ortodossia; né la disciplina di partito si può confondere con essa. Il Partito aveva in sé gli strumenti per dialogare con la società. Il rapporto privilegiato con gli intellettuali erano lo sforzo attraverso cui indirizzare un Paese mentre cambiava.
Certo, con limiti e tentennamenti; con tutta la contraddittorietà e le incomprensioni di un rapporto che nei momenti più delicati non fu mai facile, ma una parte sostanziale dell’intellighenzia italiana si è sentita organica a quella parte politica. Il gruppo parlamentare della Sinistra Indipendente, sostanzialmente costituito da intellettuali non strettamente comunisti, ne è forse l’espressione più chiara. Ma era a livello di base, con circa due milioni di iscritti, e più di dodici milioni di elettori che quella strategia si saldava: un partito che non poteva andare al potere per ragioni internazionali, riusciva a produrre una propria identità culturale ponendola come elemento centrale di governo, soprattutto a livello locale. Negli anni settanta, soprattutto nelle grandi città: Carlo Giulio Argan e Renato Nicolini a Roma, Renato Zangheri a Bologna, Diego Novelli a Torino, Maurizio Valenzi a Napoli. O la rivoluzione culturale che nacque attorno alla terza rete RAI di Angelo Guglielmi.
Ciò che portò allo scioglimento del Partito fu la molta paura; forse un mal riposto istinto di sopravvivenza di una dirigenza senza eredi dello spessore di Enrico Berlinguer, lo dice Rondolino parlando di Occhetto. Il Partito si arrese alle parole dei propri dirigenti. «Occhetto sentiva anche il peso immenso, il dramma, la responsabilità di salvare per quanto possibile la storia collettiva di milioni di donne e di uomini» (Rondolino 2021, p. 400) Il P.C.I. divenne P.D.S. ed il vecchio simbolo finì in basso, poi DS, poi PD. Dalla Bolognina in poi, oramai sarebbe tutto cambiato. Da lì a poco le sezioni sarebbero diventate circoli. I compagni eletti avrebbero ceduto alla lusinga di sentirsi chiamare onorevoli dai loro tesserati e nelle città si sarebbero aperte le segreterie personali di politici ex (molto ex) comunisti.
La scissione a sinistra di Rifondazione Comunista non ha sortito praticamente nessun effetto. Se vista come la continuazione dell’esperienza del Partito di Gramsci, Togliatti e Berlinguer, Rifondazione (e le sue continue filiazioni) ha costruito nell’immaginario collettivo, il luogo di nostalgici ex ignari che l’URSS non esistesse: in realtà non è così, ma così è stata percepita. Combattuta tra movimentismo ed istituzioni, ha finito per risultare la sede di una sorta di situazionismo passivo, incapace di cogliere e rappresentare in forma organizzata le istanze dei nuovi bisogni.
Il grosso del P.C.I. è confluito nel nuovo partito. Anche una figura chiaramente comunista come Pietro Ingrao ha finito per seguire gli altri, ma non per un moto di nostalgia. La sua relazione letta a Rimini, al XIX congresso, l’ultimo del P.C.I., raccolse una ovazione totale e, a distanza di più di trent’anni, ancora oggi sorprende per l’attualità propria di un programma politico comunista e rivoluzionario, «italiano!». Forse Rondolino, dispiace dirlo, era andato a prendere un caffè. Nel testo sottolinea che «tutti erano consapevoli che l’inabissarsi di quel mondo segnava la fine anche del nostro. Finiva il PCI e non c’era niente, ma proprio niente da fare» (ivi, p. 402). Certo, lui era a Rimini a quel Congresso, e poteva vedere le cose che ha raccontato. Ma non è vero che il crollo avrebbe rappresentato la catastrofe, non fosse altro perché quella storia era ancora intrisa di capacità di interrogare i nuovi cambiamenti, le nuove fratture, la precarizzazione di quella che poco dopo avremmo chiamato postmodernità. Ingrao di questo aveva parlato.
La storia non si fa con i “se” e con i “ma”, tuttavia a Rimini, dietro quei delegati c’erano ancora più di un milione e duecentomila iscritti ed altri svariati milioni di elettori. Non possiamo essere sicuri che non ci sarebbe stato proprio più niente da fare. Ciò che viene dopo è un capitolo nuovo che fa parte di una storia che può essere letta ed interpretata. Ma è cosa altra.
Riferimenti bibliografici
E. Macaluso, Comunisti e riformisti. Togliatti e la via italiana al socialismo, Feltrinelli, Milano 2013.
P. Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano. Vol. 5: La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo, Einaudi, Torino 1977.
Fabrizio Rondolino, Il nostro P.C.I. 1921-1991. Un racconto per immagini, Rizzoli, Milano 2021.