Il monello

Il 16 gennaio 1921 a Chicago, il 21 gennaio alla Carnegie Hall di New York, uscì The Kid (Il monello), primo lungometraggio di Charlie Chaplin: successo travolgente, migliaia di persone in fila per vederlo, prima negli Stati Uniti, poi in tutto il mondo. Sono passati cent’anni, e quasi non ci si crede, anche se già nel 1971, in occasione del cinquantenario, lo stesso Chaplin aveva ripreso in mano il film, aggiungendovi le musiche da lui composte ed eliminando (a quanto sembra) tre scene ritenute superflue, relative al personaggio della donna (Edna Purviance). Non sono sicuro che l’inserzione della musica abbia realmente giovato al film, dato che a mio parere ne accentua troppo il versante melodrammatico, ma la commozione, pure a distanza d’un secolo, rimane intatta.

Per tutta la sua carriera, a cominciare dal lavoro in teatro con Fred Karno e dalle comiche di Mack Sennett (nel periodo Keystone), Chaplin mette in scena the tramp, il vagabondo, cioè il se stesso degli inizi, della miseria a Londra, delle privazioni e delle difficoltà familiari – ma ne  Il monello la componente autobiografica risulta particolarmente evidente. Chaplin, nonostante il successo di pubblico ormai assicurato, stava attraversando un momento difficile della sua vita: da poco era morto il suo primo figlio, avuto con Mildred Harris (la prima moglie), nato con gravi malformazioni e sopravvissuto solo pochi giorni. Con Mildred, era in piedi una causa di divorzio, dovuta anche al legame sentimentale con la Purviance.

La perdita del figlio trova compenso nell’immaginario: Charlot diventa padre, adottando il trovatello, il piccolo orfano interpretato da Jackie Coogan, scoperto da Chaplin mentre, all’età di sei anni, lavorava in un vaudeville a Los Angeles. Chaplin rimase incantato dalla sua spontaneità, e subito si stabilì tra i due un legame affettivo, come se fossero veramente padre e figlio, in assenza della madre. Un bambino piovuto dal cielo, frutto d’una sorta di Immacolata Concezione? Non proprio. Durante la passeggiata del vagabondo per le strade di un vecchio quartiere degradato, gli scaricano addosso, dalle finestre fatiscenti, ogni sorta di immondizie, tanto che quando trova il bambino a terra, avvolto nelle fasce, pensa addirittura che anch’esso sia stato gettato da una finestra. Poi lo raccoglie, ma tutt’altro che di buon grado, tanto che cerca di caricarlo sulla carrozzina con la quale una signora sta portando a spasso un altro bambino (suo figlio). Addirittura, è tentato di abbandonarlo sotto un tombino: il tutto sotto la sorveglianza occhiuta del solito poliziotto ottuso, armato di sfollagente.

Ma alla fine Charlot si rassegna al compito che il destino gli ha assegnato, diventa padre e madre, allatta il bambino con una specie di ingegnoso biberon (una vecchia caffettiera), allestisce una sedia sfondata per i suoi bisogni, ecc. Il tempo passa: il monello cresce. A sei anni, gira per il quartiere lanciando sassi contro le finestre dei vicini, e subito passa Charlot, in veste di vetraio ambulante, offrendosi di ripararle. L’unico inconveniente sta nell’eludere la sorveglianza del solito poliziotto. Frattanto la madre (Purviance), che si era subito pentita di aver abbandonato il figlio, è diventata un’attrice famosa, e tenta invano di ritrovarlo. Fa della beneficienza, e conosce il piccolo Jackie, gli regala un peluche, ma non può sapere che si tratta proprio di suo figlio.

Il bambino è cresciuto a una scuola dura. Fa a pugni con un prepotente che vorrebbe rubargli il peluche, e lo pesta di botte – ma il prepotente ha un fratello più grande, di nome Bully, un ex-pugile, che minaccia di restituire a Charlot tutte le botte prese dal fratello: solo l’intervento della signora benefattrice riesce a mettere (temporaneamente) pace.

Charlot e il bambino continuano nella loro attività di rottura e sostituzione dei vetri, finché accade l’inevitabile. Viene rotto un vetro alla finestra della casa del poliziotto. In casa c’è solo la moglie, una bella donna che Charlot subito comincia a corteggiare. C’è tutto un gioco di mani, del tipo in cui Chaplin si era già esibito in Vita da cani (1918), ma qui Charlot non si accorge che il marito della donna, il poliziotto, nel frattempo è rientrato, ed è la sua mano che sta accarezzando, non quella della donna. Al che non resta che la solita rapida fuga, ma quel lavoro può considerarsi perduto. I servizi sociali entrano in azione, vogliono strappare il bambino a Charlot, portarlo in un orfanotrofio: qui risalta la famosa scena di pianto disperato del bambino, che tocca vertici di autentica commozione. Poi, per una volta, i burocrati sono beffati, ma, senza più casa, la coppia fuggitiva è costretta a rifugiarsi in un lercio dormitorio, il cui sorvegliante riconosce il bambino ricercato e lo porta via mentre dorme, per incassare la ricompensa.

La disperazione, a questo punto, costringe a rifugiarsi nel sogno. Charlot sogna che la misera viuzza in cui abita si è tramutata in un angolo di Paradiso, nel quale si aggirano angeli con le ali piumate. Vi si introducono, però, anche alcuni diavoli, decisi a seminare zizzania. L’angelo/Charlot si azzuffa con l’angelo/Bully, in un gran brulichio di piume strappate. L’angelo/poliziotto cerca di arrestare Charlot, che ogni volta gli sfugge tramite brevi voli. Ma infine Charlot viene acchiappato, scosso, svegliato. È il poliziotto stesso a portarlo, assieme al bambino, nella villa della Purviance, in vista di un felice riconoscimento generale.

La figura del padre biologico qui non ha importanza, subito scompare, esce di scena. Il riconoscimento avviene tra la madre biologica e il padre adottivo. Non solo: non si può essere padre, sia pure adottivo, se non si è disponibili a essere anche un po’ madre. La madre era il vero sogno di Chaplin, o meglio, la figura da ritrovare vera al termine del sogno, o del film. A Freud, come sappiamo, il cinema non interessava, ma da una sua lettera del 1931 a Max Schiller, sappiamo che avrebbe voluto conoscere Chaplin, che in quel periodo era a Vienna. Si chiedeva in che modo l’artista fosse riuscito a superare i traumi e le privazioni di un’infanzia infelice. Forse si trattava solo di ricordare, con un sorriso e una lacrima.

Il monello. Regia: Charlie Chaplin; sceneggiatura: Charlie Chaplin; fotografia: Roland Totheroh; montaggio: Charlie Chaplin; musiche: Charlie Chaplin; interpreti: Charlie Chaplin, Edna Purviance, Jackie Coogan, Henry Bergman, Tom Wilson, May White, Jack Coogan sr., Raymond Lee, Charles Riesner, Lita Grey, Edith Wilson, Jules Hanft, Frank Campeau, John McKinnon, F. Blinn, Albert Austin; produzione: Charlie Chaplin Productions; origine: USA; durata: 68’.

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