C’è un’amara sensazione che coglie lo spettatore appena esplodono i funghi atomici nel finale del Dottor Stranamore (1964); e non si tratta solo della consapevolezza dell’inevitabile distruzione totale. We’ll meet again è il refrain della canzone di sottofondo. Sembra quasi una rassicurante promessa. O forse un’inquietante minaccia sussurrata dai furbi dei day after che ce l’hanno fatta. Sorge il dubbio che la fine del mondo sarà solo l’ennesima conferma che questo mondo andava bene, esattamente com’era.
L’ultimo libro di Pierpaolo Ascari, Fine di Mondo. Dentro al rifugio antiatomico da giardino, edito da MachinaLibro, si può considerare un brillante commento che lascia affiorare questo ed altri interrogativi capitali sollevati dalla celebre satira di Kubrick sulla gestione politica della minaccia atomica nella Guerra Fredda. E lo fa rintracciando i nodi paradigmatici della paura della bomba nei dimenticati fallout shelters promossi nel 1961 dal presidente Kennedy. Piccoli santuari dell’american dream che trovarono limitatissima diffusione nell’America del post-Hiroshima e della Guerra Fredda, rimangono comunque simboli di un mondo che tenta di rendere innocua se non addirittura terapeutica la stessa «fine di mondo», un mondo a cui piace dondolarsi su un’amaca ai bordi dell’abisso e gettarvi ripetutamente uno sguardo dentro. Capita però che quel tetro abisso che respinge e assieme attrae, nasconda in realtà il luccichio dello specchio. Guardarvi dentro allora significherà scorgervi l’immagine di un mondo che faccia a faccia con una sua temibile fine rivela come non mai il suo volto più proprio.
Ascari traccia le varie incarnazioni che la minaccia atomica assume nella cultura pop degli anni ‘50 e ‘60 del Novecento. Tra letteratura e cinema sci-fi, ma anche aneddoti ed episodi di cronaca, ne emerge un interessante e caustico ritratto che della celebre pellicola di Kubrick fa tesoro innanzitutto per il tono umoristico-grottesco, quel «senso del ridicolo», con cui dipinge la catastrofe nucleare e il suo uso politico. Il già citato Dottor Stranamore, i fumetti dell’incredibile Hulk, L’ultima spiaggia di Nevil Shute, sia nella sua veste letteraria sia in quella cinematografica, Livello 7 di Mordecai Roshwald, e Godzilla sono solo alcuni degli innumerevoli esempi di cui si serve l’autore per costruire «la struttura portante di un’epoca tramontata» (Ascari 2024, p. 85). In fondo, «Godzilla e i venditori di rifugi si presentano ai portoni della classe media negli stessi giorni e in rapporto alle medesime paure, il bunker e il film diventano formati che consentono a quella gente di pensare l’impensabile» (ivi, p. 50).
Se come rinviene Braidotti in Madri, mostri e macchine (1996), «le attuali manifestazioni di fascinazione per il mostruoso possono essere collegate al fenomeno storico della cosiddetta “sensibilità post – nucleare” cui ci si riferisce anche come precarietà “post-umana”», proprio Godzilla è figura paradigmatica nella lettura di Ascari. La sua mostruosità è l’ultima spiaggia di una ragione incapace di trovare categorie di fronte all’impensabile della catastrofe nucleare; è l’incommensurabile di una distruzione risvegliata da una tecnica ormai ingovernabile, tecnica capace di rendere obsoleto il consolatorio adagio protagoreo dell’uomo posto a misura di tutte le cose.
Ma se il mostro e il sublime kantiano sono “vecchie” categorie che consentono di figurarsi una minaccia altrimenti impensabile e irrappresentabile perché troppo “nuova”, la narrazione americana della bomba risveglia anche tutto un immaginario cristiano dell’apocalisse, in cui si salvano quei pochi eletti che nella favola yankee diventano “i più capaci”. Non solo il self-made man. Ma anche i suoi fratelli minori. Negli incentivi all’acquisto dei kit fai-da-te per la costruzione di fallout-shelters, Ascari rinviene all’opera un’esaltazione dell’uomo «tutto-fare» che con il suo multiforme ingegno troverebbe certo una collocazione ideale nel rifugio anti-atomico: il Mister Fix-it di Orrore su Manhattan (1952), una sorta di incarnazione moderna dell’homo-faber prodotta dal «cantiere della mitologia neoliberale» (ivi, p. 37).
E a proposito di apocalisse, il “profeta” per eccellenza degli anni ’60, Bob Dylan, è citato qui con la sua Let me die in my footsteps. È noto che molti brani del bardo di Duluth abbondano di immagini che riecheggiano l’apocalisse biblica. Ancor più sorprendente, però, è che si ascoltano altre orecchiabilissime canzoni dell’età della minaccia atomica che solleticano con immagini apocalittiche mescolate alle più rassicuranti (e convenzionali) dichiarazioni di amore eterno. «Baby I’m yours And I’ll be yours until the stars fall from the sky […] Yours until the mountain crumbles to the sea», cantava Barbara Lewis nel 1961. È un topos ricorrente e caratteristico della musica pop e R&B dell’epoca: se il mondo cade, l’amore rimane. Spazzato via qualsiasi altro ostacolo, l’apocalisse delle canzoni non minaccia il sentimento: è piuttosto conferma, coronamento, suggello d’eterno.
Allo stesso modo l’apocalisse atomica non rappresentò soltanto l’effettivo pericolo che diede luogo al diffondersi del panico nell’America di Eisenhower e Kennedy, ma paradossalmente, anche una possibile apoteosi del way of life made in USA, l’eschaton che avrebbe portato a compimento l’opera del Geist americano.
Quale mondo l’avanzata del mostro Godzilla non doveva far tremare? Cosa si temeva maggiormente? «La fine di un mondo a caso» o piuttosto «di quello ricco e bianco» (ivi, p. 30)? Esorcizzazione della paura o auspicio tipico di un certo gattopardismo, sembra essere questa la preghiera di un possibile uomo del rifugio antiatomico da giardino. Che la bomba cada affinché tutto, dai vasi coi fiori agli attrezzi del fai-da-te, rimanga tranquillamente adagiato sul davanzale della sua casetta ben arredata, sia essa la tradizionale dimora o il bunker antiatomico: l’importante è comunque che i beni non cambino proprietario, affinché la catastrofe non divenga Catastrofe reale. Perché l’uomo tutto-fare del rifugio è certamente uomo dell’interiorità religiosa luterana, ma anche e soprattutto uomo borghese dell’interieur.
La bomba si rivela allora il banco di prova su cui il sistema americano testa la sua capacità di sopravvivenza, sopravvivenza che dipende a sua volta da quella di determinati assunti ideologici (quelli protestanti e neo-liberali, vagliati anche nel loro connubio), miti di fondazione e costruzioni sociali. Il mito della frontiera, le disuguaglianze di razza e di genere, il culto della merce e la religione tipicamente “fifties” della casa, quei «rapporti molto intimi tra sicurezza e proprietà» che troverebbero nei fallout shelter la perfetta incarnazione, non vengono incrinati. Ne escono semmai «consolidati dalla minaccia nucleare» (ivi, p. 43), preservati da quella shelter morality che si preoccupa di tramandarli a un’umanità di pochi eletti del day after, rafforzati nella narrazione della famigliola diligente, guidata dal padre tutto-fare, pronta ad obbedire in regime militare alle disposizioni della National Shelter Policy e a difendere la frontiera delle proprie mura a colpi di mitragliate da qualsiasi nemico. Esterno, ma soprattutto interno.
La promozione dei rifugi antiatomici da giardino, infatti, si sarebbe inserita in una tendenza meno divertente alla riproduzione delle solite gerarchie di classe (non riguardava appunto i grandi gruppi di persone), di razza (gli afroamericani non possedevano case con giardino) e di genere (perché il rifugio assegnava a ciascun membro della famiglia un ruolo ben definito) che adesso ricavano dall’incombenza della distruzione totale un rinnovato e invidiabile slancio (ivi, p. 29).
Ad oggi che i fantasmi della Guerra Fredda hanno lasciato il posto a quelli di nuovi e non meno pericolosi conflitti, all’indomani di una pandemia in cui le stesse case sono divenute bunker anti-catastrofe, incarnazioni perfette di quelle «nuove ibridazioni tra gli spazi in cui andare a vivere e quelli in cui scampare alla morte» (ivi, p. 23), la ricerca di Ascari si rivela seminale per comprendere un mondo ormai abituato a vivere dentro la propria fine.
Nell’era in cui basta premere un bottone per scatenare la «fine di mondo», la bomba-specchio, ci restituisce l’immagine di un uomo troppo antiquato. Non solo perché ridotto ormai a semplice meccanismo nella concatenazione irreversibile e imprevedibile di eventi tecnologici e globali capaci di scatenare la distruzione totale (per intenderci, è diventato l’anonimo soldato premi-pulsante del romanzo di Roshwald).
Accanto all’antiquiertheit “ontologica” messa in luce da Anders, all’inadeguatezza umana di fronte all’efficienza delle nuove macchine e al mistero del loro funzionamento, emerge, nella miopia di una politica globale che però non rinuncia alla «manipolazione dell’apocalisse» e della sua paura, un’altra e non meno spaventosa “antiquatezza”. Quella di un mondo che si trascina in una pietosa sopravvivenza da accanimento terapeutico, incapace di trasformare i propri paradigmi e di fare dell’apocalisse il luogo del proprio rivolgimento.
Alla fine anche la recente pandemia di Covid-19, occasione mancata di un necessario mutamento di rotta, ha cambiato tutto per lasciare tutto com’era, religione del consumo compresa, che anzi ne è uscita quanto mai trionfante. Il mostro è domato, l’apocalisse manipolata, lo spettro della rivoluzione scansato. Insomma, se la catastrofe funziona sempre da specchio, l’uomo che vi si riflette rimane per adesso l’ottuso pilota immaginato da Kubrick che si ostina ancora a montarle in groppa con fare da cow-boy in un vecchio rodeo.
Riferimenti bibliografici:
G. Anders, L’uomo è antiquato vol. I, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
R. Braidotti, Madri mostri macchine, Manifestolibri, Roma 2005.
Pierpaolo Ascari, Fine di mondo. Dentro al rifugio antiatomico da giardino, MachinaLibro / DeriveApprodi, Roma 2024.