La nuova edizione de Il miracolo della forma di Massimo Recalcati, recentemente edita da Castelvecchi, oltre a presentare un ricco corredo iconografico, dà ampio respiro all’intersezione operata dall’autore tra estetica e psicoanalisi, in un’ottica squisitamente originale, seppure profondamente radicata nell’eredità freudiana e lacaniana. Recalcati si tiene infatti alla larga da qualsiasi tentativo di riduzionismo psicologista, teso a “schiacciare” l’opera d’arte sulla vita o a ricondurre la creazione estetica al fantasma inconscio dell’artista, mirando piuttosto a risignificare il rapporto tra opera e biografia alla luce del processo di soggettivazione e della sua irriducibile singolarità. In quest’ultima prospettiva, si tratta dunque di «ripensare la singolarità dell’opera nel suo intreccio strutturale con la singolarità dell’artista, con il farsi stesso di uno stile» (Recalcati 2024, p. 11).

L’opera d’arte “agisce” pertanto all’interno della vita rigenerandola, donando all’artista nuove chiavi di lettura, che, in maniera retroattiva – après coup – gettano nuova luce sulla biografia, sganciandola dalla logica della fattualità e consegnandola alla contingenza dell’evento. Non si tratta, avverte Recalcati, di negare la necessità delle condizioni di vita in cui l’artista si muove, ma di immaginare un annodamento tra vita e opera «che tiene insieme necessità e contingenza» (ivi, p. 12). In altre parole, è in virtù dell’eccedenza della creazione artistica in seno alla vita dell’autore, della singolarità assoluta dell’opera all’interno della singolarità assoluta della vita, che l’artista può bucare la trama del grande Altro, trovando una cifra irriducibile alle determinazioni biografiche, sociali e culturali, seppur connessa ad esse, ad esempio alla storia dell’arte o all’industria culturale. Il soggetto creatore è, da una parte, sotto l’effetto dell’azione continua dell’Altro sulla propria biografia, dall’altra, capace di “scartare di lato”, di mostrare un’eccentricità in cui si manifesta la singolarità del desiderio dell’artista.

Nel rapporto tra estetica e psicoanalisi, non ci si può esimere dal riferirsi al meccanismo della sublimazione. Il “miracolo della forma” può avvenire proprio in virtù di un processo di sublimazione, di trasformazione simbolica (e immaginaria) di una pulsione. Che cosa significhi questo processo, attraverso cui la pulsione si tramuta in arte e la potenza generatrice del desiderio si incarna nella forma dell’opera, viene chiarito da Recalcati, che sgombra il campo da una versione “difensiva” o “pacificante” della sublimazione, riprendendo lo sforzo di Lacan di mantenersi fedele all’autentica visione freudiana della sublimazione. Secondo quest’ultima, la sublimazione è «una possibilità pulsionale» (ivi, p. 59), e non una neutralizzazione della pulsione.

La sublimazione, massimamente quella artistica, permette di entrare in rapporto con la Cosa, con il nucleo incandescente del reale della pulsione, senza essere bruciati dal suo fuoco. Se il Lacan degli anni cinquanta, con la sua celebre tesi dell’inconscio strutturato come un linguaggio, sembra lontano da questo contatto “scabroso” con il reale della pulsione, limitando in qualche modo l’ordine estetico al registro del simbolico, a partire dal Seminario VII, ci ricorda Recalcati, l’estetica lacaniana mette fruttuosamente in relazione la trama simbolica e immaginaria del soggetto dell’inconscio con la dimensione extra-simbolica del reale. Il miracolo della forma valorizza questa seconda parte dell’insegnamento lacaniano, del resto già evocata da Recalcati ne Il trauma del fuoco: nel volume dedicato al lavoro artistico di Parmiggiani, lo psicoanalista milanese afferma infatti che «la pratica dell’arte contorna il reale irriducibile al simbolico, situandosi al di là del teatro della rappresentazione» (Recalcati 2023, p. 66). Per Parmiggiani, l’opera d’arte ha il compito di “scompaginare” il quadro ordinario della realtà, portando alla luce il trauma del reale, il fuoco della pulsione. Il Reale dell’arte, con Lacan, ci sveglia traumaticamente dal sogno della realtà.

Ma non possiamo avvicinarci al trauma del fuoco senza una barriera, senza qualcosa che ne circoscriva la forza potenzialmente distruttrice. Questa barriera, che ci impedisce di cadere nel vortice della Cosa, è rappresentata per Lacan dal Bene e dal Bello, ma è il Bello ad essere l’ultima àncora o l’ultimo scongiuro prima della voragine senza-fondo. Il Bello è la barriera più vicina al desiderio, dunque la più prossima alla caduta nel vuoto, ma allo stesso tempo quella più in grado di farci godere, con Nietzsche, della “terribilità degli abissi”. Questo è il senso dell’estetica lacaniana del vuoto, il cui paradigma è rinvenuto da Recalcati nell’opera di Cézanne e Morandi: organizzare il vuoto del vortice pulsionale, scongiurare la caduta nell’abisso, e nello stesso tempo farci sporgere sul caos per sentirne la forza. In quest’ottica, compito dell’arte è «integrare continuamente […] la forza dell’informe nella forma» (Recalcati 2024, p. 80).

Questa tesi si inserisce nella rivalutazione recalcatiana del Lacan lettore di Nietzsche, e in effetti la visione lacaniana dell’arte rievoca da molto vicino la cornice nietzschiana de La nascita della tragedia, per cui Recalcati afferma coerentemente che «l’apollineo può dare esistenza alla forma […] solo perché l’uomo ha raggiunto la verità tragica sull’assenza di fondamento dell’esistenza, solo perché ha incontrato […] la dimensione orrenda dell’informe» (ivi, p. 85).

A dire il vero, oltre alle implicazioni nietzschiane, e non è un caso, pare qui di risentire l’eco del Deleuze di Logica del senso, testo profondamente estetico e psicoanalitico, in cui viene proposto un pensiero della superficie che «non è più quello della forma e nemmeno quello dell’informe» (Deleuze 2009, p. 100), ma una “macchina dionisiaca” che tiene insieme struttura e divenire, simbolico e reale, per dar vita a un “caos calmo”, un chaosmos joyciano. È sulla scorta di questa connessione tra simbolo-immagine e pulsione, tra forma e forza, che Recalcati si oppone duramente all’«apologia ideologica dell’informe» di Krauss e Bois (Recalcati 2024, p. 145) di matrice batailliana, così come alla linea analitico-concettuale che fa evaporare la forza in una deriva teoreticista.

Non che Recalcati arretri di fronte alla potenza del fuoco che vivifica l’opera d’arte: evocando la seconda estetica lacaniana, quella anamorfica, esemplificata dai Gobbi di Burri, nel saggio viene infatti messo in evidenza come l’opera d’arte sia essenzialmente un incontro – un incontro “perturbante”, nel senso freudiano dell’unheimlich. Non più l’incontro col quotidiano delle mele di Cézanne, ma la rottura dell’ordine familiare in seno allo stesso quotidiano: ciò chiarifica che l’opera d’arte ci mette di fronte al nostro straniero interno, alla pulsione che ci abita e che ci rende estranei a noi stessi.

Per Lacan, l’opera mi afferra e “mi punge”, come il punctum barthesiano ne La camera chiara. Questa puntura traumatica dell’incontro col Reale non deve farci rinunciare a praticare «un taglio nell’ombrello» per «far passare un po’ di caos libero e ventoso e inquadrare in una luce brusca una visione che appare attraverso la crepa» (Deleuze, Guattari, 2002, p. 206). Questa funzione “visionaria” che si manifesta sotto forma di un lampo di Reale viene affidata da Deleuze e Guattari, non a caso, oltreché al pensiero filosofico e alla scienza, all’arte.

L’intreccio tra dimensione estetica e psicoanalitica si fa a questo punto ancora più chiaro. L’incontro con il reale della pulsione che avviene grazie all’opera d’arte è generato dall’oggetto (a) causa del desiderio, è qualcosa che viene dal mio intimo-estimo, dalla parte perduta del mio godimento. È per questo che l’arte non è rappresentazione di qualcosa, ma presentazione di un’assenza, di una mancanza. Recalcati non manca di sottolineare a più riprese come la sublimazione artistica consista proprio in questa presentificazione di un’assenza, di una Cosa che non c’è e non può essere lì, perché la sua forza ci travolgerebbe. Dobbiamo dunque avvicinarci alla pulsione in maniera “velata”, sublimata, senza rimuovere l’“oscuro oggetto del desiderio”, ma non pretendendo di svelarlo.

L’arte fa questo in due modi, i due “miracoli della forma”: o presentando, attraverso l’oggetto, ciò che non è l’oggetto (le mele di Cézanne presentano l’assenza della Cosa, dell’oggetto perduto); o mettendo in luce l’assenza dell’oggetto, che convoca la presenza della Cosa (è il caso dell’arte di Duchamp). Nel primo caso, quello della presentificazione, Cézanne mostra un oggetto comune come delle mele per rivelare un’assenza. Nel secondo caso, quello dell’assentificazione, come ne La fontana di Duchamp, non si mostra nulla, anzi un oggetto come un orinatoio viene svuotato della sua destinazione abituale, perché possa mostrarsi “al suo posto” il vuoto della Cosa, il reale della pulsione.

Artisti come Cézanne, Morandi, Burri, Tàpies – per inciso, a quest’ultimo Recalcati assegna un importante ruolo nella sua storia personale – ci permettono di non modellare l’inconscio su di una rappresentazione teatrale (ispirata alla freudiana interpretazione dei sogni), ma di imbatterci in esso (nell’Es) come in una presenza enigmatica, una presenza assente o un’assenza presente. Per accostarsi all’enigma dell’opera d’arte, non ci si deve domandare dunque: cosa significa questo? Cosa vuol dire? Sarebbe infatti come ricadere nell’idea che dietro il significato manifesto dell’opera ci sia un significato latente, che dietro la superficie si celi una profondità inconscia da rivelare. Non si tratta di interpretare l’opera alla luce delle categorie del senso, ma di accoglierne l’evento.

Recalcati, riprendendo Burri, ci ricorda che l’inconscio dell’opera è la “presenza irriducibile” dell’opera stessa, del vuoto che essa non pretende di rappresentare, ma che inevitabilmente finisce per evocare. Ogni opera d’arte, scaturita dalla pulsione di vita o dall’amore, annuncia un vuoto, ed è questo il suo legame con la morte, questo annodare il principio di piacere con ciò che va al di là di esso, tenendo insieme Eros con Thanatos. È forse questa la lezione più profonda de Il miracolo della forma.

Riferimenti bibliografici
M. Recalcati, Il trauma del fuoco. Vita e morte nell’opera di Claudio Parmiggiani, Marsilio, Venezia 2023.
G. Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 2009.
G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 2002.

Massimo Recalcati, Il miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica, Castelvecchi, Roma 2024.

Tags     Deleuze, estetica, Lacan
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